Giugno 2008

Storia di corsi e ricorsi economici

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Globalizzazione per chi
Costantino Polidori  
 
 

 

 

 

I benefici della globalizzazione appartengono
in particolar modo
ai Paesi che sanno
meritarseli, sia
adeguando
la loro struttura sia sapendone
governare
il processo.

 

Il 9 novembre 1989 il Muro di Berlino cessa di esistere, e insieme con lui scompare la divisione tra Primo, Secondo e Terzo Mondo. Da allora, non abbiamo più la rigida distinzione tra Paesi capitalisti e Paesi comunisti che aveva caratterizzato buona parte del XX secolo, e prevalgono le “economie di mercato”, seppure molto diseguali quanto a ruolo e a qualità dello stesso mercato.
La distinzione più comune oggi è tra Paesi sviluppati e Paesi emergenti. Ciò che più di ogni altra cosa caratterizza l’epoca in cui viviamo è però la “globalizzazione”: la crescente interdipendenza tra tutti (pochissimi esclusi) i Paesi del mondo.
Esaminandone le caratteristiche principali, dobbiamo confrontare la globalizzazione odierna con quella – molto diversa – che già si era manifestata nel passato. E dobbiamo misurarne gli aspetti, e infine considerare costi e benefici: il giudizio prevalente, che ci appare condivisibile, è che il saldo costi-benefici sia positivo, che cioè la globalizzazione presenti evidenti benefici netti rispetto alla situazione precedente.
Non si può peraltro trascurare come non vi sia sempre coincidenza tra chi quei costi sopporta e chi quei benefici riceve. Mancando regole e/o politiche volte a compensarne le conseguenze meno positive, è chiaro perché ad alcuni – più sensibili ai temi dell’equità, cioè dei confronti interpersonali – la globalizzazione non appaia desiderabile. Ma definiamo meglio come la globalizzazione si presenta, e quali ne sono le principali caratteristiche odierne.
La definizione più comprensiva è quella dell’interdipendenza: l’evoluzione economica di ciascun Paese più che in passato dipende da quella degli altri Paesi e a sua volta influenza il loro andamento. Opera un articolato meccanismo di reciproca influenza che fa sì che l’effetto complessivo di ogni fatto rilevante sia l’integrale di una serie di effetti parziali in tantissime direzioni.

Un forte aumento del prezzo del petrolio, oppure l’invenzione di una nuova tecnologia, oppure ancora un grave fatto di terrorismo: gli effetti (positivi o negativi) che ciascuno di questi avvenimenti produce si manifestano in vari modi in tutti i Paesi del mondo, con velocità di reazione che dipende dai tempi (sempre più brevi) di trasmissione delle idee (le notizie) e dai tempi (anch’essi sempre più brevi) con cui si muovono i capitali, le persone, le merci. Le reazioni dipendono altresì dalla maggiore o minore flessibilità di ciascun sistema economico e sociale: anche questa flessibilità è molto aumentata negli ultimi quindici anni, e ciò concorre a determinare un mondo così diverso da quello cui eravamo abituati.
La globalizzazione ha inizio con la riduzione (fino a zero) delle precedenti barriere (tariffarie e non) alla mobilità, accentuata dal grande miglioramento (anzitutto tecnologico) delle comunicazioni. Il diffondersi a partire dagli anni Novanta di una tecnologia dichiaratamente globale (www significa world wide web, cioè rete mondiale) com’è Internet, è sinonimo della globalizzazione che ne è stata favorita. Assieme al commercio internazionale di merci che aumenta di dimensione, occorre sottolineare l’accresciuta mobilità dei fattori produttivi: lavoro e capitale. Si integrano i mercati finanziari e cresce il ruolo degli IDE (Investimenti diretti dall’estero).

I principali tratti distintivi della globalizzazione sono dunque tipici dei processi caratterizzati da interdipendenza: l’accresciuta mobilità produce integrazione; i comportamenti in un mercato (ad esempio, quello del lavoro) dipendono dalle condizioni prevalenti negli altri mercati (ad esempio, quello dei capitali); è continuamente ridotta la sovranità di ciascun governo, e più in generale l’autonomia di ciascun Paese.
Quest’ultimo aspetto merita di essere sottolineato, anche perché ha tardato ad essere riconosciuto e tuttora non ha ricevuto sufficiente attenzione. Siamo stati abituati a considerare due modelli prevalenti di Paesi: quelli di maggior dimensione, relativamente autosufficienti; e, in alternativa, quelli di piccola dimensione, molto “aperti” al resto del mondo.
Nel primo caso, all’autonomia-Paese corrisponde la massima “sovranità” del relativo Governo: gli strumenti delle diverse politiche sono efficienti ed efficaci, e consentono sempre di compensare gli eventuali effetti indesiderati di cambiamenti delle “esogene”, vale a dire di quelle variabili che sono determinate altrove. Nel secondo caso – tipico dei Paesi “piccoli e molto aperti” – le conseguenze di variazioni delle “esogene” sono così rilevanti da non poter essere facilmente neutralizzate con gli strumenti disponibili.
In passato, avevamo un certo numero di Paesi dell’uno e dell’altro tipo: i maggiori tra i Paesi sviluppati (Italia compresa) erano del primo tipo sia per la dimensione economica sia per l’esistenza di barriere agli scambi. Ed era normale ragionare (cioè commentare, criticare o approvare, e comunque discutere) della politica economica dei Governi di ciascuno di quei Paesi.
Poi vi erano anche tanti Paesi, piccoli da un punto di vista economico e/o poco “protetti” da barriere agli scambi (pensiamo al Belgio, all’Olanda, all’Irlanda; ma anche a diversi Paesi emergenti), che potevano solo adeguarsi a quanto altrove prevalente, senza riuscire a produrre risultati molto diversi.

La globalizzazione che si sta realizzando ha notevolmente contribuito a ridurre quelle differenze: tutti i Paesi stanno diventando sempre più “piccoli e aperti”, dipendono cioè dagli altri e li influenzano, secondo il modello che abbiamo appunto definito dell’interdipendenza. La “perdita di sovranità” che ciò misura contribuisce al clima di incertezza, e a volte di disorientamento, che è uno dei costi della globalizzazione.

Quando si parla di globalizzazione, si è soliti dire che negli ultimi quindici anni il mondo “è tornato ad essere globale”, come era stato altre volte in passato. Il riferimento più frequente è al periodo (anche chiamato “Belle époque”) che va dalla fine dell’Ottocento allo scoppio della Prima guerra mondiale (1914): sono trent’anni di progresso economico e sociale caratterizzato da un grande aumento del commercio internazionale e più in generale della mobilità dei fattori produttivi: lavoro e capitale.
Tutto ciò è vero, come è evidente il contrasto tra quei trent’anni e gli anni successivi, caratterizzati di nuovo da protezionismo e nazionalismo. Il confronto è però inesatto da più punti di vista, seppure serva a ricordarci che passate esperienze di globalizzazione si sono rivelate temporanee e reversibili. Può ripetersi anche questa volta? Risponderemo fra poco.
Ma per quanto riguarda il giudizio sui precedenti, è evidente perché l’esperienza che stiamo vivendo sia unica nella storia dell’umanità. Di grandi Imperi che hanno guidato il mondo ne abbiamo visti tanti, anche solo negli ultimi venti secoli della nostra civiltà. E abbiamo già visto tante volte le navi trasportare negli oceani idee, soldi, merci e uomini (qualcuno ricorda come i negri furono portati in America per coltivare i campi?).
Ma anche negli Imperi meglio organizzati (pensiamo a quello inglese, che includeva l’India e un bel po’ d’Africa) mancava quell’elemento di interdipendenza che è invece essenziale oggi. Non a caso, l’Inghilterra usava manodopera e materie prime attinte dalle colonie, ma non spostava in quei Paesi le sue fabbriche.
Le condizioni odierne sono diverse non soltanto per motivi tecnologici (Internet è più efficiente del telegrafo), ma anzitutto per motivi politici ed economici: l’interdipendenza significa qualcosa di molto diverso dalla dipendenza.

Illustriamo alcune caratteristiche delle tendenze in atto, che riguardano un po’ tutti (come è tipico di ogni dato che misura la globalizzazione): prima di tutto, il contributo alla crescita dell’economia mondiale. L’accelerazione della crescita caratterizza il Prodotto interno lordo planetario da metà anni Novanta, in linea con il consolidarsi del fenomeno in questione.
È a partire da quegli anni che la crescita dei Paesi emergenti accelera sia rispetto alla propria precedente esperienza sia rispetto ai Paesi sviluppati. Questi ultimi continuano a crescere come già avevano fatto in passato: se hanno tratto beneficio dell’accelerata crescita dei Paesi emergenti è perché ciò ha compensato quello che altrimenti sarebbe stato un rallentamento. O meglio, la spiegazione più probabile è che l’accelerata crescita dei Paesi emergenti sia dipesa anche (e inizialmente molto) dagli investimenti diretti nostri, vale a dire dal nostro outsourcing, che è il modo con cui i Paesi avanzati crescono non solo “in casa propria”.
Vediamo poi le tendenze più recenti nell’ambito dei Paesi emergenti: al decollo cinese, si sta affiancando quello particolarmente rapido indiano, che si va ormai muovendo verso tassi di crescita annui del Pil dell’ordine del 10 per cento. Infine, il saldo export-import è positivo per i Paesi emergenti dell’Asia e per il Giappone, mentre è negativo per i Paesi sviluppati, cioè Stati Uniti e zona Euro. Sono i Paesi a minor reddito pro-capite quelli che finanziano lo squilibrio, cioè il crescente valore delle importazioni nette, dei Paesi più ricchi.
Per quanto può durare uno sviluppo così squilibrato e così distorto, anche rispetto al passato? Nell’odierno mondo globale non stupisce che un efficiente mercato dei capitali consenta il permanere a lungo di uno squilibrio tra Paesi che importano molto e Paesi che non riescono a spendere il ricavato delle loro esportazioni. Il problema anche qui è però la possibilità che ciò duri a lungo senza che operino correttivi efficaci, né di mercato (ad esempio, variazioni dei tassi di cambio) né di governo (ad esempio, politiche economiche volte a stimolare i consumi o le esportazioni nei due gruppi di Paesi).
Per effetto della globalizzazione e della differente crescita che la caratterizza – rispettivamente nei Paesi più sviluppati, come l’Europa, e in quelli emergenti – è chiaro che stanno cambiando molto i “pesi” economici di ciascuna area. In passato, i divari di reddito pro-capite erano tali che il reddito nazionale dei Paesi più ricchi era comunque maggiore di quello dei Paesi più poveri, anche se questi ultimi erano dieci volte più popolosi.
Ciò non è più vero: la quota del totale che spetta ai Paesi emergenti continua a crescere. Se confrontiamo quote di Pil mondiali del 1980 con quelle del 2006, vediamo chiaro il “declino” dell’Unione europea, scesa dal 21 al 20 per cento, mentre la crescita dei Paesi emergenti e di quelli in via di sviluppo è di poco superiore: dal 39 al 48 per cento. Sul piano del commercio mondiale, l’area euro – alle stesse date – è stata ridimensionata di meno, passata com’è dal 34 al 29 per cento. Ciò significa che noi siamo più di altri orientati all’esportazione, e non al soddisfacimento totale della domanda interna di consumi. In ultima analisi, la nostra complementarità con la fortuna dei Paesi emergenti è più evidente di altre aree sviluppate (Usa e Giappone).

Il primo evidente beneficio dell’economia globale consiste nell’aumentata e crescente dimensione del mercato dal quale sappiamo (Adam Smith, 1776) dipendere lo sviluppo economico moderno. Nella sua analisi sulle cause della (crescente) ricchezza delle Nazioni, Adam Smith sottolineava soprattutto la specializzazione del lavoro e l’innovazione come i due meccanismi attraverso i quali un mercato più grande favorisce la crescita.

La globalizzazione, nella misura in cui coinvolge sempre più Paesi e sempre più persone, e soprattutto nella misura in cui aumenta anche la qualità del mercato, di ciascun bene e di ciascun fattore produttivo, è dunque un potente motore di crescita. Ma già l’operare del mercato globale, invece dei tanti precedenti mercati nazionali più o meno isolati, consente un’allocazione delle risorse molto più efficiente. Minori costi di produzione e più alti livelli di produttività significano un potenziale maggior benessere da distribuire ai popoli coinvolti.
I guadagni per quanto riguarda due essenziali obiettivi economici – sia l’efficienza sia la crescita – sono dunque evidenti. Non piovono dal cielo, ma devono essere “meritati”, com’è ovvio ogni volta che parliamo di mercato. Il mercato (da non confondere con il luogo fisico nel quale gli scambi avvengono materialmente) è infatti un sistema di regole, è cioè un prodotto dell’uomo, e non esiste in natura. La qualità del mercato è dunque tipico risultato di buone regole, rispettate e fatte rispettare.
La globalizzazione cui stiamo partecipando rappresenta un evidente progresso per moltissimi dei Paesi coinvolti e dipende dalle migliori condizioni in cui si svolge l’attività economica. Oltre certi livelli, tuttavia, quei progressi dipendono dal miglioramento delle regole che guidano l’interagire delle economie nazionali. Mancando un livello di governo nei confronti dell’economia globale, adeguato alle nuove sfide, è chiaro perché quei progressi siano solo faticosamente conseguiti, con l’assistenza degli organismi internazionali (Onu, Wto, Fmi, ecc.) esistenti, molti dei quali attendono ancora di essere adeguati alle nuove condizioni.
Ma il ragionamento sulla governabilità (la famosa governance) con cui procede la globalizzazione è più generale e non riguarda solo gli organismi internazionali, gran parte dei quali sono stati fondati quando il mondo era completamente diverso. Perché ciò che vale a livello più generale, nei rapporti tra le maggiori aree economiche e sociali del mondo, vale anche per le dimensioni minori. Pensiamo all’Europa e alla stessa Italia.
L’Europa – dopo la caduta del Muro di Berlino e la scomparsa dell’Unione Sovietica – è riuscita nell’operazione politica del suo ampliamento (siamo passati a 27 Paesi membri), ma non in quella non meno importante della sua miglior governabilità.
Il risultato è che la globalizzazione produce benefici nella misura in cui ci adeguiamo al nuovo mondo. Ma se poi non riusciamo a gestire il necessario cambiamento tutto ciò non si realizza. O si realizza in modo parziale, in ritardo. E si consolida quindi una situazione di ridotta governabilità.
Abbiamo citato i ritardi dell’Europa, ma lo stesso si può dire a maggior ragione dell’Italia, che non solo non si è adeguata a quanto richiesto per trarre beneficio dalla globalizzazione, ma non ha neppure fatto quanto necessario per accompagnare i progressi dell’integrazione con l’avvio, a partire dal 1° gennaio 1999, dell’Unione monetaria e la conseguente sostituzione dell’euro alla lira. Basti pensare che la stessa Banca d’Italia solo fra qualche anno avrà adeguato la sua struttura territoriale, riducendone la dimensione, alla novità intervenuta otto anni fa con l’introduzione della moneta europea.
In conclusione: i benefici della globalizzazione appartengono soprattutto ai Paesi che li meritano, sia adeguando a ciò la loro struttura sia sapendone governare il processo. Quest’ultimo aspetto richiede a sua volta la capacità di ciascun Paese di interagire in modo positivo con gli altri: mandando un comune superiore livello di governo (vera e propria utopia ancora per molti anni), ciò che si può cercare di fare è una serie di “giochi cooperativi” tra Paesi e loro Governi.
Più che ipotetiche situazioni di equilibrio e posizioni di “ottimo” ottenute da mercati perfetti, o quasi, (essendo queste a volte molte teorie “liberiste” della globalizzazione), ciò che conta è la capacità di adottare regole, e politiche, di comune interesse. Modelli dinamici di interdipendenza inducono a ricercare soluzioni di volta in volta migliorative della realtà, non accontentandosi mai dei risultati già conseguiti, visto che l’innovazione non è destinata ad arrestarsi.
L’aspetto più significativo dei benefici della globalizzazione è infatti proprio questo: l’accelerata tendenza al cambiamento che caratterizza non solo i Paesi emergenti (che hanno di fronte a sé un enorme divario da colmare) ma anche i Paesi più sviluppati. Basti pensare a come l’accelerata crescita dei BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) stia costringendo anche noi Paesi sviluppati ad affrontare nuove sfide nei due campi più delicati della globalizzazione: energia e ambiente. Vincoli e nuove opportunità vanno di pari passo in tutto ciò che caratterizza la ricerca e qualifica l’innovazione.

Abbiamo già messo in rilievo che in termini di efficienza e di crescita la globalizzazione presenta evidenti benefici. Il mondo che abbiamo conosciuto negli ultimi tre lustri è molto migliorato per ambedue quei punti di vista: le risorse risultano allocate in modo più efficiente e la crescita dell’economia globale è soddisfacente.
Tutto bene, allora? Evidentemente no. I problemi non mancano, ma riguardano altri due criteri-obiettivo economici misurati rispettivamente dalla stabilità e dall’equità. Un mondo globale, come tale mal regolato e poco governato, è anche un mondo fragile, periodicamente caratterizzato da instabilità finanziaria. L’abbiamo ben visto negli ultimi 15 anni: crisi finanziarie ce ne sono state anche in passato, ma mai così frequenti come in questi anni. Analogo il ragionamento da fare in termini di equità: non è che in passato non vi fossero – all’interno di ciascun Paese e tra i diversi Paesi – grandi differenze tra livelli di reddito e benessere. Ma la globalizzazione ha ulteriormente accentuato questi divari.
Ambedue questi aspetti sono anzitutto legati all’accentuata mobilità dei capitali, che da un lato consente un’allocazione più efficiente del capitale stesso, e quindi una gestione più efficace del suo rischio di investimento; ma dall’altro lato porta a fenomeni di “competizione fiscale”. Per evitare fughe e risultare invece attraenti nei confronti dell’investimento dei capitali altrui (e in questi anni è cresciuto uno stock di dimensione molto rilevante di capitale sempre più “apolide”) è chiaro perché via via sempre più Paesi riducano la tassazione. Il possibile contrasto di ciò con obiettivi di equità è evidente. Come è evidente la fragilità – dal punto di vista della stabilità finanziaria e delle sue conseguenze anche macroeconomiche – che deriva da una situazione in cui questo capitale senza patria può rapidamente muoversi da un Paese all’altro, da un settore all’altro, da una forma all’altra.

Le tante crisi registrate in questi anni rappresentano in parte la reazione – si potrebbe dire quasi fisiologica o addirittura benefica – agli eccessi che si sono precedentemente manifestati. Bolle e mode, spesso originate dai comportamenti imitativi con cui si muove il “gregge” degli intermediari e degli stessi operatori più esperti, tendono a nascere, crescere e terminare, una dopo l’altra in una successione continua, senza fine apparente.

Ma non è solo un problema di comportamenti, è anche una questione di regole inadeguate e a volte comunque non rispettate (in tal caso parliamo di “scandali” più che di “crisi”). Ciò che prima osservavamo per quanto riguarda i ritardi con cui si muove la governance della globalizzazione vale a maggior ragione anche per i ritardi con cui si adeguano le regole che presiedono al funzionamento – sempre più globale – del mercato dei capitali. Le principali Autorità di Vigilanza sono tutte ancora nazionali, mentre quelle internazionali esistenti (pensiamo al Fmi) o sono datate nella loro missione o sono comunque spiazzate da mercati che sono cresciuti enormemente.
Abbiamo dunque molti costi della globalizzazione – in termini di equità e di stabilità – anzitutto perché abbiamo tardato a ridisegnare, come oggi richiesto, i nostri sistemi fiscali, ma anche le regole, e le Autorità di Vigilanza, dei mercati finanziari.
Analogo ragionamento si può fare per quanto riguarda la tutela dei lavoratori e più in generale i nostri sistemi di welfare. Anche per questi aspetti, la globalizzazione è una sorta di “lente d’ingrandimento” dei difetti, o almeno – diciamo – dei ritardi con cui adeguiamo quelli che in passato abbiamo considerato passi avanti importanti nella direzione di una buona economia di mercato, equa e stabile.
Conciliare la necessaria – più di prima! – flessibilità con quanto richiesto da considerazioni di equità nella distribuzione del reddito e del benessere non è sempre facile, ma è pur sempre necessario. Continuare a rinviarne l’attuazione serve a mantenere un atteggiamento critico nei confronti della globalizzazione, di cui è quindi più facile individuare difetti e costi.
L’ultima osservazione riguarda le caratteristiche della globalizzazione finanziaria cui abbiamo accennato. Perché è in questo campo che l’interdipendenza non è ancora completa, e di fatto il dollaro Usa continua ad occupare un ruolo dominante, che è maggiore del peso che ancora rappresentano l’economia e il Pil degli Stati Uniti.
In altre parole, il mercato dei capitali è rimasto “centrato sul dollaro”, anche se le tendenze reali sono andate in direzione opposta. Per intenderci, è ben possibile che il back office di una banca americana con sede a New York finisca in Brasile.
Come è possibile che sia il risparmio dei Paesi BRIC a finanziare buona parte del deficit federale americano. Ma resta il fatto che nessuna altra valuta ha saputo scalzare il ruolo che sui mercati finanziari è tuttora svolto dal biglietto verde. È in particolare a New York, a Wall Street, il “termometro” di ciò che succede alla finanza mondiale. Il che significa che qualsiasi “notizia” (positiva o negativa) non ha manifestato tutti i suoi effetti finché non è stata resa nota a New York, ed è così “andata nei prezzi” delle attività finanziarie di tutto il mondo. Questo ruolo egemonico del dollaro – sproporzionato rispetto al peso del Pil (o del commercio estero) degli Usa sul mercato planetario – non sembra prossimo ad essere ridimensionato né ad opera di altre valute dei Paesi sviluppati (qui l’alternativa è l’euro, che però non ha ancora raggiunto la necessaria maturità) né dei Paesi emergenti.
In questo secondo caso proprio non c’è la necessaria reputazione né – ancor meno – le buone regole che servono a dare fiducia. Ci vuole ancora molto tempo prima che ciò sia superato. Dopo tutto, ora la crescita del Pil mondiale dipende più dalla crescita della Cina che da quella degli Stati Uniti.
Un bilancio preciso dei costi e dei benefici della globalizzazione è difficile, anche perché i quattro criteri con i quali si possono misurare gli uni e gli altri non sono direttamente addizionabili. D’altra parte, i “pesi” di una funzione sociale del benessere in grado di sommare i “guadagni” in termini di efficienza e crescita con le “perdite” in termini di stabilità ed equità sono soggettivi.
Anche il criterio tipico della teoria del benessere – di valutare il cambiamento dal punto di vista degli “ultimi” – non dà risultati univoci. Perché se è vero che grazie alla globalizzazione abbiamo dato una speranza di vita migliore a miliardi di persone, è però anche vero che tanti di loro nel frattempo si trovano sottoposti a condizioni di lavoro poco rispettose della dignità dell’uomo.
Lavoro illegale, sfruttamento, degrado ambientale: la forte concorrenza che arriva dai Paesi emergenti produce timori di competizione sleale e richieste di protezione nei Paesi già sviluppati, e questo ci ricorda quanto i frutti della globalizzazione siano mal distribuiti. In ultima analisi, i benefici netti – assistiti dai necessari “giochi cooperativi” tra Governi dei principali Paesi quanto al miglioramento delle regole – garantiranno nel tempo la sostenibilità sociale della globalizzazione. In caso contrario, potremmo registrare il rallentamento o addirittura l’inversione di questa tendenza.
Già in Europa si è manifestato il timore della concorrenza portata dall’idraulico polacco, cui vediamo oggi aggiungersi la paura dell’operaio cinese, dell’ingegnere indiano, e così via. Solo nelle analisi degli economisti, ciò che è nell’interesse del consumatore è per definizione nell’interesse di tutti (non siamo tutti consumatori?).
La conclusione più generale è dunque quella che occorre procedere sulla strada del “governo della globalizzazione” per evitare che altrimenti i suoi costi inducano al ritorno del protezionismo, che già più volte in passato ha segnato tendenze regressive in campo sia economico sia sociale.

 

   
   
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