Giugno 2008

Tra ricerca e divieti

Indietro
Sarà disastro agricolo?
M.B. - D.M.B.  
 
 

 

 

 

 

Oggi, circa
la metà del mais
italiano ha un
contenuto
di tossine così
elevato, che non
potrebbe essere
in alcun modo
commercializzato.

 

La capacità di presentarsi impreparati agli appuntamenti molto importanti sembra essere una prerogativa tutta italiana. In questi tempi assistiamo a due fenomeni distinti, ma tra loro legati: l’aumento inarrestabile del prezzo del greggio e la crescita esponenziale dei prezzo del mais sui mercati nazionali. Gli Stati Uniti hanno scelto di dirottare parte del mais verso il biodiesel, ottenendo in questo modo due vantaggi sincroni: diminuire l’importazione di prodotti petroliferi, e raddoppiare il prezzo del mais, che gli Usa esportano in tutto il mondo. In definitiva, ne riceve un doppio vantaggio lo scambio commerciale americano, ma soprattutto la fascia politico-economica che, quando a fine anno dovrà rinnovare il cosiddetto Farm Bill, potrebbe ridurre le attuali sovvenzioni protezionistiche ai farmers del Mid West, dal momento che ora vendono molto meglio le loro pannocchie.
Mentre in Italia si discute ancora dei rigassificatori e l’Enel acquista all’estero centrali nucleari, dato che il suolo patrio deve rimanere immacolato, le politiche agricole tricolori mostrano tutto il corto raggio visivo da cui sono state ispirate.
Il mais è la prima coltivazione italiana, e soprattutto è fortemente sovvenzionata dall’Unione europea. Nel nostro Paese, tra il 2001 e il 2006, le superfici coltivate a mais sono aumentate dell’1,5 per cento, ma la produzione si è ridotta del 3,2 per cento. In realtà, è dal 1999 che non si hanno aumenti significativi della produzione media italiana di mais, mentre normalmente la crescita è stimata in circa l’1,5 per cento all’anno. Dunque, negli ultimi otto anni gli agricoltori italiani hanno perso il 12 per cento della produzione per mancata innovazione.

Sì, perché la ricerca e l’innovazione sono andate avanti sulle sementi transgeniche, mentre non c’è stata innovazione su quelle “tradizionali” a cui l’Italia si è votata. Solo per l’annata 2007 i mancati aumenti di produzione sono costati agli agricoltori di casa nostra 250 milioni di euro, e la cosa non finisce qui. Nel 2001 il mais italiano soddisfaceva il 98 per cento del fabbisogno italiano, mentre nel 2006 la quota è scesa all’87 per cento della richiesta nazionale. Quel che manca, lo dobbiamo importare a 180 euro a tonnellata, un prezzo che non scenderà certamente, ma con tutta probabilità aumenterà nei prossimi anni.
Tra breve mancheranno al nostro Paese non meno di 300 mila tonnellate di mais all’anno, il che significa che dovremo importare mais per non meno di 540 milioni di euro. Il 90 per cento del mais serve per l’alimentazione zootecnica, e si sa che con circa venti litri di latte si fa un chilo di formaggio.
A breve giro, dunque, grana padano e parmigiano reggiano, tanto per citare i due prodotti più famosi in Italia e nel mondo, dovranno registrare nuovi, consistenti aumenti, e l’imputato numero uno (insieme con le immancabili speculazioni) è proprio il costo delle materie prime sui mercati internazionali.
Queste stime sono in realtà ottimistiche, dal momento che trascurano il fatto che dal primo ottobre 2007 è entrata in vigore la normativa comunitaria sul contenuto in fumonisine del mais (1881/2006). Le “fumonisine” sono tossine di origine fungina che provocano tumori all’esofago nell’uomo e malformazioni al sistema nervoso centrale di feti di donne in gravidanza. Oggi, circa la metà del mais italiano ha un contenuto di fumonisine così elevato, che non potrebbe essere in alcun modo commercializzato. Solo alcune varietà di mais da ogm, il mais Bt, hanno dimostrato di avere un contenuto in fumonisine molto più basso dei nuovi parametri comunitari.
Di fronte a uno scenario del genere, a un coltivatore di mais brillerebbero gli occhi. Se potesse coltivare mais Bt, avrebbe un aumento di produzione pari a 280 euro per ettaro e una riduzione dei costi di gestione di 150 euro per ettaro, perché non dovrebbe utilizzare pesticidi e macchine agricole costose per spargerli, produrrebbe un mais ottimo dal punto di vista della sicurezza alimentare, e con ogni probabilità venderebbe a un prezzo molto più alto dei 180 euro, in quanto adatto per il consumo di categorie più tutelate, come bambini e donne in gravidanza. Insomma, una vera e propria manna dal cielo.

Peccato – si dice – che dopo aver fatto tutti questi sogni ci si debba svegliare e accorgersi che si vive in un Paese nel quale c’è chi ha progetti molto diversi, che avere un campo di proprietà privata e rispettare la legge non è sufficiente a esser liberi di fare impresa, che esiste una varietà di mais Bt autorizzata in tutta l’Unione europea sia per la coltivazione in pieno campo che per l’alimentazione umana, ma che le leggi europee sono un optional nella Penisola, e che mentre tutto il mondo chiede mais, da noi forse un bel po’ di aziende saranno costrette a chiudere!
Ma qual è la situazione, cioè qual è l’atteggiamento della scienza nei riguardi della ricerca?
Sui quotidiani di pochissimi mesi fa, si leggevano titoli del tipo: “Sì al mais ogm, scontro in Europa. Via libera all’import di tre nuovi tipi. Italia e Francia contrarie”.
Colpisce quest’ultimo connubio. È appena venuto fuori un libro illuminante sugli ogm, promosso dall’Istituto Bruno Leoni, intitolato Il cibo di Frankenstein. La rivoluzione biotecnologica tra politica e protesta, di Gregory Conko ed Henry I. Miller. Nell’introduzione, Anna Meldolesi mette in rilievo la forza dei movimenti anti-ogm provenienti dalla Francia. Al confronto con gli eclatanti boicottaggi organizzati da José Bové, i miserrimi teli di plastica che, nel 2002, in occasione del vertice della Fao, gli attivisti italiani posero sulle piantine ogm dell’Università della Tuscia a mo’ di profilattico per evitare improbabili fughe di geni, risultano a dir poco patetici.
Eppure, nel 2007 la Francia ha coltivato dai 30 ai 70 mila ettari di mais ogm, avvicinandosi alla Spagna, che non si è mai fermata, neppure durante gli anni della moratoria europea (che andavano dal 1998 al 2004), e che al mais geneticamente modificato destina circa 60 mila ettari. Sostiene la prefatrice che in Italia non abbiamo neanche un ettaro con coltura ogm, e si chiede perché: oltretutto – afferma – la “falsa dicotomia” tra ogm e prodotti tipici di qualità funziona al di là delle Alpi come e forse più che da noi. Che cosa c’è, allora, di diverso? Semplice: in Francia nessuno oserebbe fare quello che i politici di ogni colore e tendenza hanno fatto alla comunità scientifica italiana nell’ultimo decennio. D’accordo, si può essere anti-ogm, come è stata l’Europa, più che altro per motivi protezionistici, ma ciò non significa che bisogna umiliare la ricerca. Anzi, proprio nei periodi in cui si vietano per cause protezionistiche le importazioni, è saggio riguadagnare il ritardo accumulato nei confronti degli Stati Uniti e degli altri Paesi grandi produttori ed esportatori, promuovendo la propria ricerca.
Il libro di Conko e Miller è più appassionante di un romanzo di Michael Crichton, proponendoci però un messaggio opposto al suo spaventosamente allarmistico Stato di paura. Descrive nei dettagli la lunga lotta tra le paure infondate, diffuse ad arte da attivisti verdi, burocrati e associazioni del settore agro-industriale, con la complicità di qualche sparuto gruppetto di scienziati, e le posizioni della scienza, che da sempre dichiara compattamente che le nuove tecniche del gene-splicing sono più sicure dei metodi di ibridazione tradizionali. Smascherando, nello stesso tempo, un altro mito: quello degli scienziati “divisi”.
Dopo aver letto questo libro, sarà evidente che la scienza – sugli ogm come altre questioni, dalla lotta contro i tumori (ricordate il caso Di Bella?) alla ricerca sulle cellule staminali (ricordate il referendum sulla fecondazione assistita, quando soltanto un paio di scienziati contro tutti ebbero la sfacciataggine di difendere la legge 40?) – può apparire drammaticamente “divisa” solo in quei Paesi nei quali la politica e l’ideologia dominano su ogni altro aspetto della vita sociale.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2008