Giugno 2008

Grandangolo

Indietro
Se dopo il dollaro
impera l’euro
Kenneth Rogoff Docente Harvard University
 
 

 

 

 

Se il dollaro
dovesse perdere
il ruolo di valuta cardine, l’unica
seria alternativa sarebbe l’euro.
Lo yuan potrebbe forse diventarlo, ma soltanto nella seconda metà del secolo.

 

I leader della finanza globale dovrebbero essere soddisfatti che non ci sia ancora una chiara alternativa al dollaro come moneta di riferimento. Se l’euro fosse veramente pronto a diventare la prima valuta, allora vedremmo il tasso di cambio con la moneta americana balzare a quota 2 e oltre, e non a 1,65-1,70, che sembra essere il prossimo traguardo. L’America non potrebbe trattare i propri clienti così male, come ha fatto negli ultimi tempi, se potessero cambiare fornitore.
Da sei anni a questa parte, il valore del dollaro rispetto al paniere ponderato delle altre valute si è ridotto di oltre un quarto, in parallelo alla crescita a livelli record del deficit commerciale statunitense. Con un’economia sull’orlo della recessione (come ha ammesso esplicitamente anche il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke), un sistema finanziario gravemente compromesso e seri problemi d’inflazione, la tendenza strutturale del dollaro resterebbe negativa anche se l’attuale crisi finanziaria fosse al termine. E non lo è.
È improbabile che il salvataggio organizzato dalla Federal Reserve sia effettivo finché le banche non riusciranno a ricapitalizzarsi in misura cospicua. La liquidità necessaria può arrivare dai ricchi fondi sovrani, ma è improbabile che vogliano muoversi adesso, anche se il sistema politico statunitense fosse pronto ad accoglierli. Invece, se continueranno le difficoltà creditizie e il declino dei prezzi immobiliari, diventa sempre più probabile un epico salvataggio di tutto il sistema dei mutui, che potrebbe costare ai contribuenti americani almeno mille miliardi di dollari. Ecco dunque la questione di fondo: dopo tanti anni di rendimenti così deludenti delle attività in dollari, gli investitori globali saranno realmente disposti ad assorbire altri mille miliardi di dollari di debiti americani con l’attuale tendenza dei tassi di interesse e di cambio?

Investire sul debito americano, oggi, appare una scommessa, anche a prescindere dal calo del dollaro. Gli impegni militari pesano sempre di più sulle risorse fiscali del Paese, e i loro costi potrebbero gonfiarsi a molte migliaia di miliardi di dollari, secondo le ultime stime del Premio Nobel Joseph Stiglitz.
L’anno prossimo vedrà quasi sicuramente un’ondata di fallimenti societari Usa, anche se molte aziende stanno entrando nella recessione economica con bilanci solidi. Le finanze statali e municipali si trovano invece in una condizione preoccupante: con la contrazione delle entrate fiscali dovuta al calo del mercato immobiliare e dei redditi, decine di Comuni americani rischiano la bancarotta, come è accaduto alla città di New York negli anni Settanta. I bond municipali americani vengono già scambiati con un elevato premio al rischio, anche se non si è ancora verificata un’insolvenza importante.
Ovviamente, se il dollaro dovesse perdere il ruolo di valuta-cardine, l’unica seria alternativa sarebbe l’euro. Lo yuan (o renmimbi) potrebbe forse diventarlo, ma soltanto nella seconda metà del secolo: per adesso, i draconiani controlli di capitali cinesi e la mancata liberalizzazione finanziaria rendono improponibile un primato mondiale dello yuan.

Ma fortunatamente per il dollaro, anche l’euro ha i suoi problemi. Le banche europee restano eccessivamente frammentate, con un mosaico di regole e di autorità nazionali che cercano ognuna di sostenere i propri campioni. È vero che i titoli di Stato europei sono tutti denominati in euro, ma tra quelli tedeschi e quelli italiani resta una grande differenza, e il mercato degli Eurobond statali non ha lo spessore e la liquidità di quello dei Tresaury Bill americani. Inoltre, gli investitori internazionali possono comprare o vendere proprietà immobiliari molto più facilmente negli Stati Uniti che in gran parte dell’Europa. E l’assenza di una politica unitaria europea di bilancio crea notevoli incertezze: come la Banca centrale europea, ad esempio, potrebbe reperire le risorse necessarie per un grande salvataggio bancario?

La forza crescente dell’euro, d’altra parte, significa che agli attuali tassi di cambio l’economia di Eurolandia è più grande di quella americana. I nuovi membri dell’Europa centrale e orientale hanno portato nell’Unione europea dinamismo e flessibilità. La Banca centrale europea si è guadagnata una notevole credibilità nella sua gestione della crisi creditizia globale. Se entrasse la Gran Bretagna, l’area euro ingloberebbe una delle due capitali finanziarie mondiali, Londra: allora sì che l’euro diventerebbe un’autentica alternativa al dollaro.
Nel 1971, quando con il crollo del dollaro finì il sistema post-bellico dei cambi fissi, il segretario al Tesoro americano John Connally disse ai colleghi d’Europa e del Giappone la celebre frase: «Il dollaro è la nostra moneta, ma è il vostro problema». E da allora il suo status globale è rimasto, nonostante molti episodi negativi. Gli standard monetari internazionali hanno una grande forza d’inerzia. La sterlina abdicò a favore del dollaro soltanto dopo mezzo secolo di declino industriale britannico e due guerre mondiali. Ma questa volta il passaggio del testimone potrebbe avvenire molto più rapidamente. Governatori e ministri delle Finanze continuano a discutere su come ossigenare il dollaro. Invece dovrebbero cominciare a pensare a quel che si dovrà fare quando verrà il momento di staccare la spina.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2008