Giugno 2008

Libertà economiche

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Una scommessa
per la crescita
Marcello Tiraboschi  
 
 

 

 

 

Rimboccarsi
le maniche diviene ora un imperativo
categorico anche per la Politica:
su questo si fonda la scommessa dei nostri giorni.

 

Le più recenti previsioni di Istituti internazionali e dei maggiori Centri studi italiani collocano la previsione di crescita del Prodotto interno lordo del nostro Paese nel 2008 tra 0,6 e 1,0 per cento, in funzione dell’andamento dei costi energetici. Ancora una volta, quindi, se le previsioni si dimostreranno corrette, saremo nelle posizioni di coda all’interno della Comunità europea; e merita sottolineare che lo siamo stati anche negli ultimi due anni (anche se con un aumento del Pil superiore alla previsione 2008) e che tra il 2002 e il 2005 abbiamo segnato tassi intorno allo zero. Viene legittima, allora, la domanda: ci siamo fermati, o, peggio, abbiamo intrapreso un sentiero di declino inarrestabile?
In effetti, da indagini mirate sullo sviluppo comparato delle regioni europee, (e va sottolineato: europee), monitorate in “clusters” relativamente omogenei, emerge che anche quelle italiane strutturalmente migliori segnano il passo addirittura dalla metà degli anni Novanta. La nostra “non crescita” o “crescita modesta” affonda quindi le proprie radici nel tempo e dimostra che analisi tipicamente congiunturali o legate al ciclo industriale non ne possono fornire spiegazioni esaurienti.

Infatti, se da un lato il sistema produttivo italiano formato in larghissima parte da imprese di piccole dimensioni, collocate in comparti “tradizionali”, può aver subito un impatto fortemente negativo dalla progressiva globalizzazione dei mercati e dall’emergere di economie di molti Paesi in via di sviluppo, tale impatto è stato in gran parte assorbito attraverso la fase di ristrutturazione profonda vissuta dalle imprese nel periodo considerato e che è sfociata nel recupero della produzione industriale e delle esportazioni dimostrato a partire dalla seconda metà del 2005 e continuato per l’intero 2007.
Si è trattato di una ristrutturazione a 360 gradi, che ha lasciato sul terreno molte vittime, ma che ha reso più forte e competitivo il sistema produttivo; e che ha obbligato (o meglio, che sta obbligando) a ripensare anche il modello basato sui “distretti”, sul quale si era fondato lo sviluppo di moltissime aziende e che ha senso configurare oggi più in termini di “filiera” che di aree territoriali omogenee.
Ma la sfida competitiva non è mai vinta e obbliga tutti i giocatori a saper innovare senza soluzioni di continuità. Si tratta, cioè, di affrontare il tema dell’innovazione in concreto, “in corpore vili”; non nell’accezione puramente nominalistica, che troppo spesso viene usata come risposta universale a tutti i problemi.
È un’innovazione che riguarda l’organizzazione dell’azienda, anzitutto, per renderla più flessibile e rapida nella catena decisionale; che riguarda la focalizzazione di business; che interessa gli investimenti immateriali, in grado di “vestire” un prodotto anche tradizionale per indirizzarlo pure verso nuovi utilizzi; che coinvolge il posizionamento sul mercato; che investe il problema del “time to market” nella catena produttiva; e via dicendo.
Il sistema produttivo, pur con le difficoltà evidenziate, ha dimostrato e dimostra di non volersi arrendere al declino e alla non-crescita; perché, allora, il Paese è fermo?
Siamo convinti che non esista una risposta univoca e che molte siano le concause. Dai problemi mai risolti delle nostre regioni meridionali (chi ricorda più le analisi e le proposte, ad esempio, di un Giustino Fortunato?), nelle quali rimane al primo posto la questione della legalità e della sicurezza e verso le quali sono stati commessi errori strategici sotto il profilo degli interventi economici e finanziari, sia nella loro tipologia, sia dimenticando la “vocazione naturale” dei territori; alle mancate liberalizzazioni di gran parte dei servizi, che, anzi, a livello locale, hanno visto un accrescersi del dispendio di risorse pubbliche e un allargamento del controllo da parte degli enti locali; all’incapacità di imporre concorrenza ai troppi comparti protetti; a una sempre più accentuata (nel confronto internazionale) carenza di moderne infrastrutture. Infatti, se la sicurezza e i tempi assurdi della giustizia sono, come è fin troppo noto, fra le prime cause indicate dagli operatori stranieri per spiegare la scarsissima propensione ad investire in Italia, non lo è da meno l’arretratezza infrastrutturale.
Questa, infatti, rappresenta una delle maggiori diseconomie “esterne” che un’impresa deve sopportare in Italia per svolgere la propria attività; e sta diventando uno strumento di attrazione competitiva persino da parte di Paesi più industrialmente arretrati, quali quelli neo-comunitari dell’Europa dell’Est.
A tutte queste problematiche, che minano la nostra competitività internazionale, si aggiunge un ordinamento amministrativo vecchio, non più adeguato alle esigenze di un Paese moderno, che dà luogo ad una burocrazia ottusa e frenante.

Questa analisi non rappresenta certo una novità; opinionisti, politici, esponenti delle categorie economiche e comuni cittadini ne discutono spesso e ne sembrano ben consapevoli. Ciò nonostante, una seria “politica del fare”, basata su una scelta di poche priorità in grado di rimettere in moto il Paese, liberando da lacci e laccioli le tante energie vitali che ancora operano sul nostro territorio e che non intendono migrare, è sembrata finora, purtroppo, un lontano miraggio.
Nessuno si nasconde che il nuovo secolo ha ereditato dal precedente un debito pubblico insopportabile, che condiziona pesantemente le scelte di qualunque governo. Per questo, per rimettere in movimento l’Italia, occorre non disperdere le scarse risorse disponibili; per questo non è più tollerabile ascoltare senza reagire le gravissime accuse che la Corte dei Conti annualmente avanza nella sua relazione sugli sprechi e sulle malversazioni; per questo occorre dimettere tutte quelle attività che nulla hanno a che vedere con l’interesse legittimo e generale dello Stato; per questo occorre riconoscere, alla base di ogni decisione, come valore fondante di una società civile moderna, in tutte le sue espressioni, il merito e non l’appartenenza politica o falsi egualitarismi.
Si tratta, insomma, di iniziare una profonda azione di modernizzazione dello Stato, che a partire da una riforma dell’Università che fermi il proliferare delle cattedre e selezioni quelle davvero degne del contributo statale, non può non coinvolgere scelte fondamentali sui princìpi ispiratori e grande carenza nelle realizzazioni.
Chi condivide un’analisi e una proposta del tipo ora indicato, non può non ricollegarsi a quanto detto poco sopra circa il periodo nel quale il Paese ha cominciato sostanzialmente a fermarsi: la metà degli anni Novanta. È lo stesso periodo nel quale il processo di rinnovamento e di modernizzazione dell’Italia sembrava avviarsi, basato su uno sforzo di cambiamento istituzionale che il declino della cosiddetta Prima Repubblica aveva reso indispensabile.
Purtroppo questo processo, come le vicende più recenti hanno dimostrato, si è posto in una situazione di stallo, è rimasto una “incompiuta” addirittura dannosa. Infatti, se il sistema-Paese nel suo complesso, a cominciare dalla sua architettura istituzionale, non si pone in condizioni competitive con quelle degli altri territori non solo europei, ben difficilmente il contributo positivo di qualche categoria ci potrà consentire di riavviare il processo di crescita. Ciò richiede che la Politica (con la maiuscola) sappia traguardare il breve termine ed essere capace di porsi obiettivi ambiziosi di medio periodo. E questo non è un sogno, ma una speranzosa scommessa.
Le indagini sociologiche svolte a livello nazionale, e altre, molto recenti, effettuate in alcune regioni, nelle quali il consenso politico si è mantenuto uniforme nel tempo, mostrano un inequivocabile distacco dei cittadini dalle istituzioni e da chi opera in politica. Si tratta di un sentimento diffuso, molto pericoloso, che desta preoccupazione e lascia spazio all’anti-politica e ai movimenti spontanei, sostanzialmente qualunquisti o anarchici. Il “rimboccarsi le maniche”, che è stata la parola d’ordine delle imprese industriali per il loro rilancio competitivo, diviene dunque un imperativo categorico anche per la Politica. Su questo di fonda la scommessa dei nostri giorni.
Considerazioni d’obbligo. La meritocrazia compie esattamente mezzo secolo, ma non sembra avere ottenuto ancora la cittadinanza italiana. Nata nel 1958 dalla penna del britannico Michael Young, è un termine che stenta ad attecchire nel nostro lessico quotidiano, in modo particolare in quello della politica.
Roger Abravanel ha avuto il merito (è proprio il caso di dirlo) di rispolverarlo e di farne oggetto di un pamphlet velenoso, pubblicato di recente. Viviamo in un Paese che scoraggia i talenti fin dai banchi di scuola e favorisce le caste e i privilegi ereditari, sostiene Abravanel. Bisogna prendere esempio dall’America, dove le Università sono selettive e i migliori, i più intelligenti, quelli che si impegnano di più vengono promossi ai posti di responsabilità nelle aziende e nella pubblica amministrazione. Quale che sia la loro origine sociale.
Si tratta della “Education Based Meritocracy”, la meritocrazia fondata sull’istruzione, teorizzata nel 1972 da Daniel Bell: nella gara al successo vincono i più bravi, non i figli di papà. Una scuola esigente getta le basi di una società più giusta. Una bella utopia che non sta in piedi, ha obiettato il sociologo britannico John Goldthorpe. Statistiche alla mano, Goldthorpe ha dimostrato che nel Regno Unito i bei voti o una buona laurea non sono sufficienti a sfondare nella vita professionale e non cancellano lo svantaggio di provenire da una famiglia operaia.
Aveva ragione il vecchio liberista von Hayek, secondo il quale soltanto i regimi totalitari riescono a programmare le carriere degli individui, sia pure con risultati disastrosi. In una società aperta la disuguaglianza è ineliminabile e i criteri per valutare il merito non sono oggettivi: ci sarà sempre qualche povero di talento che resta indietro e qualche somaro ben pasciuto che gli passa avanti.
Che cosa significa, che dovremmo rinunciare a investire nell’istruzione, e rassegnarci al familismo amorale? Dopo tutto, l’America è il Paese in cui una donna qualunque, nera, e nata in una povera famiglia del South Side di Chicago, come la moglie di Obama, può frequentare Princeton e la Harvard Law School, e diventare – forse – la futura first lady. Dalle nostre parti non sarebbe riuscita neanche a prendere una licenza di taxi. Il modello Oxbridge o Harvard è ben lontano dalla perfezione, e non garantisce di per sé la giustizia sociale. Ma se c’è un regime sicuramente iniquo è proprio quello della “Bad Education Based Demeritocracy”, la Demeritocrazia fondata sulla mala-educazione (e sulla furbizia), che da troppo tempo impera in Italia.
Riprendiamo il discorso sul sistema-Paese, ma innestandolo, questa volta, nel più ampio panorama planetario. Secondo James Bradford DeLong, docente a Berkeley, non è inevitabile che l’economia mondiale (e dunque anche quella italiana) debba fare i conti con una forte recessione nei prossimi tre anni: possiamo in qualche modo cavarcela. A patto che i governi agiscano con accortezza, cominciando ad adottare fin da subito misure per attutire, ammorbidire e abbreviare il periodo di disoccupazione alta e di crescita lenta o negativa che stiamo vivendo.
È un fatto di natura – della natura umana, quantomeno – che politiche che oggi sono prudenti e appropriate possano in seguito apparire azzardate. A un certo punto, l’economia mondiale ricomincerà a espandersi velocemente. Ma sarebbe estremamente imprudente dare per scontato che il punto di svolta sia vicino e che il peggio sia già passato.
Forse il modo migliore di considerare la situazione è ricordare che sono state tre le locomotive dell’economia mondiale negli ultimi quindici anni. La prima è rappresentata dai forti investimenti, soprattutto negli Stati Uniti, determinati dalla rivoluzione delle tecnologie informatiche. La seconda è stata determinata dagli investimenti nell’edilizia, anche in questo caso soprattutto negli Stati Uniti, trainati dal boom dell’immobiliare. La terza sono stati gli investimenti nell’industria manifatturiera nel resto del mondo (in modo particolare in Asia), mentre gli Stati Uniti diventavano l’importatore di ultima istanza dell’economia mondiale.
Per quindici anni, queste tre locomotive hanno mantenuto l’economia del mondo sviluppato vicina alla piena occupazione e in rapida crescita. Quando il boom dell’high-tech è finito, nel 2000, la Federal Reserve ne ha orchestrato la sostituzione con il boom dell’immobiliare, mentre gli investimenti in Asia per rifornire il mercato americano progredivano a ritmi sempre più sostenuti.
Molti oggi si lamentano della gestione monetaria di Alan Greenspan, che continuò a tenere in moto queste tre locomotive: serial bubble-blower (gonfiatore di bolle in serie) è l’espressione più educata con cui è stato definito. Ma – sostiene DeLong – starebbe davvero tanto meglio l’economia mondiale se ci fosse stata un’altra politica monetaria, che avesse tenuto la disoccupazione a un tasso medio del 7 per cento, invece che del 5 per cento? Starebbe davvero tanto meglio oggi, se fossero semplicemente venuti a mancare circa 300 miliardi di dollari all’anno di domanda dall’America per i produttori europei, italiani compresi, oltre che asiatici e latino-americani?
La prima locomotiva, però, è rimasta a secco sette anni fa, e non c’è nessun altro settore di punta ad alta incidenza tecnologica, come le biotecnologie, suscettibile di ispirare un’esuberanza analoga, razionale o meno che sia. La seconda locomotiva ha cominciato a perdere colpi due anni fa e ora si sta avvicinando al completo stop, e questo comporta che anche la terza – gli Stati Uniti come importatori di ultima istanza – sta perdendo di velocità: la debolezza del dollaro che procede di pari passo con il tracollo finanziario dell’immobiliare rende svantaggioso esportare negli Stati Uniti.
L’economia, per dirla con John Maynard Keynes di settantacinque anni fa, sta sviluppando un problema di accensione. Quello di cui c’è bisogno è una spinta: più domanda aggregata. Il dollaro debole favorirà nettamente le esportazioni americane, e di conseguenza la domanda aggregata negli Usa. Ma in un’ottica mondiale, le esportazioni nette sono un gioco a somma zero. Dunque, bisognerà affidarsi ad altre fonti di domanda aggregata.
La prima di queste fonti è il settore pubblico. La prudenza di bilancio è importante come sempre sul medio e lungo termine. Ma per i prossimi tre anni, i governi dovrebbero abbassare le tasse (specialmente ai redditi più bassi, che sono quelli più suscettibili di spendere) e innalzare il livello della spesa.
La seconda fonte è rappresentata dagli investimenti privati. Le Banche centrali di tutto il mondo sono in attesa di tempi buoni, cioè di inflazione sotto controllo, per poter tagliare i tassi. Bassi tassi di interesse sono perfettamente compatibili con una stagnazione o con una depressione, se i premi al rischio rimangono elevati, come ha imparato il mondo negli anni Trenta del secolo scorso, e come ha reimparato il Giappone nei seguenti anni Novanta.
Per quel che riguarda l’Italia, dunque, tenendo presente che dovrà essere abbattuto al più presto il suo condizionante debito pubblico, il compito più impegnativo sarà quello di potenziare le capacità del settore privato di assumere rischi, per consentire alle aziende di avere accesso al capitale a condizioni che le incoraggino a espandersi sia nelle zone tradizionalmente sviluppate, sia in quelle che ancora oggi sono fortemente arretrate.

 

   
   
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