Giugno 2008

Nazionalismi d’europa

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Lo tsunami
delle piccole patrie
Aldo Bello  
 
 

Con questa
vicenda, secondo la Russia, è stata caricata un’arma, e nessuno può
prevedere quando partirà il colpo,
né quale potrà
essere il bersaglio.

 

L’Europa dei Sei era nata per dissolvere i nazionalismi violenti. L’Unione europea, quasi senza rendersene conto, ha smentito quell’idea storica, decidendo di proteggere e di inserire nella Comunità il Kosovo, uno Stato che ha come propria ragion d’essere la segregazione etnica. I fautori del riconoscimento sostengono che la mossa era ineluttabile, dopo il naufragio della diplomazia; affermano anche che non di vera indipendenza si tratta, ma di una sorta di finzione: il nuovo Stato sarà un protettorato europeo, come dal 1999 lo era dell’Onu e della Nato. Ma un’Europa che parla così, mostrandosi schiava della necessità, rivela la propria inconsistenza. L’Ue, puntando sulla forza “civilizzatrice” di un protettorato, sbarazza i kosovari di responsabilità fondamentali.
La lezione che si ricava è che oggi l’Europa non sa più la storia che fa, e sembra avere scordato che la storia è tragica.

Ed è tragica per l’Europa quanto per i Balcani. Per quanto concerne l’Unione europea, si conferma la malattia grave che ci colpisce da anni: incapace di unirsi, abolendo i diritti di veto posseduti da ciascuno Stato, l’Europa ridiventa preda dei dèmoni. L’intera sua politica di allargamento ormai è all’insegna del nazionalismo ritrovato. Ogni nuovo Stato, anche microscopico, al quale si promette l’adesione, avrà il suo diritto di veto, neppure temperato dalla coscienza – viva nei Paesi fondatori – dei propri storici errori e orrori. La partnership con gli stessi Stati Uniti si trasforma in patologica rivalità mimetica. Diverremo potenza planetaria anche noi, se scopriremo lo Stato-nazione e se ne creeremo persino di nuovi. Ma con una variante: se l’Europa fosse una federazione all’americana, sopporterebbe queste variazioni di appartenenze interne; nelle condizioni attuali, essendo una somma di mini-sovranità, rischia la degenerazione. Cioè, rischia di fare proprio quel che non vorrebbe: di riaccendere le identità etniche, facendosene garante, e dissimulandole.
Questo ritorno dei nazionalismi è drammatico anche per i Balcani e per gli organismi internazionali. Prospettando l’indipendenza sotto protettorato, i ministri degli Esteri inglese e francese affermarono nel 2007 che lo “status quo” non poteva essere accettato, e che le aggressioni serbe non andavano dimenticate. In realtà, è lo “status quo” che oggi si accetta, e lo smemoramento dilaga in nome dell’autodeterminazione, vale a dire in nome della liberazione dei popoli. Con novant’anni di ritardo, l’Europa vive il suo «momento wilsoniano», come lo definisce lo storico indiano Erez Manela. L’autodeterminazione dei popoli, proposta dal presidente Thomas W. Wilson tra il 1918 e il 1919, è riproposta da un Vecchio Continente immemore di quel che già allora essa nascondeva: i protettorati, i conflitti, le ipocrisie, la violenza delle disillusioni.
“Balcanizzazione” non è, a dispetto della storia degli ultimi anni, un neologismo della nostra lingua. L’idea che in Europa sia attiva una tendenza alla frammentazione in mille patrie di tutte le dimensioni, anche minuscole, è nell’aria da almeno mezzo secolo. Anche così si è manifestato il nazionalismo, esploso durante l’Ottocento, ma attivo – anche attraverso il termine parallelo e “positivo” di patriottismo – ancora ai giorni nostri. Di fatto, la mappa politica attuale dell’Europa è frutto sia di processi di unificazione, come quelli realizzati dall’Italia e dalla Germania, sia di frantumazione: dell’Impero absburgico, di quello ottomano, e, in anni recentissimi, dell’Unione Sovietica. I Balcani, regione a lungo soggetta agli Imperi di Vienna e di Costantinopoli-Istanbul, rappresentano il culmine del processo di frammentazione, tanto da dare il proprio nome all’intero fenomeno. Del quale il Kosovo è solo il più recente, ma purtroppo – sospettiamo – non l’ultimo capitolo. Ma è l’intero Continente ad essere esagitato, da alcuni anni, da un ritorno di fiamma dei nazionalismi “regionali”, dagli estremi confini settentrionali e occidentali, giù giù, fino alle più fluide frontiere con la turbolenta area mediorientale. In un processo duplice e apparentemente paradossale, la smania di nuove, esclusive “piccole patrie” si fa più acuta, proprio nel momento in cui l’Europa sta faticosamente cercando di percorrere la strada dell’unificazione.
Il problema è definire la legittimità di queste pulsioni, e valutare i rischi che implicano. Casi come quello dell’ex Cecoslovacchia, separatasi di comune accordo e in un mirabile esempio di civiltà tra i due Stati della Cechia e della Slovacchia, o come quello della Serbia e del Montenegro, sono purtroppo l’eccezione. La norma, quando il nazionalismo affiora virulento, salta il fossato, e decide di iscrivere al circolo dei “grandi” Stati che sono soltanto entità etniche, è quella che hanno offerto alla nostra osservazione Croazia, Bosnia e Serbia negli anni Novanta, e che ha riproposto il Kosovo poco fa: feroci scontri militari, conflitti internazionali, antichi “oppressori” (i serbi, nell’ultimo caso) che si trovano ad essere “oppressi”. Così attualmente Europa e dintorni contano una buona dozzina di nazionalismi, più o meno accesi, che aspirano alla piena indipendenza. Tutti ugualmente legittimi, o tutti altrettanto ugualmente illegittimi: dipende dalla prospettiva con la quale ci si accosta al problema.

In realtà, non esiste alcun criterio per stabilire che cosa sia o meno una nazione, e dunque per distinguere le istanze lecite da quelle che non lo sono. L’antropologo americano Benedict Anderson ha coniato una fortunata ed efficace definizione: la nazione è una «comunità immaginata». Che è come dire: non esiste alcun principio oggettivo, non c’è alcuna norma certa che consenta di descriverla; un certo gruppo umano è una nazione quando sente di esser tale, quando immagina di essere un’entità autonoma e autosufficiente.
A noi italiani sembra scontato che la nazione coincida con l’area in cui si parla la stessa lingua, perché questo è il tratto distintivo – e oggettivo – della nostra “comunità immaginata”, anche con alcune aree regionali o provinciali sostanzialmente bilingue. Ma basta dare un’occhiata al di là dei nostri confini per trovare le smentite: nell’Austria germanofona, che mai vorrebbe essere confusa con la Germania; nella Svizzera multilingue; nella Francia che raccoglie soltanto una parte dell’ampia porzione del mondo francofono.
Come ci ha insegnato un altro antropologo di scuola anglosassone, Walker Connor, le nazioni si appigliano costantemente, per definire la propria identità, a «criteri oggettivi», che tuttavia come tali funzionano solo nel momento in cui occorre opporsi a un’altra nazione: quella limitrofa o quella egemone, nello Stato dal quale ci si vorrebbe svincolare. I croati insistono sul loro essere cattolici quando vogliono differenziarsi da quei serbi con i quali hanno in comune la lingua (salvo scriverla i primi in caratteri latini, i secondi in cirillico); ma per non confondersi con gli altri loro vicini, cioè i cattolici sloveni e quelli ungheresi, battono proprio il tasto della differenza linguistica. La Svizzera non può contare su omogeneità linguistiche o religiose: e allora lavora sul piano della storia e delle istituzioni, facendo coincidere la propria identità con la secolare tradizione di indipendenza dai vicini “Imperi” e con l’originale formula politica fondata sulla democrazia diretta. Lingua, religione, storia, tradizioni, sono tutti elementi “oggettivi” che, visti dall’interno, funzionano, tanto da apparire persino scontati. Eppure, appena lo sguardo si allarga, è difficile considerarli poco più che pretesti.
Il cammino dell’Unione europea, lungo ormai più di cinquant’anni, sembrava aver trovato – nonostante le non poche resistenze particolari – una sintesi accettabile per le identità nazionali. Invece, antichi e nuovi nazionalismi sono riaffiorati proprio nel momento in cui l’integrazione continentale ha iniziato a farsi più forte, complice anche l’instabilità dell’area orientale appena disancorata dalle catene sovietiche. Il fenomeno si ripete tanto all’interno dell’Unione, quanto in quelle regioni – i Balcani, appunto – che sanno che prima o poi finiranno per entrarvi. Oppure, esattamente con gli stessi meccanismi, nell’altro grande collettore presente sul territorio europeo, quella Russia post-sovietica che al suo interno, soprattutto nel Caucaso, include ancora numerosi aspiranti alla propria piccola patria.
Il fenomeno, a ben guardare, non è poi così paradossale, e va di pari passo con la simultanea affermazione del regionalismo. In Italia abbiamo sotto gli occhi il ruolo giocato dalla voglia di decentramento, dall’affermazione delle identità locali, dall’impegno per la tutela di storia e di tradizioni particolari. Il tutto in modo identico si ripete nell’intera Europa, dalla Spagna alla Germania, dalla Francia all’Ucraina. E a volte sfocia in vere e proprie spinte separatiste, quando esiste un qualche appiglio “oggettivo” cui aggrapparsi. E poco importa se Bruxelles ha saggiamente deciso che le stellette della bandiera europea rimarranno dodici, indipendentemente dal numero di Stati membri. Tanta prudenza non sembra basti a scoraggiare lo tsunami che investe mezzo mondo con l’aspirazione all’indipendenza di nuove piccole patrie.
Il Kosovo indipendente ha innestato un sottile, velenoso contagio su vecchie ferite e sulle diatribe nazionaliste di tutti i tempi. Secondo la Russia, con questa vicenda è stata caricata un’arma, e nessuno può prevedere quando partirà il colpo, né quale potrà essere il bersaglio.
Restiamo dalle nostre parti. Ai tempi della Seconda guerra mondiale, lo storico britannico Alfred Cobban citava come palese assurdità l’ipotesi di un’indipendenza di Malta o dell’Islanda, troppo piccole – sosteneva – per poter svolgere le funzioni di uno Stato. La Storia si è premurata di smentirlo, dimostrando che, in fondo, neanche le ambizioni delle minuscole Faer Øer sono del tutto balzane. Dipendenti dalla Danimarca, i loro 50 mila abitanti, che già godono di larga autonomia, (hanno deciso, ad esempio, di non essere parte dell’Ue, a differenza di Copenaghen), da qualche anno discutono (nella loro lingua ufficiale, il feringio) di completa indipendenza. Così come i loro ben più numerosi (cinque milioni) vicini “meridionali”, gli scozzesi. Edimburgo, che nel 1998 ha conquistato un proprio Parlamento, è divisa: da un lato, quanti si accontentano (magari in chiave anti-europea) dell’autonomia; dall’altro, quanti vorrebbero la piena indipendenza della Scozia, riallacciandosi a una storia autonoma plurisecolare. Più recente, ma ugualmente radicata nei secoli passati (oltre che nella lingua), è la voglia d’indipendenza delle Fiandre dal Belgio. Una tentazione che è montata per qualche anno, ma oggi in fase di stallo cronico, e che gioca sulla strutturale debolezza dell’identità belga, spaccata fra i tre milioni di valloni francofoni e i sei milioni di fiamminghi di lingua olandese.
Situazione pressoché analoga, quella della Catalogna, dove però gli elementi spagnoli (ma a Barcellona preferiscono dire “castigliani”) sono frammisti in tutto il territorio a quelli catalani. Così non è, al contrario, nei Paesi Baschi, tra Francia e Spagna: insanguinati da ormai quarant’anni di attentati, esecuzioni e ricatti dell’Eta, ma abitati per meno della metà da madrelingua baschi, sono la spina nel fianco del governo di Madrid. Qui l’identità basca, più che un dato di partenza, sembra essere l’obiettivo finale dei separatisti, impegnati a imporla con ogni mezzo a tutti i tre milioni di abitanti.
Un meccanismo che proprio il Kosovo ha sperimentato in passato, quando – durante l’occupazione nazifascista – registrò una prima pulizia etnica, allora a danno dei serbi e a favore degli albanesi, oggi oltre due milioni. Più a oriente, un’altra (e del tutto ignorata) spina nel fianco dell’Unione è, o dovrebbe essere, la Transnistria, striscia di terra moldava al di là del fiume Dniestr (il Nistro), che si è proclamata indipendente fin dal 1990, e che da allora sopravvive soltanto grazie al sostegno di Mosca, a tutela della minoranza egemone dei russi, appena un quarto del mezzo milione di abitanti.
La Russia appare spesso in prima linea, sul fronte caldo e a volte rovente delle aspirazioni delle piccole patrie, soprattutto lungo il suo confine caucasico: da un lato, reprime duramente le ambizioni della Cecenia, dove gran parte del milione di abitanti è musulmana e non slavofona; dall’altro, sostiene le identiche ambizioni di due aree della Georgia, l’Abkhazia (200 mila abitanti) e l’Ossezia (ma solo quella del Sud, 70 mila abitanti; quella del Nord essendo oltre il confine georgiano, in territorio russo, perfettamente normalizzata), l’una e l’altra vincolate da ferrei legami storici al colosso russo e insofferenti al “giogo” di Tblisi, capitale che avvertono come lontana per lingua, storia e cultura. Ai margini dell’area caucasica, poi, si collocano le volontà indipendentiste del Nagorno-Karabakh, enclave di 200 mila armeni – interna all’Azerbaigian, ma di fatto indipendente fin dalla guerra del 1993 – e del ben più vasto Curdistan: i 40 milioni di curdi sparsi fra Turchia, Iraq, Iran e Siria, sono il più grande gruppo etnico privo di uno Stato nazionale proprio. E così Ankara fa sfoggio della medesima doppiezza di Mosca: se da un lato reprime da decenni ogni tentativo autonomista dei curdi, dall’altro tiene in vita fin dal 1983 l’autoproclamata Repubblica turca di Cipro Nord che, con meno di 300 mila abitanti ormai tutti turcofoni, (i greci sono fuggiti a sud dopo l’occupazione militare), rappresenta la più grave piaga interna all’Ue.
Passiamo in Asia. Migliaia di chilometri più a oriente dell’Unione europea, nello Sri Lanka, (ex Ceylon), continua la guerriglia indipendentista dei Tamil. Più su, al confine con il Myanmar (ex Birmania) i ribelli del Manipur si battono per l’indipendenza del Nord Est indiano, che conta due milioni di abitanti. Nel nord-ovest della stessa India agiscono i separatisti del Kashmir, regione contesa da sessant’anni tra Pakistan e Nuova Dehli.
E ritornando in Europa, dobbiamo registrare il ritorno dei vikinghi, che questa volta però puntano a settentrione. In terra danese, un partito ultranazionalista sostiene che la Scania deve tornare alla Danimarca: per Scania (Skåne in svedese, Scanelandene in danese) intendendo la regione più meridionale della Svezia, per sei secoli parte integrante del Regno di Danimarca e sottratta dal potente vicino all’apice della sua espansione con il Trattato di Roskilde, nel 1658, insieme con le confinanti province di Halland e di Blekinge. Beghe preistoriche, se riviste al tempo dell’Europa unita, e dell’Europa di Schengen, anche, nella cui area sono presenti sia Stoccolma sia Copenaghen, sorelle scandinave da tempo divenute modello di pacifico sviluppo. Ma le rivendicazioni gettano sul tavolo il dialetto vicino più al danese che allo svedese che si parla in quei territori, e la maggioranza della popolazione, di origini danesi.
Compassati, gli svedesi ribattono che la Scania gode di un’ampia autonomia e della preservazione del dialetto e della cultura locali. La regione di Malmö (11 mila chilometri quadrati, un milione e 200 mila abitanti) è la più dolce della Svezia, celebre per le sue pianure ondeggianti di grano, e per il clima mite, straordinario a quella latitudine. Ma gli ipernazionalisti danesi intendono portare alle estreme conseguenze l’integrazione europea, con la dissoluzione degli equilibri del dopoguerra e con una ridefinizione degli Stati nazionali. Un incubo per tutte le Cancellerie, perché un’azione del genere scatenerebbe rivendicazioni senza fine. Ma quello che è fuori portata a livello politico si sta ottenendo sul piano infrastrutturale ed economico. Copenaghen e Malmö sono unite dal 2002 dal ponte dell’Oresund, una delle più grandiose costruzioni d’Europa, che collega il Mare del Nord con il Mar Baltico. Un ponte anche simbolico tra due culture simili, tra luoghi e tradizioni che affondano le loro radici nella storia di guerre, di intrighi e di fantasmi grandiosi: il Castello di Kronborg, a Helsingør, è quello di Amleto. Il ponte, lungo sedici chilometri, è al centro di una potenziale euroregione a cavallo tra l’area danese della Selandia settentrionale e la Scania svedese, estendibile in Germania, fino ad Amburgo.
Ma agli ultrà danesi questo non basta. Essi guardano anche a Sud, a quello Schleswig-Holstein che la Germania del cancelliere Bismarck sottrasse a Copenaghen nel 1867. Nel 1920 un referendum sancì la divisione dello Schleswig in due parti, e lasciò il Sud a Berlino. Gli ultrà sostengono che quella consultazione non è da considerarsi valida, perché all’epoca «i tedeschi accorsero in massa da tutte le regioni per creare una maggioranza artificiale». E reclamano la ripetizione del voto.
Storia emblematica, come si vede. E per questo, citata a lungo. Ma non unica del genere. Ad Atene, recentemente, sono scesi in piazza un migliaio di nazionalisti: protestavano per il Nord Epiro, e chiedevano l’indipendenza dall’Albania. Insomma, un Kosovo al contrario: anti-albanese. Tanto per dire che – clonando le situazioni – la Storia continua.

 

 

   
   
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