Marzo 2008

 
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Le giravolte
AA.VV.
 
 
 

 

 

Il luogo delle storie

Non bisogna esserci nato in questi luoghi. Non bisogna sentire il mito nell’aria che respiri. Non bisogna avere i destini impastati con la storia. Non bisogna avere rimpianti, né memoria, né passioni vecchie e nuove. Non bisogna conoscere strade e direzioni, né sapersi muovere tra i vichi ad occhi chiusi, né avere occhi abituati al vorticare della luce, né un pensiero capace di confrontarsi con le ombre, con le visioni che partorisce la controra.
Non bisogna aver appreso a sentirsi parte d’infinito guardando il mare dallo strapiombo di una torre, né pensare a se stesso come a una delle innumerevoli voci di un racconto, di uno di quei racconti che frastornano la luna.
Non bisogna…
Non sai, leggendo questa pagina o sentendola leggere, se in essa vi sia un amichevole consiglio o un avvertimento minaccioso. È, certamente, un’intimazione.
Tu, lettore, senti che l’autore dice a te, benché si esprima in modo, si direbbe, impersonale. Se sei del luogo, sei destinato a non capire questa terra nella quale hai aperto gli occhi, respirato l’aria e la luce, imparato a muovere i piedi dai primi passi a un camminare con speditezza e franchezza.

Non bisogna…
L’intimazione suona insistente. O non è proprio un’intimazione: se mai, la registrazione d’uno stato infelice, d’una condizione che t’impedisce di capire questo luogo. Perché questo luogo, designato come spalto terminale d’una mitica fortezza, «non esiste».
Come si fa a capire questo? Lo può capire, ti si dice, solo chi lo guardi dall’esterno: un osservatore estraneo, non compromesso con il semplice fatto d’essere qui e di vivere qui, ma libero dall’incantesimo nel quale qui si vive. L’aveva detto Bodini, vero? «Vivamo in un incantesimo / tra palazzi di tufo, / in una grande pianura. / Sulle rive del nulla / mostriamo le caverne di noi stessi…».
Si potrebbe andare a ruota libera, preso l’avvio da questa considerazione, accettando di perdersi con l’autore del libro di cui parliamo (Antonio Errico, Viaggio a Finibusterrae. Il Salento fra passioni e confini, Manni, 2008); perdersi nei meandri di un racconto che ambiguamente afferma e nega se stesso; oppure tenersi fuori dal potere suggestivo di una pagina sempre sapientemente costruita (direi, se mai, talvolta fin troppo costruita) e mettersi nella condizione, parlando del libro, di colui che può capire ciò che c’è (o ciò che è) qui solo perché assume veste e modi di disincantato osservatore. Ma al disincantato osservatore quanto non sarebbe precluso?
Un libro del genere richiede un’adesione che un osservatore (un critico?) non può, certo non deve, permettersi. Si può entrare nel gioco di Errico ed ammirarlo, ma occorre anche difendersene per non restare intrappolati nel suo particolare punto di vista, o nella spirale della sua musica ipnotizzatrice. Questo vuol forse dire che si tratta di un libro che mira ad ingannarci? La risposta è: no.

Ma il punto di vista di chi ci parla da quelle pagine è tutto interno al racconto e alla sua linea apparentemente flessibile, realmente rigida. Finibusterrae è un non luogo, è semplicemente un indice che si sposta di continuo: ti delude quando credi d’averlo raggiunto. Inafferrabile, chimerico. Suggestivo: questo, sì; molto suggestivo. Ma per accettarlo devi accettare che la vita – la vita comune, la vita degli uomini, sia in un certo senso tagliata fuori, recisa, rescissa, azzerata, dimenticata…
Diciamo, allora, che Finibusterrae è un luogo mentale, un territorio dell’immaginazione. O, più di questo, un luogo della parola che serve a costruire quell’immaginazione. La materia di cui è fatto questo luogo è, diremmo con Shakespeare, della sostanza dei nostri sogni. Miraggio, illusione, gioco di fata morgana su un mare di memoria e di morte sulle cui acque sembra che non navi o altri natanti s’avventurino ma solo imbarcazioni mitiche, zattere che trascinano fantasmi…
Del silenzio. Della luce. Della malinconia. Così s’intitola la prima delle prose del libro. Silenzio e luce sono riferimenti immateriali: la malinconia ne è l’anima. Il silenzio è quello di una storia bloccata in un episodio, l’assedio e l’eccidio di Otranto nel 1480; la luce non è quella gioiosa di cui godiamo anche in stagioni in altri luoghi non propizie, ma è una luce di scena, innaturale: ingannevole come una vita corrosa dalla sua stessa pienezza.
E i luoghi di questa luce.
È a Santa Cesarea che è delegato il ruolo di rappresentare la malinconia: «Santa Cesarea è triste se non hai un amore». Malinconia che rischia di sciogliersi in una facile aria da canzonetta. Un po’ come… «Com’è triste Venezia / soltanto un anno dopo… / se non s’ama più»: triste nella memoria! Ma Santa Cesarea è un luogo nobilitato, nella pagina di Errico, da una raffinata allusione letteraria: un frammento del Montale di Dora Markus là dove l’«ansietà di un oriente fiabesco» richiama un passo tenero e vivo: «E qui dove un’antica vita / si screzia in una dolce / ansietà d’oriente…».
Finibusterrae è un luogo di storie. Anzi, per chi ci vive, per chi la cerca attratto dal suo oscuro fascino, un viluppo di storie da ritessere, di continuo, le stesse, immobili, bloccate per sempre nella loro fissità, in una memoria – si direbbe – devitalizzata, o impietrita.
Eppure… è proprio da quella memoria impietrita che la pagina spicca il volo, vincendo una certa inerzia della ripetizione retorica, del gioco un po’ troppo scoperto, o dell’abuso, dell’astuzia stilistica: basti l’ossessivo cadenzare la pagina di anafore a cascata, rosario di parole sul filo di rasoio di una inespressiva monotonia. La fissità della cosa raccontata diventa la materia in movimento che anima la pagina, la muove, la agita, la accende di toni vivi, la gioca in una partita nella quale convenzionale e ricercato convivono armoniosamente e là dove credi che stia per crearsi una dissonanza, l’armonia si ricompone ancor prima che due suoni cozzino o stridano emessi insieme.
Che cosa racconta il libro di Errico, questo Viaggio a Finibusterrae? Racconta il raccontare, perché altra materia non c’è che questa: il piacere del racconto o, anche, la necessità del racconto là dove altro bene non è possibile se non quello del raccontare. I luoghi non esistono come luoghi reali. O, se ai luoghi reali legati a certi nomi si fa riferimento, si registra una decisa separazione tra il nome fortemente evocativo e la realtà piatta di una quotidianità priva di qualsiasi attrattiva. Lo si legge nella prosa intitolata Le parole del confine:
Allora Finibusterrae può essere nostalgia anche di cose che non sono mai state, un luogo generato dal pensiero, la fantasticheria di una controra, una sensazione di estraneità alla storia e di appartenenza alla condizione del mito, può essere soltanto un’invenzione letteraria realizzata attraverso un processo di trasfigurazione.
Insomma: «Finibusterrae è la residenza della scrittura». Di una scrittura che ci conduce in un labirinto dal quale non si vuole uscire. Seguiamo percorsi obliqui, cediamo al fascino di una sirena che versa nel nostro orecchio il più dolce miele delle sue canzoni. Ma c’è, e domina, una nota dolorosa, perché ciò di cui si parla è qualcosa che abbiamo perduto.
Ciò di cui si parla è invaso da un sentimento dell’addio: il luogo di transito, il territorio di confine, tutto ciò che è – o appare – mobile e incerto entra nel dominio dell’ambiguo e del probabile, nel territorio del forse, di ciò che è, o non è, o potrebbe essere… Non v’è certezza neanche del domani, del momento presente, di un bene posseduto…
Questo provoca un movimento di difesa, una chiusura, un muro innalzato contro l’esterno e l’estraneo. Si legga, a p. 64:

Lungo i confini di Finibusterrae si alza un diaframma che la separa e la difende dalle contaminazioni esterne, dalle corrosioni dei mutamenti prodotti da miti stagionali e intrugli folcloristici…

Ma l’alzare un muro, interporre un diaframma, non vuol dire tentare di tener fuori da un mondo presunto innocente la vita vera, quella compromessa di continuo con le asprezze della realtà e che non ha un riparo dietro il quale confinare ciò che non s’accorda alla sua purezza? Una domanda da lettore ingenuo!
Molti aspetti questo libro tende a illuminare con la sua luce particolare, o solo a proporre. Un’ultima cosa si può annotare qui: Viaggio a Finibusterrae è una sorta di Libro dei morti poiché nel brano finale evoca le figure di alcuni scrittori di questa terra che non è: Antonio Verri, Salvatore Toma, Claudia Ruggeri, e De Donno, Bodini, Pagano, Fiore, D’Andrea… E Comi… E Donato Moro. Ritratti. Piccoli miti destinati a rafforzare le linee di quei ritratti, o a svanire.
Non si prende congedo da questo libro di Errico senza averne ripensate le pagine ariose o quelle gravate da un certo rovello intellettualistico che sembra incepparne a tratti la libera espressione. Preferiamo le prime, e con una di esse vogliamo salutare questo nuovo libro di Antonio Errico che potrà piacere o non piacere, ma non lasciare indifferenti. Si parla delle chiese di Gallipoli:
Una dopo l’altra. Una accanto all’altra. Come creature di pietra che aprono le braccia per difendere qualcosa, per tenere al riparo qualcuno da un’incognita, da una minaccia incombente o remota di tempesta.

Una dopo l’altra. Una accanto all’altra. Come per fermare il vento, o almeno distoglierlo, disorientarlo ingannarlo, domarlo, aggiogarlo, come per farlo sfrenare lungo i bastioni, fino a sfiancarsi, a dissolversi, senza entrare – rapinoso – nei vichi, senza rovesciarsi – bucaniere della natura – sul mare.
Una dopo l’altra, accanto all’altra: a volte pitturate con i colori delle chiese di una fiaba; con le facciate rivolte all’infinito, intrise della salsedine di secoli.
Una dopo l’altra, accanto all’altra, proteggono la città dalla paura di una rovina, dall’incubo della marea che può sommergere, dall’angoscia per la furia irrefrenabile che a volte può diventare il mare.
Poi guardano nella lontananza. Per accompagnare chi è in mare, per sorvegliare il suo viaggio, il suo tempo dell’incertezza, il suo bisogno della terraferma.
Forse dal mare s’intravedono. Forse sono solo una curva di luce nel tramonto. Ma quella curva di luce basta come promessa di pace, di ritorno.

Quella «curva di luce» è anche un segno forte della scrittura di questo Viaggio a Finibusterrae.

luigi scorrano

1.

Non c’è linea divisa tra il cielo e la terra.
A volte un angelo resta impigliato
sui portali a mezz’aria
in pietra farina
o per soglie tiene il tempo
che passa. Non ti crede più di qualcuno,
altri ti tarpano l’ali per astio
di chi sulla terra fa voli diversi.
Per negarti il cielo non basta.

 

Il dio del sud
pierluigi mele

Il dio del sud guarda gli angeli
e dice: ho un passato non facile
neanche divino, lo accetto
come i figli che servo.
Li vorrebbe uguali come animali
meglio se uccelli capre la serpe.
Ha denti di sega, scarne mascelle
per colonia usa finocchio,
non è il dio di pianure irrigate.
Lo capisci da come congiunge le mani
fra i tronchi di secoli
i rami. Imbocca l’ostia del sole
aspettando il suo turno
col vino moro velluto.
Spesso lo si vede giocare a tressette
o tentare quel rebus:
verrà neve quest’anno o i turchi di nuovo.
Non dirige il destino ed è un privilegio
essere uomo per primo.
Sa di avere ricordi
e li ripara da un rogo,
àncora il cuore
e li imbottiglia nel vento.
Sono volti slavati
amori di ieri miti dispersi
cosette ma è tutto,
come pure il terrore
verso chi è assunto a tradire,
i funzionari col cristo alle spalle.
Sono soddisfazioni anche le croci.

2.
Come ulivo potrei dire molto di lui
ne so tanto oramai.
Ma le definizioni le lascio
a chi scarabocchia finzioni
e ne muore.
A chi mi vive mi scuote
sono attento do ombra.
Ho da lavorare il giorno
che viene e la notte.
Come ulivo non gemo,
sono cose che riguardano voi
la bellezza e il rancore.
A sradicarmi basta quel vento
che non maledico,
frusciano altri miei pari.
Di lui posso dire
io non lo vedo, è in me
nei tralci nei frutti
nel sangue ai miei piedi,
la terra, rossa perché incinta di pena
sbronza o lunare, non so,
sono cose che vi riguardano
il tempo e la morte.
Ho il mio da fare
per mare per zolle
coi ratti le volpi e quei nani
dai nomi che sembrano dolci,
forzieri, avete tutte le balle
ed il vero a disposizione.
Non chiedetemi ora.
Fidatevi del succo ch’è mio
che lascio nel segno di lui.

3.
Pure succede che una pecora nera
si guadagni il volo per farsi santo
e cadere. Non solo angeli,
giullari stanno a mezz’aria e poeti.
Questo dio è in chi fugge, in chi viene.
E chi lo bestemmia, lo fa per pregarlo
due volte. Pecca chi non lo sente,
e chi non lo teme lo uccide.

Nelle notti d’arsura è il mare che sana.
Ma solo d’estate.
Il dio del sud non ama il mare,
lo vive distante come chi
ne ha paura fa con i cani.
Predilige le cave i gelsi la vite
la ferrovia lenta assonnata
i trappeti le volte e le corti
dove si gioca a restare antichi.
Ma si è adattato all’asfalto di moda.

Per chiamarlo, ciascuno ha il suo lessico
povero vivo. Finali
doppie tra i denti e la gola.
E c’è una lingua di supplica
a salutare partenze e ritorni.
Pier Paolo era là per saperne
nel ‘75, a due passi da Ostia.
Lingua per nove natali
nove pasque le strofe
nove mele d’addio
nove veli la sorte
nove letti la luna
nove orci di fichi
nove mandorle in dote
nove anelli di pane
nove gonne sfilate
lega un’alfa i capelli.
Qui dio ha la voce di tutti
e se la perdi risponde
sono nel mezzo, tra il tuo nome ed il mio.

4.
Siamo cresciuti, oh se siamo cresciuti.
I capelli un palmo di brina
la bocca una casa divelta
ma la voce, la tua voce è limpida ancora
dà il fuoco e la forza.
Sospiro il tuo nome
e mi scaldo con quello.
Noi ci parliamo
nessuno ci vede,
è bianco l’orto in cui ti sento fiorire
più alto più sano di ieri.
Ma le preghiere spedite tornano indietro
e mi tocca parlare più forte
perché tu mi risponda.
A dire il vero la tua voce è una nube
oscura alle volte scompare.
E i miei occhi non sanno più se cercarti
o lasciarsi dormire.

5.
L’ho visto commuoversi
per una madre che invecchia
e non era il tempo a mancarle
ma le parole per dirlo, dire tutto
l’amore versato a invecchiare col figlio.
Per una bestia colpita
spezza il cuore ugualmente.
Sembra così vendicarsi
nello scemo di piazza,
la luce che brucia terra
miraggi, e scirocco
ch’è un modo di battezzare chi vive.

Poi tace, succede l’inverno.
Ha lo sguardo alla strada,
primavera è lontana.
La ricordano appena ragazze
imbronciate ai diari.
Ciondola goffo pierrot,
ogni passo è una lacrima nera
più larga profonda,
ecco la notte.

Qualcuno scalcia bottiglie
e ancora si beve. Roca
una compagnia, morde il buio, deride.
Qui è la città senza voli
Lecce che si guarda l’ombellico
in galleria. Un tenore
quisquilia, alla città piace
ninnare in un seggiolino.
Il santo alza il tre di picche e benedice.
Balilla dentro, fuori giacobina,
la colora chi diverte e si conta le ferite:
è dolce morire senza guardarsi
le spalle, vociare
tra i vichi i portoni,
fregarsene delle bestemmie
che urlano dietro, della fame
lo stato l’amore e di questo finire
come i gatti ma in pace.
Le stelle stanno come vedove
a cui nessuno chiede la mano.
Meglio lasciarci con la speranza ciascuna.
è così dicendo che albeggia.

6.
Quando partii ricordo il cuore
di mia madre, un fico d’India.
Non venne a salutarmi, non lo volli.
Mio padre disse solo non guardarmi.
Ricordo le facce intorno a me
le voci di contrada Matera Catanzaro
sui gommoni a rotaie del sud.
Ricordo i casotti che abitammo
il vino al posto della nafta per scaldarci
e la voce di mio padre
non guardarmi, non ho colpa.

Ora sono qui, tornato si dice.
Guardo ai bordi l’agrifoglio
i cani urinare,
scelgono i margini
mai gli orti sontuosi,
semplicemente fanno i cani.
E guardo un tarocco d’addio sulla schiena.
È lungo i miei anni. Ho allacciato
i risvegli alla cena,
questo il lavoro giusto e balordo.
Non oltraggio il passato,
le cose cambiano per chi non ne ha.

7.
Camminando lungo i valloni
tu senti una tregua, uno strofinio
sulla schiena ma lieve,
una cicala in groppa ti guida
per favi le querce
cavalli tra i muraglioni.
E t’imbatti
nei borghi all’interno, generosi
goduti come denti su un seno.
Qui tutto coincide,
piazza edicola chiesa
è il futuro. Paesi benedetti,
innamorarsi è la notizia del giorno
diffusa da gallo e barbiere.
Qui vive il topo da biblioteca
che sa tutto d’una marchesa,
di pittori che affrescarono vergini
dal volto di zie, grassi amorini,
di scrittori che nessuno ha mai letto
e conosce tutti i nomi che una parola
può avere, farfalla, vagina.
Qui è un’altra storia anche fare l’amore.
Le donne guardano e t’hanno preso
già le misure,
parlano al gusto di giuggiole
ordiscono trame
siedono tavole per tredici santi
e votano solo perché fa bene
all’umore uscire di casa.

E accarezzi la costa
seguendo le scale del cielo.
Eccolo il mare,
il teatro dove dio fa la parte
senza avere studiato. Quel che sa
è la strada, nostalgie d’oltremare
e canta della figlia del re
e si crede suo padre.
Sulla faccia ha i segni di tutti gli ami
e dei pesci che non hanno abboccato.
Sono angeli anche i diavoli
che ha per capello,
li guarda mansueto e li offre a chi va
per l’acqua celeste.

 

La memoria
e il revisionismo


Caro Aldo,
leggo sempre con interesse la tua bella rivista cui, grazie a te, ho l’onore di collaborare. Questa volta l’ho letta anche con grande emozione: per due personali motivi che, conoscendoti come uomo di grande sensibilità, sento il bisogno di portare alla tua attenzione, sperando che ti faccia piacere.
Primo motivo, per me, di personale emozione è stata la lettura del tuo saggio “Cronache della grande disfatta”. Con ricchezza di particolari, in gran parte, credo, poco noti e con giudizi che non posso non condividere mi ha portato dentro una tragedia nazionale che è stata per la mia famiglia, come per decine di migliaia di altre famiglie italiane, anche una tragedia particolare.
Io mi chiamo Mario perché questo era il nome di un fratello di mia madre, un ragazzo del ‘99, andato in guerra volontario e morto a Caporetto sotto un fuoco nemico che non era quello degli austriaci e dei tedeschi, ma quello dei carabinieri italiani cui gli inetti comandi responsabili della disfatta avevano ordinato di sparare sui nostri soldati in ritirata. Il ricordo di questo zio mai conosciuto personalmente, visto soltanto in una grande foto appesa nel salotto di casa mia, a Firenze, ha accompagnato gran parte della mia vita finché nel corso dei miei tanti cambi di città ho perso, si può dire, di vista l’immagine di questo ragazzo diciottenne, ritratto sorridente in divisa proprio il giorno della sua partenza per il fronte. Leggendo il tuo articolo l’ho ritrovata con la memoria.
Come con la memoria, leggendo il brano di Molnar e guardando le belle foto di Budapest, ho ritrovato un’importante ed emozionante esperienza professionale, in cui anche tu, sia pure da lontano, fosti coinvolto. Tutto questo infatti mi ha riproposto il ricordo della mia “personale via Pal”. Che cosa fu e che cosa rappresentò per me? Preferisco che ti rispondano i due brevi testi allegati. Il primo è stato pubblicato il 19 novembre dello scorso anno sulla newsletter quindicinale della Rappresentanza Italiana della Commissione Europea, il secondo apparirà sul prossimo numero di Rai fly, il periodico dei seniores dell’azienda in cui, con la collaborazione di tanti amici, te compreso, maturarono i successi di “I giovani incontrano l’Europa”, compreso quello che nel 1987 ci portò a Budapest, in via Pal, per un gemellaggio ideale con lo spirito che aveva animato i ragazzi del romanzo di Molnar.
Concludo prendendomi la libertà di un abbraccio.

Mario

 

Caro Direttore,

ho letto, più in fretta che in altre occasioni, Apulia, 07, IV… Ho letto il suo pezzo su Caporetto. Di quella terribile esperienza rimane vivo in me quanto mio padre mi riferiva e che io rievoco in uno “scritto di famiglia” che le accludo in copia…
Vi è l’accenno ad una foto: l’ho trovata, insieme ad un vecchio album, sbiadito e consunto. Non so cosa se ne potrebbe fare: anche cederlo all’Archivio della BPP di Matino e salvarlo così da una probabile futura completa distruzione. Io d’altra parte non ho modo di servirmi delle moderne tecniche che riescono a far diventare nuove le cose vecchie e rianimare anche le foto più sbiadite.
Per una prevedibile prossima rievocazione del 1918 qualcuna di tali foto potrebbe essere utile. È solo un’idea.
Ho letto “Noi suonavamo le nostre campane” di Enzo Bianchi… Quanti ricordi mi ha suscitati: potrei dire allora che anche noi suonavamo le nostre trombe: quando non pioveva, a Vernole, intorno agli anni ‘30, S. Anna veniva portata in processione una prima volta, e poi, se la pioggia si faceva ancora attendere, alcuni giorni dopo la statua usciva, ma “senza corona”, per punizione (della Santa!).
Abitava accanto a noi, alla via E. De Carlo, la zia Celeste, depositaria della statua e dei festeggiamenti per la Madonna di Roca. Suo padre, Pietro De Carlo, e suo nonno Luciano “impacchettavano” la Madonna fra cuscini e assicelle, e, come in barella, la trasferivano in pellegrinaggio sulla marina di Roca, attraversando viottoli e campagne.
Se il tempo, l’ultimo sabato di aprile, pioveva o minacciava la pioggia, quei miei lontani parenti “litigavano” con la Madonna, rimproverandola per il cattivo tempo e usando anche nei suoi confronti parole del tutto irriguardose, veri e propri epiteti infamanti, con condimento di parolacce.
La zia, poi, lo ricordo benissimo, quando la statua si allontanava da casa, veniva “consolata” dalle vicine, quasi fosse rimasta orfana; così come, al ritorno, riceveva festeggiamenti e congratulazioni, perché la zia ritornava a stare di nuovo con “la mamma sua”. E lei, la zia Celeste, per l’occasione distribuiva una “pezza” di formaggio o qualche altro dono casalingo alle persone che erano andate a farle visita.
Cose di ieri, caro Direttore, non del Medioevo!

Suo Luciano Graziuso

La memoria
e il negazionismo

L’ultimo viaggio collegato al concorso promosso dal Gr3 mi offrì l’immagine, vorrei dire tattile, della “giovane Europa” emersa anno dopo anno grazie allo spirito d’iniziativa di Pinzauti, direttore di una coltissima testata del servizio pubblico realmente a servizio del pubblico.
Lo ricordo bene, Mario. Eravate partiti da Roma con un treno speciale, prima tappa Vienna, dove vi raggiunsi in aereo (all’epoca dirigevo il Televideo, testata che seguiva l’avvenimento con i servizi di Mariella Morosi). Poi, ferrovia fino a Monaco di Baviera, visita al campo di concentramento di Dachau, e di nuovo strada ferrata fino a Praga: per non dimenticare le persecuzioni razziali e lo sterminio degli ebrei, di là; per non dimenticare l’anelito alla libertà e il sacrificio di Jan Palach, rievocato da te, nella magica piazza Venceslao, il gran boulevard della capitale boema.
Si proseguì in volo per Mosca, e lì i giovani ebbero modo di visitare, fra l’altro, il Cremlino: in una chiesa sconsacrata, ma sopravvissuta nel cuore della cittadella moscovita, (altre centinaia di edifici religiosi erano stati rasi al suolo per far posto agli anonimi falansteri sovietici), erano in mostra decine e decine di meravigliose icone, riemerse con i pope dai rifugi catacombali nei quali erano rimaste sepolte per settant’anni, negando a tutti non soltanto l’esercizio dei riti religiosi, ma anche il godimento di incantevoli opere d’arte, e l’ammirazione in presa diretta di un miracolo di luce: lo splendore delle cornici d’oro e d’argento bastava da sé a illuminare le grandi navate.

E poi ancora in volo, questa volta per Pietroburgo (solo all’ingresso dell’aeroporto sopravviveva la sgangherata insegna in caratteri cirillici: “Leningrad”), la più europea, e vorrei dire la più italiana delle città russe, con i palazzi per tanta parte realizzati da architetti nostrani, e con l’Ermitage, che raccoglie non meno di tremila capolavori provenienti da tutto il mondo.
Credo che sia stata, quella, l’ultima delle iniziative annuali di “I giovani incontrano l’Europa”: una favola speciale per adolescenti che coniugava conoscenza e amicizia, riscoperta delle radici comuni e progetto di una Patria che poteva coincidere con l’intero (o con la maggior parte del) Vecchio Continente. L’utopia possibile, sorretta nella sostanza dal tuo pensiero predittivo. Se è vero, com’è vero, che oggi il numero di Paesi aderenti all’Ue è cresciuto in linea esponenziale. Paesi tuttavia legati da norme e vincoli quasi del tutto di natura economica e finanziaria, per insufficienza (per latitanza) di quelle spinte ideali semmai rimaste cultura in potenza, e non più trasformate, o non più proseguite, come vitale cultura in atto.
Il fatto è che sono, questi che stiamo vivendo, tempi grossolani di “grandi fratelli”, di gossip ridanciani e di informazione-spettacolo, cioè di vuoti verticali e di valori negati in nome del nulla. Pessimismo di maniera? Franca osservazione della realtà che ci assedia e mortifica, piuttosto. Oggi non contano le idee, valgono le “cordate”; non si apprezzano l’impegno per la crescita civile e l’imperativo della legge sovrana, si scelgono gli scandalosi e impuniti peccati di omissione e, al cospetto delle libertà negate, si reagisce con sguardi pallidi, o con gli occhi rivolti altrove; non si accolgono i moti, gli slanci creativi, si presta orecchio all’insipienza edonistica e al conformismo più stucchevole. Esattamente ciò che non determinavano la sostanza propositiva – connaturata in te – della tua professionalità e il fine nobile del tuo lavoro.
Non per scarsità di quattrini disponibili è calato il sipario su “I giovani incontrano l’Europa”. Ma per la ragione che, lavorando con dedizione e con consapevolezza, non ci accorgevamo forse che il mondo stava cambiando, ovviamente in peggio, e perciò reclamava altri scenari, (esangui, scialbi, formativamente ininfluenti o perlomeno neutri). E questi scenari hanno finito per avere la meglio, con complicità imperdonabili. Questo il mio giudizio, questa la riflessione – sconfortante – per me che ho vissuto in Rai analoghe esperienze.
Scrivo di Caporetto in seconda battuta, perché il tema è trattato – sia pure in modo diverso – dall’una e dall’altra lettera. Il tuo, in un contesto che riporta alla mente il dramma vissuto da non poche famiglie italiane, è un momento di abbandono al ricordo inaspettatamente riemerso, e ha la sincerità dolorosa del destino rivelatosi agli occhi di un bambino; quello di Graziuso (nel racconto di fatti e tradizioni di una freschezza tacitiana, che in me salentino lascia una scia di pensieri e nostalgie, come quella del profumo del buon pane di una volta, appena sfornato) sul versante della memoria storica, che riporta, senza dubbio involontariamente, alle roventi polemiche che hanno coinvolto uomini di studio e uomini in divisa ancora fino a poco fa.
E qui bisogna fare un discorso più articolato, muovendo da taluni atteggiamenti di certi storici e di certi scrittori in genere tutt’altro che condivisibili. Un esempio per tutti. Tra coloro i quali, nel bene e nel male, hanno “fatto l’Italia” e hanno provato, con scarsi risultati, a mettere un po’ di fuoco nelle vene dei propri concittadini, il torinese Massimo Taparelli marchese D’Azeglio è tra quelli ormai ridotti a fantasmi nelle antologie scolastiche (e nelle iniziative editoriali contemporanee) che si fa fatica a rivestire di letture vicine alla nostra sensibilità e ai nostri interessi rivolti al confronto e alla riesplorazione delle vicende storiche peninsulari. Scomparsi nei vortici opachi dell’“Ottocento minore” La disfida di Barletta e Niccolò de’ Lapi, che pure ai tempi loro non solo fecero fremere i lettori, ma misero in allarme censure e Cancellerie. Né è toccata al D’Azeglio maggior fortuna per la sua attività di pittore. Quasi abolito come Padre della Patria, dunque, sebbene fosse stato proprio lui, con Gli ultimi casi di Romagna, a far passare il balbettante Risorgimento dalle inefficaci congiure mazziniane alle vicende concrete delle guerre regie e della diplomazia dispiegata in mezza Europa.
Nei labirinti dell’oblio, comunque, non soffre di solitudine, visto che gli tengono compagnia torme di malconciati dal tempo: Gioberti, tanto per dire; o il Cantù (che i meridionali definiscono farfugliante al cospetto del loro Colletta); oppure il Rattazzi, o il Ricasoli (quest’ultimo ricordato persino da Cavour come saccheggiatore dell’argenteria e della cantina nella dimora, da lui occupata dopo l’annessione, del Duca di Modena); o ancora il trasformista Depretis, o l’inetto Persano…
Sia come sia, i Ricordi del D’Azeglio furono per alcune generazioni un manuale di pedagogia laica, e a rileggerli ai nostri giorni, per stile ironia vivacità, tengono il campo a fronte di tanti nostri coevi celeberrimi scribacchini. L’italico smemoramento che avvolge questo rappresentante di un’età che simultaneamente fu eroica di purezze e audacie, e lorda di sangue “fraterno”, non è forse la conseguenza del suo ingenuo tentativo di forgiare il carattere degli italiani, impresa rivelatasi già all’epoca donchisciottesca? Le asinate e le inettitudini del senno del poi fanno ricordare di lui che “l’aveva previsto”. Questo carattere, questa Italia “morale” la pensava come il contrario del “garibaldinismo”, delle sette e delle consorterie, come un ideale poco spettacolare di ordine, di serietà, di misura, di onestà politica e intellettuale. Era il “Paese sconosciuto” di cui parlava già Stendhal.

Caporetto, dunque. Le versioni sulle responsabilità di quella tragica rotta sono contrastanti. In effetti, come è qui ricordato, venne accusato (e silurato) Cappello, che in seguito cercò una rivalsa aderendo al Fascismo. Arrigo Petacco non la pensa così, scagiona il generale e incolpa sia Cadorna (che perdette il comando delle forze armate) sia Badoglio (che invece sfuggì alle epurazioni, e fece la gran carriera che conosciamo).
Io propendo per la versione Petacco, che ha condotto a termine una convincente revisione storica degli avvenimenti legati alla vicenda. Comunque, Caporetto è stata a lungo rimossa, e oggi è ricordata solo grazie alle rivisitazioni di quell’evento, più tragico che grande.
Capisco che in tanti – infastiditi – non ci stiano, e che le revisioni (più semplicemente, il revisionismo) turbino il pensiero di chi ha sedimentato come definitivi e inappellabili i giudizi sulla nostra storia, soprattutto quella degli ultimi due secoli. Eppure, è proprio dalle riletture, dalle ricerche scientificamente più accurate e dalle documentazioni più attendibili e aggiornate che è possibile realizzare ricostruzioni meno strumentali, non retoriche e soprattutto non più funzionali alle agiografie non disinteressate che ci hanno tramandato versioni oniriche, lontane e spesso remote dalla realtà del nostro passato.
Dico questo, dopo aver letto una lettera inviata a un quotidiano nazionale da un lettore, il quale vi sostiene che nei manuali scolastici e nelle fiction radiotelevisive «il Risorgimento italiano è stato caricato di una retorica che gli studi recenti stanno smentendo». Ad esempio, ribadisce l’autore della missiva, quella dei Savoia nei confronti del Sud d’Italia fu una conquista violenta, e non una spontanea adesione per libero plebiscito, come si evince da molti studi di questi ultimi anni, culminati appena qualche settimana fa con il testo di Gigi Di Fiore, intitolato Controstoria dell’Unità d’Italia.
Rispondendo, Sergio Romano afferma che quella del suo interlocutore (un materano) «è in realtà una versione “negazionista” del Risorgimento, molto di moda ormai da parecchi anni». E aggiunge l’ambasciatore: in realtà, le versioni negazioniste sono due. Vi è quella della Lega Nord che denuncia l’annessione piemontese delle province settentrionali e si è servita del bicentenario della nascita di Garibaldi per deplorare la spedizione dei Mille. E vi è quella di tanti meridionali, convinti che «i famigerati briganti fossero devoti partigiani dei Borbone e che la guerra del brigantaggio, fra il 1861 e il 1865, fosse la versione italiana di quella che si combatteva durante gli stessi anni negli Stati Uniti. Da quando Bossi ha fatto la sua apparizione nella vita politica italiana e molti meridionali hanno deciso paradossalmente di imitarlo, il Risorgimento e l’Unità nazionale sono soggetti a una sorta di fuoco incrociato proveniente dal Nord e dal Sud».
Secondo Romano, il guaio è che le due «ideologie antirisorgimentali» sarebbero costruite su basi insicure e su pilastri traballanti: «La borghesia veneta era stanca del dominio austriaco, ma il collasso della nuova repubblica veneziana, nel 1849, dimostrò che il progetto di Daniele Manin non era politicamente e militarmente realistico. Carlo Cattaneo desiderava che il Lombardo-Veneto avesse, nell’ambito dell’impero asburgico, i diritti e l’autonomia che la Catalogna ha conquistato nella Spagna postfranchista. Ma l’Austria non aveva alcuna intenzione di rinunciare al centralismo viennese».
La situazione al Sud, secondo Romano, era ancora peggiore: «Non è necessario aver letto le lettere scritte su Napoli nel 1851 da un grande uomo politico britannico, William Gladstone, per riconoscere che il Regno borbonico, verso la metà dell’Ottocento, era poliziesco, reazionario, male amministrato e terribilmente arretrato. Credo anch’io che occorra rendere onore ai difensori di Messina e Gaeta. Ma l’esercito, la flotta e la pubblica amministrazione del Regno delle Due Sicilie si sfaldarono come neve al sole».
Insomma, nel 1860, quando Cavour decise di cavalcare gli eventi e di estendere al Sud il processo di unificazione nazionale, «non esistevano alternative». Se la Penisola voleva scrollarsi di dosso il torpore che aveva spento, dall’inizio del Seicento, i suoi spiriti vitali, «non vi era altra prospettiva fuorché quella offerta dal disegno unitario dei piemontesi. Dobbiamo al Risorgimento il ritorno dell’Italia in Europa e i suoi innegabili progressi» in oltre un secolo e mezzo di vita nazionale.
Ovviamente, riconosce infine l’ambasciatore Romano, «non tutti hanno tratto dall’Unità gli stessi vantaggi», ma anziché incolpare la classe dirigente risorgimentale, «molti italiani del Nord e del Sud dovrebbero guardarsi allo specchio e fare un contrito mea culpa».
Ecco serviti, in un solo colpo, il revisionismo storico e montagne di libri e di documenti non soltanto di studiosi e politici meridionalisti attivi subito dopo l’unificazione, ma anche di scrittori che nei giorni stessi della spedizione dei Mille e dell’intervento di Vittorio Emanuele II denunciarono l’aggressione (l’invasione senza alcuna preventiva o simultanea dichiarazione di guerra) piemontese. Lasciamo pure da parte Carlo Alianello, che dall’Alfiere fino a La conquista del Sud ha scritto le più intriganti pagine dell’impresa vista dall’“altra parte”, quella borbonica; trascuriamo anche gli studi di tutti coloro che hanno trattato il tema delle relazioni diplomatiche che precedettero, accompagnarono e seguirono i giorni dell’Unità; e prendiamo in considerazione, invece, alcuni brevi testi di autori filopiemontesi, che fra l’altro oggettivamente osservarono che Gladstone non pronunciò mai, né mai scrisse, ad esempio, la frase del Reame come «castigo di Dio», inventata dalla pubblicistica filosabauda per alleggerire il cumulo di accuse di tradimento (politico, dei vincoli di sangue che lo legavano a Francesco II, dell’intervento a guerra già vinta da Garibaldi) rivolte al monarca sabaudo. Cesare Bertoletti, un novarese che si dice «orgoglioso di aver fatto parte del piemontese corpo dei bersaglieri», mette in evidenza il valore dei soldati borbonici, in omaggio alla convinzione che per giudicare e per stimarsi reciprocamente solo alla verità occorra fare ricorso. Arturo Fratta afferma esplicitamente che Cavour tramava contemporaneamente contro il re di Napoli e contro Garibaldi: «Sia detto una volta per sempre: il ‘60 fu possibile per la situazione politica e diplomatica creata nel ‘59 dal Conte di Cavour… Tuttavia, la condotta che egli tenne nei confronti di Garibaldi non fu certamente leale…». La spedizione dei Mille? Garibaldi non aveva alcuna intenzione di capeggiarla, né erano favorevoli i mazziniani. Il Nizzardo si decise solo quando seppe che i siciliani (i Crispi, i Rosolino Pilo…) stavano per partire senza di lui ed erano decisi a sbarcare non più su un lido del Sud continentale, ma – per la prima volta – nell’isola che fu sempre ritenuta inaffidabile e tendenzialmente separatista dagli stessi Borbone. Tant’è che quando Garibaldi passò lo Stretto e sbarcò in Calabria, la più gran parte delle squadre siciliane che lo avevano seguito fin lì si sciolsero e lo abbandonarono. E, contestualmente, mentre nell’isola il crollo del regime borbonico si produsse con il collasso generale dell’intera base sociale della monarchia borbonica e delle sue strutture organizzate, minate dalla spinta indipendentista, dagli agenti cavouriani e dall’azione della Massoneria, nel Sud continentale quel collasso si produsse esclusivamente nelle zone alte del sistema di potere. Non vi parteciparono le masse. Garibaldi doveva ancora giocarsi il tutto per tutto alla battaglia del Volturno, e già Francesco Nullo doveva correre ad Isernia, per domarvi la prima di una serie infinita di insorgenze che riguardarono tutto il Mezzogiorno e che furono filoborboniche e antipiemontesi, e non brigantesche. Il brigantaggio venne dopo, appoggiato in modo particolare da un’irriducibile Maria Sofia (leggere La regina del Sud, di Petacco), ma alimentato – oltre che dalle rapine fiscali sabaude e dalla sottrazione di braccia ai campi per via del servizio militare obbligatorio – dalle stragi, dai saccheggi, dagli incendi dell’esercito sabaudo, sulla lezione della ferocia di Girolamo Bixio, detto Nino, il cui possente pugno omicida si fece esempio emblematico a Bronte, a Randazzo, a Castiglione, a Regalbuto, a Centorbi, ad altri villaggi «colpevoli di lesa umanità…» – come ebbe lo spudorato coraggio di proclamare – i cui abitanti gli gridavano dietro «Belva!», senza che nessuno potesse più difenderli.
Certo, il Sud – che pure aveva avuto in Napoli non una, ma la capitale europea del Settecento – non era esente da colpe. Francesco II – morto Ferdinando – era salito al trono mentre mutava il quadro politico peninsulare: il Regno di Sardegna si era notevolmente ingrandito; fiumi di denaro torinese assicuravano corruzioni e disponibilità di gruppi e classi dirigenti delle Legazioni, dell’Umbria e delle Marche; lo Stato Pontificio era percorso da fremiti libertari. Complessa la situazione nel Reame: dal momento che erano in esilio le personalità più dinamiche e colte, più legate ai centri di influenza sull’opinione pubblica europea, a disposizione del nuovo re di Napoli erano rimasti i gruppi meno attivi, meno moderni della classe dirigente meridionale, la cui cultura era ancorata alle sistemazioni del tardo Illuminismo e aveva assorbito poco dello spirito dell’età posteriore, per poter fronteggiare convenientemente la nuova cultura romantica nella quale si erano formate le giovani generazioni ed erano maturate le nuove esigenze nazionali. La monarchia borbonica aveva dunque a disposizione la parte deteriore della classe dirigente meridionale, con le sue tradizioni di corruzione, di vischiosità, di formalismo, di qualunquismo, di pigrizia, di scarsa funzionalità.
Allora è facile capire la gravità dei problemi nell’estrema stagione del Reame, e quale danno avesse procurato a se stessa la Dinastia, rompendo di nuovo nel 1848, come nel 1820 e nel 1799, con la parte più avanzata della classe dirigente e intellettuale del Sud. La frattura fra regime e Paese era diventata profonda. L’isolamento delle Due Sicilie, regno dislocato fra “acqua santa” e “acqua salata”, come era solito dire Ferdinando II, divenne via via più evidente. Fino ad essere decisiva.
Questa tristissima condizione del Sud si sommò all’incapacità predittiva e all’algida politica di repressione e di sfruttamento attuata da Torino subito dopo la conquista. «Non tutti hanno tratto dall’Unità gli stessi vantaggi», riconosce Romano. Il quale tuttavia non cita a chi quell’Unità abbia giovato, né chi ne abbia pagato il costo in termini che furono (e per tanta parte della vicenda unitaria sono rimasti) semplicemente e tragicamente di colonizzazione. Sembrerebbe un ritratto oleografico, se non cogliesse tutta una sua drammatica realtà, l’immagine di Zanardelli (primo presidente del Consiglio italiano ad aver varcato la linea Gustav, diretto a Sud) portato in giro a bordo di uno char-à-bancs, di un traino tirato da una pariglia di buoi lungo le carrarecce della Lucania, regione che conosceva poche e fragili strade bianche aperte – come nel resto del Mezzogiorno – dagli ingegneri di Murat; o quella di De Gasperi scoppiato in lacrime di fronte alla bolgia infernale dei Sassi, costellata da uomini e donne in nero, sulla soglia delle loro tane condivise con le bestie. Anche questa è storia, per chi vuole capire come realmente stavano le cose. Come è storia che sugli interessi del Paese, che avrebbero reclamato politiche di progresso in favore dei “napoletani”, finirono col prevalere quelli dell’area settentrionale della Penisola, votati al pagamento dei debiti della Cancelleria torinese con i Rotschild finanziatori del Piemonte nelle guerre di Indipendenza, prima di tutto; in seguito, al protezionismo dell’industria e dei commerci in favore dell’“altra Italia”; infine all’aggancio delle regioni privilegiate con l’Europa, e al contestuale abbandono alla deriva mediterranea di quelle penalizzate.
Ci si guardi pure allo specchio, dunque. Ma si abbia il coraggio di dire, senza più infingimenti, quel che realisticamente esso riflette, per una parte e per l’altra. Perché per la gente del Sud, ossessionata dall’eredità ricevuta dalla storia, memoria e revisione come giusto processo d’appello sono elementi culturali ancora vividi, fondanti. E ineludibili. Quella che il Tommaseo definisce inscienza, cioè ignoranza di quel che saremmo tenuti a sapere, e che avremmo il diritto di sapere, deve avere per forza di cose vita in qualche modo effimera. Storie e cronistorie possono nascondere anche a lungo, ma non per sempre, la verità su certi eventi. Come nel caso di Caporetto, delle responsabilità, del fuoco “amico”, della tragedia collettiva e di quelle singole vissute in quella fornace e, di conseguenza, nel Paese. Come nella strumentale definizione di “lotta al brigantaggio” con la quale si coprì la nuda e cruda realtà della prima guerra civile italiana e dei massacri consumati dai Fanti e dai Cialdini. Come nella seconda guerra civile che (non senza alcuni lati oscuri coevi e immediatamente successivi) fu vinta, a metà del “secolo breve”, dalle formazioni (da tutte le formazioni) della Resistenza. Inevitabilmente, ci sono un frammento che emerge, un’eco che si fa parola, una riflessione persino anonima (anche dolorosa, anche avvilita) che si traduce in apologo. Al modo di una monografia sulla Questione napoletana – priva del nome dell’autore, senza alcuna indicazione del luogo di edizione, ma con ben visibile l’anno della sua stesura, il 1862 – che ci offre l’analisi accorata del primo, decisivo anno di vita unitaria nel Sud, quale del resto era descritto anche da una trascuratissima stampa liberale: «Non scrivo per avere giustizia: dove sta la consorteria che oggi infesta l’Italia non vi sarà giustizia mai; io scrivo per protestare in nome del paese che è minacciato dalla guerra civile, in nome dell’umanità, in nome delle famiglie che sono state orbate dei loro capi, in nome del nostro diritto, in nome del sangue che allaga le nostre provincie… Io non ti temo, governo piemontese, dacché non ti stimo… Eppure ti amavo, o governo piemontese. Tutti ti amavano un giorno! Un anno addietro, quando non pur anco ti si conosceva, bastava in Napoli parlar del Piemonte per vedere la speranza irradiare tutte le fronti, il patriottismo riscaldare tutti i petti, la fratellanza stringere le mani: ed oggi? Oh oggi! Ma guardatela dunque l’opera vostra, o governanti. Venite, percorrete le vie, girate per le case, penetrate negli uffici. Che cosa vedete? Squallore, miseria, scoramento!».
Ecco, è necessario conoscere le diversità del mondo italiano, apprezzare la ricchezza indotta dalla federazione dei suoi contrasti, illuminare i coni d’ombra della sua storia labirintica, per non andare incontro al disastro etico, alla disfatta civile, al monadismo culturale. A questo soltanto non ci sono alternative.
Le splendide foto di Budapest, firmate da Dario Carrozzini, infine, ci riportano alla mente i calzoni corti, gli slanci generosi, gli ideali purissimi dei nostri “amici” della via Pàl; i luoghi di quella magnifica storia; i sogni d’avventure tante volte progettate; i volti dei ragazzi tante volte immaginati; l’epica battaglia, il coraggio del soldatino-eroe caduto vincendo, la stessa vittoria e la disillusione culminante, metafore cruciali della nostra vita, linea d’ombra che chiudeva l’età dell’oro dell’adolescenza e apriva l’orizzonte della presa di coscienza delle asperrime difficoltà della vita adulta… E forse anche per tutto questo lo spazio di libertà della via Pàl si fa possibile punto di ripartenza della corsa sospesa, chissà, o nocciolo nucleare che può irradiare una nuova forza centrifuga e ricreare le condizioni che riaprano un altro capitolo di “I giovani incontrano l’Europa”…
In bocca al lupo!

Aldo Bello

 

   
   
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