Marzo 2008

Album di narrativa
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Il passato per destino
Antonio Errico
 
 
 

 

 

 

 

 

La pietas
è un certo sapore della solitudine; l’esperienza
di ritrovare
l’universo dentro il quale si è diventati quello che si è, così come si è.

 

C’è un luogo, una periferia remota, un’estremità di terra, dove tutto quello che accade appare predeterminato, dove i destini non s’incrociano mai per caso, e uomini e donne sprofondano in se stessi, annegano nella voragine che spalanca l’esistenza, dissipano sentimenti e ragione, passioni e progetti, non hanno nulla da perdere perché hanno già perso, hanno già perso tutto in assoluto, senza nessuna possibilità di riconquista, oppure di salvezza o remissione.
Vivono come scheletri vaganti nel vuoto dei palazzi, nella insensatezza delle feste, in una decadenza esistenziale, ostaggi di stupidi vizi, debosciati, depressi dall’horror vacui, dalla miseria del tempo.
Hanno storie piccole che gli si sgretolano sotto i piedi, ossessioni del passato, indifferenza nel futuro, si voltano indietro per vedere cumuli di macerie: fortune bruciate, fallimenti. Se una volta hanno avuto qualcosa è andato perduto. Se una volta hanno avuto qualcuno adesso non hanno neppure se stessi. Percorrono un’esistenza ai margini, disorientati, dispersi in boscaglie intricate di ricordi. Hanno giorni sfilacciati che si alzano e cadono senza che accada mai nulla che abbia un senso vero, un riconoscimento autentico. Vivono di sottrazioni, di negazioni, nascondimenti o svelamenti di misteri da burla, provano felicità o disperazioni per occasioni da niente, si lasciano andare fino in fondo ad un pozzo di assuefazione alla noia e all’assenza a se stessi.
C’è un luogo che è sineddoche del mondo, mimèsi del reale e realtà trasformata in finzione, dove mentire a se stessi è l’unico modo per sopravvivere, dove cercare la mischia è un tentativo di sfuggire ad una solitudine che rassomiglia in modo straordinario alla morte.
Quale sia il luogo che costituisce l’ambientazione di Salento’s movida (Glocal Editrice, 2007), Armando Tango lo dice: è una connotazione topica, un’identificazione del contesto, paradigma e archetipo che assimila, rielabora ed esprime ambiguità, ambivalenze, dicotomie, contrapposizioni tra impegno e disimpegno, responsabilità e deresponsabilizzazione etica e sociale, convergenze e divergenze di concetti sui massimi e sui minimi sistemi, nuovo che avanza e avanzi del nuovo.
Armando Tango carica il luogo di una funzione semantica essenziale perché si costituisce come modello cui far riferimento per un’interpretazione dei conflitti e delle tendenze di una post modernità che registra l’azzeramento delle tensioni allo sviluppo individuale e collettivo, la resa al compromesso con la banalità e il qualunquismo, la passività e il rifiuto come categorie dell’esistenza, i segni di una debolezza civile, di un’inedia e un’ignavia che devastano la storia degli anni di questo inizio di millennio, la mancanza di un’autocoscienza, la consapevolezza che nulla si ripete ma tutto torna, si ripropone, invecchiato, con addosso e dentro tutte le premonizioni della fine. In questo luogo – chiuso, separato – le esistenze si consumano: si disfano, si sfarinano; manca ogni sintomo di fiducia, qualsiasi spiraglio di speranza; manca ogni consolazione, non c’è ombra di senso che sia diverso da quello che proviene da corpi che si agitano nell’ammasso frenetico e informe della movida: un movimento senza direzione, un vagolare nel deserto di ogni giorno.

È un luogo minato dal nichilismo, dalla vacuità, che si decompone, si lascia sfibrare dal virus dell’effimero, nasconde il volto butterato dietro maschere frivole di salotti neoborghesi, che sono il purgatorio di donnette, peones, vitelloni rammolliti e atterriti dall’idea di invecchiare.
Certo, la cifra stilistica di Armando Tango è l’ironia o, forse più esattamente, la sintesi ironica, l’immagine icastica e caustica che stringe un’essenza del vivere.
Ma è di quel genere di ironia disperata, che rivela un degrado, lo sfacelo morale di una società che sopravvive strascinandosi verso l’orizzonte di un’altra sera, di un altro invito a una cena, della comparsa di un ospite importante nel palazzo di città o nella villa al mare.
Poi, come sempre accade, dall’ironia si genera una grande malinconia. C’è una grande malinconia in questo romanzo: per tutto quello che passa, per l’inutilità di quello che resta, per la sottrazione di quello che si sogna, per i desideri brucianti che si spengono, per i pensieri che si riducono ad elaborare fini immediati e pratici.
I personaggi si guardano passare; vale a dire che si lasciano morire. Si scoprono sempre più soli, sempre più invischiati in ricordi compatti o che si presentano a brandelli.
Sono disimpegnati, impolitici, agnostici, egoisti, individualisti, complessati, fuori tempo, fuori luogo. Non affermano e non negano un senso perché non riconoscono un senso a niente e a nessuno. Vivono in silenzio drammi giganteschi mentre si esaltano per piccole stupide insensate rivincite su rivali che hanno la loro stessa ridotta statura. Sono la rappresentazione di un tempo, di un’epoca, che ha perduto – o si è privata – dell’immaginazione, della speranza, della tensione ideale, del sentimento sociale, del conflitto ma anche del compromesso generazionale.

Il decentramento geografico che Armando Tango adotta come ambientazione di questo romanzo è coerente con una destrutturazione sociale, con uno sradicamento ideologico, con l’impoverimento dell’immaginario individuale e collettivo.
Quello che resta è un vaneggiante narciso accartocciato nel suo sterile compiacimento.
Armando Tango costruisce il suo romanzo con una ciclicità che di volta in volta lascia intuire o rivela l’incombenza di una tragedia che ha sempre la fisionomia del quotidiano, del consueto, talvolta del banale, ma che in ogni caso rappresenta la superficie di una profondità, di un cratere di mancanze, di perdite.
Armando Tango racconta queste profondità di mancanze e di perdite attraverso procedimenti stilistici di deformazione figurativa, un’enfatizzazione grottesca, nel progressivo restringimento delle dimensioni spazio-temporali dei personaggi, che li conduce al solipsismo.
Accade talvolta che le storie finte della letteratura rassomiglino drammaticamente a quelle vere dell’esistenza. Che la differenza che passa tra le parole e i destini si faccia effimera, quasi inesistente. Che le pagine di un libro abbiano i colori delle stagioni, gli affanni di tanti giorni, le felicità di pochi istanti, i dolori che durano millenni, solitudini senza fondo, sogni che affondano come bastimenti sorpresi da tempeste sconvolgenti.
Accade in molte pagine di Salento’s movida: è come se tante storie fossero già viste, già sentite, appena ieri oppure molto tempo fa. Sono storie che hanno personaggi con un’esistenza che si configura quasi come un modello del vivere in un luogo, in un tempo, in una condizione. Sono occasioni per pensare, o ripensare, alle cose come sono andate e a come sarebbero potute andare, a quello che si è fatto o non si e fatto, si è detto e si è taciuto, alle feste finite bene e a quelle finite male.
Il tempo risucchia tutte le passioni. Non lascia spazio a nessuna proiezione nel futuro, a nessun progetto di domani, a nessuna fantasia di avventura. Il tempo è soltanto negazione delle possibilità, stagnazione delle tensioni, azzeramento del desiderio. Non soltanto dimostra, istante dopo istante, che tutto passa ma – più tristemente – che tutto è già passato.
Allora con il passato il conto rimane sempre aperto. Tutto quello che si vive, che si guarda, si tocca, si pensa, si sogna, è stato già vissuto guardato pensato toccato sognato, quindi è una menzogna del presente, una ripetizione, una copia, oppure un’appendice inessenziale e forse anche insignificante, perché non toglie niente e non aggiunge niente all’originale.
Il passato giudica. In modo implacabile, senza indulgere, senza concedere attenuanti a nessuna colpa.
In questo libro il senso di colpa è corrosivo. Tutti hanno una colpa, confessata o negata. Vivono aspettando un giudizio o una condanna. A volte – spesso – dal passato vorrebbero liberarsi per poter vivere senza la sua ombra inquietante, senza sentire il suo fiato sul collo, la sua ammonizione. Però sanno che non possono dimenticare. Così si accontentano di ironizzare, di risolvere un confronto con se stessi con l’amarezza di un sorriso, di concludere un incontro con la donna di una volta con uno sguardo perso in mezzo al vuoto. Tentano di non pensarci.
Il presente è questa attesa di un giudizio e una condanna.
Nelle due righe che accompagnano il libro, l’autore mi scrive che Armando Tango è lo pseudonimo che usa da vent’anni quando “gioca”.
Il termine gioco messo tra le virgolette mi fa venire in mente un’immagine e un riferimento.
L’immagine è quella di un bambino che gioca. Nessuno è più serio di un bambino che gioca. Perché il gioco è un metodo (l’unico possibile metodo) di esplorazione e scoperta del mondo. Si esplora e si scopre il mondo finché si gioca; quando si smette di giocare sul mondo scende il buio.
Lo scrittore è colui che continua a esplorare e a scoprire perché non vuole che sul suo mondo scenda il buio.
Il riferimento. Dice Roland Barthes che la scrittura è quel dato neutro, composito, obliquo «in cui si rifugia il nostro soggetto, il nero-su-bianco in cui si perde ogni identità, a cominciare da quella stessa del corpo che scrive».
Che il nome di Armando Tango sia vero o falso, dunque, non fa nessuna differenza. Non cambia una sola virgola che un’opera sia firmata da Fernando Pessoa o Alberto Caeiro, Alvaro de Campos, Ricardo Reis, Bernardo Soares. Come non cambia una sola virgola che Salento’s movida sia firmato da Armando Tango o da Teo Pepe. Conta solo che sia un libro che Lecce e il Salento aspettavano perché ne avevano bisogno per esplorare e capire il mondo che sono.

Come ogni scrittore, Giacomo Annibaldis scrive per cercare. Come ogni scrittore Giacomo Annibaldis scrive per cercare cose che conosce. Cerca quelle cose che conosce perché ha bisogno di definire l’origine e la consistenza esistenziale del proprio tempo, della propria storia, di quello che è accaduto e di quello che si è sognato, della vista mare che a volte è limpida, trasparente, libera da ogni striatura di cielo che offuschi lo sguardo e che a volte, invece, è annuvolata, nebbiosa, senza spiraglio, senza orizzonte, senza sognamento.
Cercare quello che già si conosce è esattamente come guardarsi allo specchio in un preciso momento pensando, in quel preciso momento, a come si era in un momento diverso, in un passato prossimo o remoto, vicino o lontano. Ecco: per Annibaldis la Casa popolare vista mare (Besa, 2007), è questo gesto di rispecchiamento. Scrive per ritrovarsi in ogni pagina, in ogni frase, ogni riga, ogni parola, ogni sillaba. Perché non sono parole, frasi, sillabe; sono piuttosto giorni andati via. Sono voci che il tempo ha risucchiato e portato lontano, che fa mulinare e tornare, di tanto in tanto, sempre più spesso, mentre si sta camminando, lavorando, parlando con gli amici, che certamente fa tornare ogni notte, soprattutto in quell’ora che non è notte più e non è alba ancora, allora quelle voci tornano nel residuo dell’insonnia, nello spossato dormiveglia, a dire cose già dette, a ridare un consiglio, a rinnovare un conforto, una consolazione.
Ritornano perché sono volti che ci appartengono, materializzati nell’aria in cui affondiamo lo sguardo, sovrapposti ai nostri stessi volti che giorno dopo giorno si fanno sempre più somiglianti, fino a confondersi.

Come ogni scrittore che fa quotidiana esperienza della strana – e spesso indesiderata, dolorosa – confusione tra le storie della vita e quelle di una narrazione, Giacomo Annibaldis si ritrova a raccontare storie che non sono altro che la sua stessa storia. Sono il nucleo di quello che poi è venuto, di quello che c’è stato, di tutto quello che si è perso e guadagnato, dei patti fatti con i sogni e la fortuna, un po’ per celia e un po’ per non morir, come diceva il vecchio Petrolini.
Casa popolare vista mare è sostanzialmente il racconto di un ritorno. Annibaldis fa tanta, tanta strada, notte e giorno, in sonno e in veglia, per paesi, per libri, per mitologie, per vibranti antichità, fa tanta strada con le gambe e col pensiero, con la passione e la ragione, per arrivare a domandarsi dov’è finito l’uomo che vendeva gelati al limone, e dove sono finiti tutti gli altri, tutti quelli delle palazzine. Se lo chiede come Edgard Lee Masters si chiedeva dove fossero l’abulico, l’ubriacone, il buffone, rispondendosi che tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.
Annibaldis non sa oppure non dice dove dormono tutti quelli dello Iaccipì: l’accattona, la Calabrese, la Menna-Menna, la Pizzicatrice, la bambola, i vecchi, le vecchie.
Quando si cerca qualcosa, allora, non si cerca altro che quello che già si conosce. Così quando si ritorna si ha desiderio di ritrovare quello che c’era, anche se si sa perfettamente che niente può essere mai nel modo in cui è stato.
Quando si racconta un ritorno si fa confessione della consapevolezza di questa impossibilità di ritrovare luoghi e creature.
Allora non si dovrebbe ritornare mai. Non si dovrebbe raccontare mai. Non raccontate mai niente a nessuno, va a finire che sentite la mancanza di tutti, dice Salinger alla fine del Giovane Holden.
Invece Annibaldis racconta perché avverte la mancanza di tutte quelle esistenze stupefatte dal mondo, sopraffatte dal tempo, soverchiate da destini incomprensibili o beffardi, qualche volta oltraggiosi. Sa bene che tra quella gente si è fatto il suo volto, la sua storia, tra quella umanità che sapeva salvarsi la vita istante per istante, e dopo che l’aveva salvata se la stringeva forte perché era la sola cosa che possedeva, anche se sembrava che non valesse niente. Invece valeva quanto tutto l’universo, perché era autentica, perché era essenziale. Annibaldis racconta: ora che sa leggere di greco e di latino, e scrive e scrive e ha molte altre virtù, sa che non può scrivere altro che di quel tempo, di quel luogo, di quelle storie; sa che ogni sua parola è citazione della parola della madre; sa che il classico dei classici è il corpus dei versi di Tommaso, il poeta con il ventre dilatato, come un relitto gonfiato dalle maree.
Casa popolare vista mare è uno di quei libri che si tengono dentro, in segreto, per anni e anni, che crescono lentamente, si stratificano, si nutrono di sangue, di memoria. Poi si fanno sillaba, parola, racconto. Quando il tempo è maturo, come la vita.
Allora questo è un libro che Giacomo Annibaldis doveva scrivere. Per un impegno assoluto e ineludibile con la madre, con la propria storia d’uomo, con se stesso; per un patto con la terra, con la memoria, con il destino, con l’origine, con il tempo passato e con quello a venire, con i dolori superflui, le misere felicità, i pochi – ma straordinari – stupori.
Questo è un libro che doveva alla sua infanzia: perché, come dice Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò, abbiamo tutti una montagna dell’infanzia, e per lontano che si vagabondi, là dovremmo ritornare perché là fummo fatti ciò che siamo.
Lo doveva a quella foresta di volti che ha attraversato per tutti i suoi cinquantasette anni; a quell’oceano di voci che in ogni stagione lo ha inondato; a tutti i sogni ad occhi chiusi e aperti, alle partite vinte e a quelle perse, ai giorni chiari e anche a quelli scuri.
È un libro che doveva ad una figura di madre delicatissima e possente, un portento di metafora, un ricordo consolante, che insegna che la vita è battaglia e pietà, altruismo e sapienza, rispecchiamento nell’esistenza di un altro, che non fa da guardia alla sua casa dello Iaccipì ma alla scrittura di un figlio, al suo desiderio di parole e al vincolo che ha con esse, che ritorna nell’immaginazione e nell’impegno duro, continuo, con la vita, che sorveglia il passo durante il cammino, come angelo custode e compagna di strada, come premonizione e come sintesi di ogni possibile esperienza.
Questo è un libro che Giacomo Annibaldis doveva al poeta Tommaso: a quell’uomo che si fa portavoce di molti altri uomini cui non è stato dato un nome, che guarda l’universo con la disperazione e la dolcezza di chi non ha bisogno di apprendere niente perché il nascere gli ha già insegnato tutto: il sogno e la consapevolezza della sua impossibilità, l’irrimediabilità della solitudine e la bellezza del mare, l’amicizia che accade come una straordinaria fortuna, la messinscena della tragedia e della commedia sul fondale di scena di ogni giorno.

Doveva scriverlo, Giacomo Annibaldis, questo libro. Per testimoniare che la fatica, l’onesta e la parola, un grande sogno cresciuto dentro gli occhi, lo sguardo che oltrepassa l’orizzonte del tramonto, possono consentire anche ai topi di volare.
Ma se un topo ha imparato a volare – dice Annibaldis – non vuol dire che è diventato un uccello. «È solo un pipistrello».
Certo, è solo un pipistrello. Ma che vola. Perché, forse, quello che conta è soltanto il volo, il desiderio di tentare il cielo, l’azzardo esistenziale di stendere le ali – piccole o grandi che siano non importa – e non se a volare sia un albatro o un pipistrello.
Diceva Franz Kafka nel terzo dei suoi Quaderni in ottavo: «Le cornacchie affermano che basta una sola cornacchia a distruggere il cielo. La cosa è indubitabile, ma non significa nulla contro il cielo, poiché il cielo significa appunto incompatibilità con le cornacchie».
Ma non c’è nessuna incompatibilità tra il cielo e i pipistrelli. Il cielo appartiene a loro nell’esatta misura in cui riescono a scoprirlo, a farsi accogliere, riconoscere come creature che volano perché hanno il desiderio o il bisogno di volare.
Doveva scriverlo un libro come questo, Giacomo Annibaldis. Perché, poi, quando tutto passa, le avventure si concludono, i furori si consumano, quando la memoria comincia ad offuscarsi, e i personaggi e le scene si fanno lontananti, allora resta la scrittura come prova che i fatti sono accaduti, che qualcosa è cambiato, che le parole sono fiato capace di trasformare l’universo, che il gelataio c’è stato davvero e i suoi gelati al limone erano i più buoni che mani d’uomo abbiano mai potuto impastare.
C’è un elemento che in questo libro diventa espressione connotante, cifra che lo sottrae a qualsiasi tentativo di assegnarlo rigidamente ad un genere. È un elemento dello stile e quindi della personalità. È un elemento della formazione e quindi della sensibilità. È un elemento della cultura e quindi della capacità di rielaborare i segni e di stabilire relazioni con l’altro da sé.
È la pietas, questo elemento. Una sorta di dolcezza che mitiga la sventura che travolge ogni creatura. Un colore che apre una finestra di luce nell’oscurità delle vicende. Una bellezza della speranza che insidia la consapevolezza della irreversibilità e irrimediabilità della miseria. Un profumo di pulito che per un attimo dissipa un lezzo nauseabondo del quartiere.
La pietas è la percezione di una malinconia, di un tumulto di sentimenti e sensazioni, un affetto verso i luoghi, le storie, gli uomini, nei confronti di una geografia dell’anima; è un abbandono rassegnato all’inevitabile; è un’etica della storia, incorruttibile.
La pietas è una sommessa preghiera verso tutti quelli che sono andati e mancano; è un gesto di coraggio verso quelli che sono rimasti e si confrontano con il tempo, con una dignità di dei sopravvissuti alla fine del mondo.
La pietas è un certo sapore della solitudine; l’esperienza di ritrovare, in fondo alle immagini della scrittura, l’universo dentro il quale si è diventati quello che si è, così come si è.
Doveva scriverlo, Giacomo Annibaldis, questo libro.

 

   
   
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