Marzo 2008

Miti, religioni, letterature
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In principio fu il diluvio
Monica Marano - Carla Stagno
 
 

 

 

 

Le comunità
furono costrette
a darsi alla fuga, portando con sé
la memoria di un “castigo divino” che fu all’origine dei miti e delle leggende narrati
in moltissimi testi sacri.

 

È presente in tutte quante le comunità umane, da un capo all’altro del pianeta: una remota inondazione “voluta” dagli dèi o – per le religioni monoteistiche – da Dio. Il Diluvio Universale deve pur corrispondere a qualche cosa di reale, se ha lasciato un segno così profondo nelle antiche culture. E ora, da qualche tempo, una nuova ipotesi scientifica avanza l’idea che forse fu proprio un’inondazione apocalittica ad aver inciso radicalmente nello sviluppo delle attività agricole in tutto il Vecchio Continente, più o meno 8.300 anni fa.
Utilizzando evidenze archeologiche e datando alcuni campioni organici con il carbonio 14, un gruppo di ricercatori britannici ritiene di aver dimostrato che il collasso di un enorme ghiacciaio dell’America del Nord, che avrebbe fatto salire il livello degli oceani di un metro e 40 centimetri, fu all’origine di gigantesche alluvioni nell’area Sud-est dell’Europa. Esse costrinsero migliaia di agricoltori, che da tempo vivevano lungo le coste del Mar Nero, a cercare nuove dimore nei territori occidentali europei.
La ricerca sostiene di aver trovato le prove dell’innalzamento del livello del mare in tutto il Mar Mediterraneo e nello stesso Mar Nero, grazie all’analisi delle linee di costa esistenti prima e dopo l’inondazione.
«La precisione della nostra ricostruzione ci ha consentito di arrivare ad un errore non superiore ai cinquant’anni», ha chiarito Chris Turney, un geologo dell’università di Exeter (Regno Unito), che ha guidato gli studi. L’innalzamento del livello del mare ricoprì circa 73 mila chilometri quadrati di spiagge, per un periodo di circa trentaquattro anni. Poiché era noto che attorno al Mar Nero si erano stabilite numerose comunità dedite all’agricoltura, è evidente che queste furono costrette a cercare altre aree nelle quali continuare la loro esistenza, e questo le portò lontane da altri mari.
«Studiando lo sviluppo dell’agricoltura in Europa, si scopre come essa fosse poco sviluppata prima del “diluvio”. Subito dopo questa immane catastrofe l’agricoltura ebbe un’improvvisa crescita nell’arco di una sola generazione», sottolinea Turney. Ciò spiegherebbe il motivo per il quale il Diluvio Universale come fenomeno “misterioso” registri la sua presenza in tutti i testi religiosi, e non solo, delle culture planetarie: se si fosse vissuti in quei tempi, la crescita spropositata del mare in un brevissimo torno di tempo avrebbe dato la sensazione, e meglio ancora la certezza, che tutto il mondo fosse inondato.
Quest’ultima scoperta va a sommarsi a precedenti ipotesi, secondo le quali il Mar Nero si sarebbe ingrandito esattamente al termine delle glaciazioni. Quella più nota venne avanzata da William Ryan e Walter Pitman, geologi della statunitense università Columbia. Secondo questi due ricercatori, attorno al 5000 prima di Cristo il Mar Nero era isolato dal Mar Mediterraneo. Esso era un gran lago di acqua dolce, e le rive erano un centinaio di metri al di sotto del livello dei mari.
Con tanta acqua dolce a disposizione si svilupparono diverse attività legate all’agricoltura. Ma intorno a 7000 ani fa crollò la diga naturale in corrispondenza dell’attuale Bosforo, che separava l’acqua dolce del Mar Nero da quella salata del Mar Mediterraneo. Si venne a creare in questo modo una gigantesca cascata, che durò un anno intero, nel corso del quale si riversò nel lago, immettendovi anche fino a cinquanta chilometri cubi di acqua al giorno. Il livello del Mar Nero si alzò di circa quindici centimetri al giorno, fino al momento in cui raggiunse il livello dei mari. Le comunità furono costrette a darsi alla fuga, portando con sé la memoria di un “castigo divino” che, entrando nei racconti orali dei superstiti, fu all’origine dei miti e delle leggende narrati in moltissimi testi sacri.

Conosciamo la vicenda riferita dalla Bibbia. La Genesi racconta che Dio volle risparmiare Noè (che aveva l’età di seicento anni, ed era ritenuto giusto e perfetto) e la sua famiglia dal castigo che stava per abbattersi sul mondo; per questa ragione gli ordinò di costruire l’arca, a bordo della quale imbarcare i suoi e una coppia di tutti gli animali che abitavano la terra.
Noè sembra corrispondere all’eroe del Diluvio conosciuto dagli antichi documenti sumero-babilonesi, poi anche greci. Con lui, la Bibbia dalla storia umana in generale passa a quella speciale del popolo che sarà oggetto di particolari provvidenze di Dio. La stessa fonte racconta che Noè, una volta uscito dall’arca, proprio a Dio offrì un sacrificio; e con questo episodio Dio diede principio a un secondo cominciamento del mondo e a una nuova alleanza, simboleggiata dall’arcobaleno, ripetendo il comando di propagare la specie umana e concedendo all’uomo di servirsi delle altre creature per proprio uso.

Nella mitologia greca è ricordata la vicenda dei due anziani coniugi Deucalione e Pirra. Questa la vicenda: figlio di Prometeo e di Climene, Deucalione aveva per moglie Pirra, figlia di Epimèteo. Durante il Diluvio, scatenato da Giove per la distruzione del genere umano, i due, ritenuti i soli giusti di tutta l’umanità, si erano posti in salvo, ritirandosi con una nave sul monte Parnaso. Quando Giove, fatto cessare quell’apocalisse, restituì la serenità alla terra e al cielo, Deucalione piangeva e insieme con la consorte si disperava perché era del tutto perito il genere umano. Allora entrambi decisero di recarsi a Delfo per consultare l’oracolo sul modo con cui potesse restaurarsi la stirpe umana.
L’oracolo di Tèmide rispose: «Uscite dal tempio, copritevi il capo, slegate gli abiti cinti e gettate dietro le spalle le ossa della grande nutrice». Dopo essere stati lungamente perplessi sul significato dell’oscuro responso, Deucalione pensò che la grande nutrice dovesse essere la Terra, e di conseguenza le sue ossa non potevano essere che le pietre. Manifestata questa interpretazione alla moglie, insieme gettarono sassi dietro le loro spalle. Le pietre lanciate da Deucalione si trasformavano in uomini, quelle buttate da Pirra in donne. In questo modo venne ripristinato il nuovo genere umano.
Passiamo all’induismo. Qui, esemplificando, Brama, Siva e Visnu, in origine simboli cultuali di tre religioni probabilmente differenti, con abbondanti apporti di elementi mistico-estatici provenienti dalle popolazioni aborigene dell’India, sono poi assunti quale simbolo di tre momenti differenti del divenire dell’Uomo e dell’Universo, e, cioè, la generazione o creazione (srsti), il mantenimento (sthiti) e la distruzione del creato (pralaya), venendo così a formare la cosiddetta Trimurti che, più o meno, costituisce il fondamento comune del pensiero teologico indù.
Ma mentre nel versante vedico dell’induismo Visnu era la divinità solare che incarnava il principio-luce che pervade l’Universo, in quello dei visnuiti diventa la divinità centrale che assorbe tutte le funzioni, da quella di demiurgo alle altre, di eroe celeste, di numerosi eroi tribali, di tutti i semidei. Dunque, con il nome di Matsya, sotto l’aspetto di pesce, salva Manu, il prototipo umano, dal Diluvio Universale, anche in questo caso facendogli costruire un’arca, la cui polena era legata alla sua pinna caudale, in modo che potesse condurre a un luogo ove la terraferma sarebbe emersa prima che altrove. E questo mito ricorda quello babilonese del dio-pesce Oannes, salvatore dell’umanità e suo maestro, tramandatoci da Beroso.
Abbiamo detto che il racconto del Diluvio si trova in più di un contesto culturale: nell’area mediterranea, nell’Estremo Oriente, nell’America centro-meridionale, nelle isole del Pacifico è presente il ricordo di una calamità che travolse l’umanità. Questo riscontro ha spinto gli studiosi a ipotizzare che dopo l’evento i popoli si siano dispersi in più direzioni. L’ipotesi è suggestiva, ma le tradizioni mesopotamiche più antiche parlano piuttosto di diversi diluvi presso quei popoli soggetti ai bizzarri straripamenti del Tigri e dell’Eufrate.

Nell’epopea di Gilgamesh è narrata in versi la vicenda del Diluvio, allo stesso modo in cui è narrata nella Bibbia. Un confronto fra i due testi consente di cogliere le analogie, ma soprattutto le differenze che riportano ad un differente contesto. Intanto, nella narrazione biblica è chiaramente precisata la motivazione della calamità: «Vedendo dunque Dio come grande era la malizia degli uomini, sopra la terra, e tutti i pensieri del loro cuore erano intesi a malfare continuamente, // si pentì d’avere fatto l’uomo. E fu preso da intimo dolor di cuore: // Sterminerò, disse, l’uomo da me creato dalla faccia della terra, dall’uomo fino agli animali, dai rettili fino agli uccelli dell’aria…».
Nel testo mesopotamico, invece, i motivi sono meno evidenti e giustificabili; inoltre, la decisione del Diluvio viene presa da un gruppo di dèi, e non è condivisa da tutti gli altri. Infatti Ea, il dio della sapienza, di nascosto dice a Utnapishtim, destinato a diventare dopo il cataclisma il padre di tutti i nuovi uomini: «Demolisci la casa, costruisci una nave, // lascia andare le ricchezze, cerca la vita, // i beni odia, la vita fa vivere, // porta a salvamento ogni seme di vita nell’interno della nave!». Tutti gli dèi mesopotamici, poi, durante il Diluvio sono sconvolti: «Come cani stettero fermi, si accucciarono fuori». Dio, invece, date le istruzioni a Noè, ricompare solo per avvertirlo che può uscire dall’arca: «Uscite dall’arca, tu e tua moglie, i tuoi figli e le mogli dei tuoi figli, // conduci fuori con te gli animali di ogni genere che sono insieme con te, tanto volatili, che bestie e rettili che strisciano sulla terra, e scendete sulla terra: crescete e moltiplicate, dilatatevi sopra la terra, e riempitela!».
I due protagonisti, cessato il Diluvio, inviano uccelli in esplorazione: Utnapishtim fa uscire la colomba, la rondine, infine il corvo che non ritorna più, poiché le acque si sono prosciugate e ha trovato cibo. Noè invece «passati quaranta giorni […] mandò fuori il corvo, // il quale uscì e non tornò fino a tanto che le acque fossero seccate sulla terra. // Mandò ancora dopo di lui la colomba […] // la quale, non avendo trovato ove fermare il suo piede, tornò a lui nell’arca; // […] e avendo aspettato sette altri giorni, mandò di nuovo fuori la colomba; // ma ella tornò a lui la sera, portando in bocca un ramo d’ulivo con verdi foglie. Intese dunque Noè che le acque erano cessate sopra la terra. // E nondimeno aspettò altri sette giorni, e rimandò la colomba, la quale più non ritornò a lui». Noè tuttavia non esce subito, come Utnapishtim, ma aspetta, finché Dio stesso non gli ordina di abbandonare l’arca.

Il Creatore non fa di Noè un dio. Pur essendo il tramite privilegiato fra l’umanità e Dio, egli rimane uomo, tanto che muore dopo tre secoli e mezzo. Utnapishtim non muore, vive alla bocca dei fiumi, nel paradiso terrestre in cui mai la morte lo toccherà. Nel pantheon politeistico mesopotamico c’è posto per una coppia umana che acquista l’immortalità, nel Cielo monoteistico ebraico questa è prerogativa esclusiva di Dio.
Ma c’è un’altra differenza tra i due protagonisti. Utnapishtim non si connota tanto per i valori morali, quanto perché “molto sapiente”. La sua sapienza gli consente di capire il volere degli dèi e di conquistare una dimensione eterna. Il testo mesopotamico sembra affermare che la colpa è frutto di stupidità; l’essere sapiente, invece, fa la distanza fra gli uomini, poiché permette di discernere nella complessità del vivere la via che conduce “alla vita”.

Nella Genesi il male è insito nella natura umana; il “giusto”, non il sapiente, colui che, cosciente di essere peccatore, teme la colpa e si abbandona fiducioso al volere di Dio, questi ottiene “grazia” presso di Lui. La Bibbia mette in luce tutta la fragilità umana, che si riscatta soltanto nelle grandi braccia di Dio; il testo mesopotamico lascia un maggiore spazio alle doti intellettuali dell’uomo, capaci di distoglierlo da un percorso che conduce all’annientamento di sé e di avviarlo sulla strada che si apre alla vita.
I Maya, infine. Questa civiltà precolombiana riteneva che ci fossero stati parecchi mondi: ciascuno era perito a causa di un Diluvio, e si attendeva un successivo Diluvio. Notizie sui miti maya, dal momento che la lingua di questo popolo non è stata decrittata che in minima parte, si hanno dalla lettura dei quattro libri del Popol-Vuh (La raccolta delle foglie scritte), una vasta compilazione redatta nel XVII secolo da un indigeno cristianizzato del Guatemala. Nel terzo dei quattro libri si narra della creazione da parte degli dèi dei primi uomini, e della morte che Diluvio dopo Diluvio colpisce il genere umano. Degno di nota il fatto che parecchi passi di questo documento posseggono movenze metriche, e qualcuno può essere identificato con un vero e proprio canto, probabile residuo delle melopee dette “nugum tzih”, cioè “ghirlande di parole”, che accompagnavano le danze rituali.

 

   
   
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