Marzo 2008

Tempi moderni
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Arte trash
Tonino Caputo - Enrico Maio
 
 

 

 

 


Un uomo
e un bambino
attraversano un paese devastato: intorno a loro, masse di rifiuti, segni di incendi, mucchi di detriti, ammassi enormi
di macerie...

 

Tutto quel che avanza di una cena, manifesti lacerati, insieme con i resti di pareti scrostate, tubi di scappamento compressi, fili di ferro, violini maciullati, tubetti di colori consumati, ombrelli rotti, scarpe usurate, stracci ovunque… Potrebbe essere la descrizione di una discarica, ma anche quella della sala di un museo di arte contemporanea. Allora: icona della contemporaneità è la spazzatura? A giudicare da un certo tipo di arte, si direbbe proprio di sì. Un mondo che consuma moltissimo produce un’analoga quantità di rifiuti. L’appagamento di un bisogno, di un desiderio, lascia dietro di sé tracce destinate ad essere buttate via. Ma gli artisti, com’è noto, sono sempre i primi a captare segnali e a riconoscere emergenze.
Possiamo dire che la storia cominci intorno agli anni Dieci del XX secolo: è questo il momento in cui si iniziano ad utilizzare gli scarti della società dei consumi e a sublimarli in opere; non soltanto li si salva dalla scomparsa e dall’inceneritore, ma si elargisce loro una sorta di eternità. In altre parole, gli artisti sono i pionieri del riciclo (Lea Vergine ne ha raccontato l’avventura in un bel libro, Trash. Quando i rifiuti diventano arte).
In ambito dadaista gli esempi sono numerosi, ma con tutta probabilità il più calzante è quello di Kurt Schwitters, il quale realizzava dipinti con biglietti di autobus usati, con scatole di fiammiferi vuote, con spaghi, con ferri, con ingranaggi vari, con rotelle. Oggetti non più necessari, ma nei quali c’è una vita che, comunque, continua.
Negli anni Sessanta del secolo scorso sono gli esponenti del francese Nuovo Realismo i nuovi sacerdoti di un’estetica della spazzatura. Il teorico del movimento, Pierre Restany, predica l’appropriazione diretta della realtà. E questa realtà, com’è ovvio, è fatta anche di pattume: Arman crea le Poubelles: mucchi di rifiuti situati in contenitori trasparenti. Spoerri realizza tavole imbandite a parete con piatti sporchi e fiori rinsecchiti. E Cesar sostiene che «la spazzatura non è ciò che rifiuta la società, ma un materiale utile che qualcuno ha lasciato in giro. Allora lo prendo io».

Che cosa afferra Cesar? Di tutto. Vecchie macchine, plastiche, ferri, impianti di illuminazione: tutto viene compresso e si trasforma in scultura, cioè nella più tradizionale delle arti. Anche Pistoletto riflette su questo, circondando la sua celebre Venere, eterno simbolo di bellezza nuda, di stracci, emblematizzando la moda che passa. E convinta riciclatrice è Enrica Borghi, con la sua statuaria fatta di bottiglie di plastica o con carta di caramelle. E ancora, l’anglo-palestinese Mona Hatoum ha addirittura realizzato una collana di capelli lasciati sulla spazzola, mentre il partenopeo Maurizio Cannavacciuolo inventa gioielli di scarti: unghie, peli pubici, mozziconi di sigarette finiscono in spille e in anelli. Ma si vada a spiegarlo ai suoi concittadini sepolti dall’immondizia!

Un uomo e un bambino attraversano un paese devastato: tutto intorno a loro, masse di rifiuti, segni di incendi, mucchi di detriti, ammassi enormi di macerie. Un paesaggio post-catastrofe. Spingono, forse non a caso, un carrello da supermercato, dentro il quale hanno stipato le loro poche cose: coperte, derrate alimentari, oggetti che ritengono utili. Il paesaggio che Cormac McCarthy descrive nel libro La strada, il suo ultimo romanzo, è coperto dagli avanzi della società industriale collassata: lattine vuote, bottiglie di vetro, stracci, mobili abbandonati, ferri vecchi, cumuli di pattume.
Nella letteratura americana l’immagine della discarica, dell’accumulo di rifiuti, è tutt’altro che rara. Al contrario, è consueta. A partire dagli anni Sessanta, momento culminante della American way of life, le deiezioni della società industriale sono apparse agli scrittori di quel Paese l’esatto rovescio del consumo, la parte caduca, la quantità morta dell’immenso magazzino delle merci offerte a profusione da negozi, centri commerciali, ipermercati.
Richard Brautigan, scrittore beat, nel libro chiave degli anni Sessanta, Pesca alla trota in America, (esattamente del 1967), descrive un “Deposito demolizioni di Cleveland” nel quale, rovesciando il sogno edenico della natura incontaminata del narratore trascendentalista statunitense Thoreau, è possibile acquistare un ruscello da trote di seconda mano, scarto di un paesaggio che annega nel pattume. I dropouts (gli emarginati) di Brautigan sono essi stessi dei rifiuti, delle deiezioni del Grande Paese, non soltanto perché vivono in mezzo alla spazzatura, ma perché producono opere, romanzi, racconti destinati allo scarto.

Ma il testo che celebra l’epopea dei rifiuti è senza alcun dubbio Underworld (del 1997) di DeLillo. Il protagonista, Nick Shay, manager, si occupa infatti di smaltimento di rifiuti. A partire dai suoi ricordi, spazzature che galleggiano sulla superficie della memoria, Shay ha compreso che il pattume rappresenta l’ultima frontiera dell’autonomia umana, l’ostacolo contro cui cozza la nostra idea di essere noi gli autori della nostra stessa biografia. Underworld, che riteniamo sia uno dei più potenti romanzi degli ultimi decenni, è un’inclemente analisi dell’America; il suo protagonista e la moglie, Maria, ossessionati dalla spazzatura, vedono tutto in termini di futuro pattume.
Al confronto, gli scrittori europei appaiono meno catastrofici, più disposti a leggere il rovescio del consumo in termini di un equilibrio che qualcuno ha voluto definire “cosmico”. Michel Tournier, in uno dei più bei romanzi francesi, Le meteore, ci presenta la figura di Alexandre Surin, dandy del pattume, gestore di una discarica, omosessuale ed estensore di una “estetica del pattume”. In un passaggio di questa narrazione, Alexander spiega e chiarisce che l’immondizia non è il nulla in cui viene inghiottito l’oggetto scartato, bensì «il conservatorio dove esso trova posto dopo avere attraversato con successo mille prove. Il consumo è un processo selettivo destinato a isolare la parte indistruttibile e veramente nuova della produzione».
Il libro che ha ispirato Tournier con tutta probabilità è il penultimo romanzo pubblicato da Charles Dickens, Il nostro comune amico, (pubblicato nel 1864-65), al cui centro c’è l’eredità lasciata dal defunto Re del Pattume. Il racconto dello scrittore inglese è giocato per intero sulla coppia lusso/immondizia, e Tournier sviluppa quest’idea mettendo bene in evidenza l’ossessione delle società occidentali, e il suo stesso terrore: sprecare. Il sogno del capitalismo è quello del “consumo eterno”, oggetti che durano per sempre, in netto contrasto con la struttura stessa della sua economia, per cui le cose sono prodotte per usurarsi, rompersi, essere sostituite. Lo scrittore francese parla del «sogno della costipazione urbana integrale» come di sogno decisamente schizofrenico.
Italo Calvino, che ha inserito nel suo capolavoro Le città invisibili (del 1972) alcune città della deiezione, dello scarto e del rifiuto, in un bellissimo racconto, apparso inizialmente in rivista (La poubelle agrée, del 1977, ora in La strada di San Giovanni), propone una lettura diversa del pattume. La poubelle è la pattumiera che Calvino, in quanto unico maschio della casa di Parigi dove abita insieme con la moglie e con la figlioletta, deve curare giorno dopo giorno. Si tratta dell’ultimo anello della catena del consumo casalingo: deve preparare la pattumiera foderandola di giornali, e, quando è colma, deve scendere le scale e vuotarla.
Racconto di antropologia quotidiana, La poubelle ci fa capire il possibile rapporto che possiamo intrattenere con i rifiuti. Svuotare la pattumiera è, a detta dello scrittore, un rito di purificazione, metafora di una condizione esistenziale più ampia: «Soltanto buttando via posso assicurarmi che qualcosa di me non è ancora stato buttato e forse non è né sarà da buttare». Che è come dire: è proprio necessario separarsi dalla propria spoglia, o crisalide, o infine limone spremuto del proprio vivere, affinché ne resti la sostanza, e – aggiunge lo scrittore – «domani possa identificarmi per completo (senza residui) in ciò che sono e che ho».
È senz’altro una morale stoica, da antico ragazzo ligure, che sembra contrastare con quella contemporanea in cui lo scarto, lo spreco, il rifiuto è soltanto la parte negativa dell’esistenza che ci perseguita, come nei cumuli di scorie per le vie di Napoli e delle città finitime, che ci tallona da vicino, fino a farci credere che noi stessi, come i personaggi del racconto di McCarthy, siamo una deiezione, un rifiuto, uno scarto.

I rifiuti sono diventati il nostro specchio, e non più, come in Tournier e in Calvino, l’altra faccia della medaglia, il rovescio necessario e indispensabile del positivo, della vita stessa: il mondo ctonio, regno di Plutone, con cui venire a patti, senza farci mai divorare. Lo sappiamo, o almeno dovremmo saperlo, fin dal lontano 1967, quando Michelangelo Pistoletto incominciò ad utilizzare con crescente frequenza gli stracci nelle sue installazioni, e quando espose la splendida Venere marmorea vista di spalle, e dirimpettaia rispetto a un gran cumulo di cenci e brindelli. Al modo di Napoli dei nostri giorni: la città che fu capitale europea, oggi ridotta a visione apocalittica della sporcizia, dell’abbandono, della miserabilità urbana collettiva inscritta nella universale miserabilità degli egoismi italiani. L’arte povera e la letteratura realistica avevano avuto strabilianti capacità predittive. Ma anche il mito ci insegna che si può essere profeti non attendibili, come Cassandra, la più bella delle figlie di Priamo, che inutilmente tentò di dissuadere i troiani dall’introdurre il cavallo di legno in Troia, e che fu ritenuta dea e credibile profetessa soltanto quando emigrò in Occidente, stabilendosi su terre pugliesi, quelle contigue alle rive del fiume Ofanto.
Allora ci si espone all’ingiuria di chi, nel nostro Paese, napoletano o meridionale non è; e, oltre le nostre frontiere, ad esempio in Francia, in Germania o in Inghilterra, al sarcasmo dei giornali, all’ironia afosa degli untorelli che ignorano che tutto il Sud, dai Bizantini in poi, ha subìto una storia pesante. Come scrive in un commosso articolo Raffaele La Capria, la pesantezza di questa storia l’aveva percepita George Gissing quando, viaggiando in Calabria, all’inizio di questo secolo, aveva sentito venire dai campi il canto malinconico di un contadino, «una nenia simile a un lamento» che gli era arrivata diritta al cuore e gli aveva dettato queste parole: «Razze brute si sono gettate l’una dopo l’altra su questa terra dolce e luminosa; la sottomissione e la schiavitù sono state attraverso i secoli il destino di questo popolo. Dovunque si cammina si calpesta sempre terreno che è stato inzuppato di sangue. Un dolore immemorabile risuona anche attraverso le note dei loro canti. È un paese stanco, pieno di rimpianti, che guarda indietro attraverso le cose del passato; perduto nella vita presente e incapace di sperare sinceramente nel futuro [...]. Commosso da queste voci che cantavano nei campi [...], chiedevo perdono di tutta la mia stupida irritazione, delle mie critiche sconvenienti. È legittimo condannare i dirigenti dell’Italia, quelli che s’incaricano di plasmare la vita politica e sconsideratamente la caricano di pesi insopportabili. Ma fra la gente semplice che vive sul suolo italiano uno straniero di passaggio non ha nessun diritto di coltivare sentimenti di superiorità nazionale, indulgere a una sprezzante impazienza. Questo è segno di volgarità turistica».
Si ricordino costoro, dunque, e quant’altri si voglia in Europa, che la loro prima barbarie fu cancellata dalla Grecia e da Roma, e la seconda dal Rinascimento. Allora, giù le penne!

 

   
   
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