Marzo 2008

Politica del doppio binario
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Far South
Lello Boda
 
 

 

 

 

Al Sud manca
il supporto di una classe dirigente che sappia
investire sulla sua gran voglia di fare.

 

Quando sento dire da un qualunque politico che il Sud «sarà il motore dello sviluppo» mi coglie d’istinto un moto di rabbia feroce. Di tutte le demagogie da incalliti magliari, questa è forse la più offensiva, dal momento che la situazione di molta parte del Sud resta tragica, e lo dico con amore e disperazione. Perché il Sud possa diventare motore del Paese si devono realizzare condizioni che nessun progetto politico o economico realmente prevede, e alle quali nessuno sta lavorando. Dunque, piantiamola una volta per tutte di far ricorso all’ipocrisia delle false dichiarazioni d’intenti, che hanno dato sostanza alla storia dell’arretratezza meridionale da mezzo secolo a questa parte.
Certamente, sul piano dell’antropologia umana, alcuni primati il Sud ce li aveva già, e quello che a me sembra più rilevante, oltre alla bellezza della natura e alla grandezza della letteratura, aveva a che fare con il tessuto delle relazioni. Al Sud si doveva faticare per sentirsi soli. Gli scambi formali erano limitati al minimo, l’aplomb “britannico” era sommerso da una propensione a volte persino afosa al dialogo e alla confidenza unilaterale, i contatti tra le persone erano quasi sempre occasione per dirsi e darsi qualcosa di autentico. La voce, la vita dell’altro sapevano toccarti nel profondo.
Saranno anche segreti romanticismi di chi è stato costretto ad assumere la maschera dell’impassibilità, girando il mondo per lavoro: ma chi è “sudista” ed è stato a lungo lontano dalla sua terra, dalla sua lingua tagliata, dalle sue antiche atmosfere, ha una nostalgia struggente di quel che ha lasciato, anche perché è consapevole che altrove tutto è diverso, distaccato, a volte algido.

Napoli era città emblematica della socializzazione. Ma non occorre andare tanto lontano: Lecce era città dell’affabulazione, del parlar forbito, del “deinde philosophare” contrapposto al barese “primum vivere”. A volte ci si doveva nascondere per godere di un poco di non-socialità, di privatezza. E non è trascorso molto tempo, da allora. Napoli non è più la stessa. Roma non è più la stessa: bellissima, splendente come sempre, ma l’aria non è quella di prima, tenera, sensuale, “stuzzicarella” nemmeno se illuminata da un “friccico de luna”. Lecce non è la stessa: colta, raffinata, come sempre luminosa sotto un cielo che sbalordì uno spirito smagato come Piovene, ma ormai sulla china di comportamenti “scandinavi”, un po’ frigidi, non sobri ma quasi spigolosi, e a volte glaciali.
Altro che Sud motore del Paese. Si sono invertiti un processo evolutivo, una tradizione, e sta emergendo il dato nuovo della solitudine, della malattia che ci allontana gli uni dagli altri, irrimediabilmente riducendoci, alla fine, a tristi monadi solitarie.

Sì, motore del Paese! Ma ci facciano il piacere! Dopo anni di rincorsa, l’industria del Sud ha ancora il fiato corto: se da una parte continua a soffrire il gap di sviluppo e di capitali nei confronti delle grandi imprese del Nord, dall’altra non riesce neppure a “monetizzare” la sua situazione di svantaggio, come si verifica in aree simili, per offrire costi competitivi e attrarre così maggiori investimenti. E tutto questo non lo dice l’astrologo, ma la Svimez, che puntualmente continua ad analizzare la situazione del Mezzogiorno.
Risulta dunque che nel 2006 il prodotto interno lordo delle regioni meridionali è cresciuto a ritmi inferiori rispetto a quelli del Centro-Nord (1,5 contro 1,9 per cento), confermando una tendenza che dura ormai dal 2004. Anche gli investimenti dall’estero e l’export restano lontani dai valori medi dell’Italia. Sul fronte del lavoro, poi, non ci sono dubbi che i senza impiego siano al minimo storico del 15 per cento, ma è anche vero che gli ultimi dati Istat indicano una diminuzione anche degli occupati.
Tradotto in soldini, tutto questo vuol dire che forse nell’ultimo anno si è creato davvero qualche nuovo posto di lavoro, ma che sicuramente è cresciuto di più il numero di coloro i quali hanno affidato i propri destini al lavoro nero o all’emigrazione verso il Nord. Che non a caso nel 2005-2006 è tornata quasi ai livelli drammatici degli anni Cinquanta e Sessanta. Fenomeno, anche questo, dovuto ai nodi gordiani che soffocano il settore industriale nel Sud: «Su questo fronte, in realtà, qualche segnale di ripresa si vede, ma andrebbero superati alcuni vincoli strutturali che ancora impediscono all’economia del Sud di reagire positivamente alle sfide della competitività internazionale».
Gli elementi critici sono quelli di sempre: criminalità, infrastrutture insufficienti (al Sud finisce solo il 31,3 per cento degli investimenti, e i cantieri sono i più lenti d’Europa), burocrazia nazionale indegna di un Paese moderno, amministrazioni locali farraginose, microimprese sottocapitalizzate, scarsi investimenti in ricerca e tecnologia. Proprio su questi ultimi due aspetti insiste Svimez, per sottolineare come la politica industriale degli ultimi anni, volta a favorire l’aggregazione di piccole imprese e la creazione di un tessuto di realtà innovative e dinamiche da far crescere all’ombra dei rarissimi colossi presenti nell’area (Fiat, Stm, Ilva, Erg), sia sostanzialmente fallita. E la situazione non sembra certo destinata a migliorare nei prossimi anni, visto che il Piano di rilancio Industria 2015, presentato un anno fa dal ministro per lo Sviluppo Economico, dedica al Sud un’attenzione del tutto insufficiente.

Risultato? Un divario sempre più marcato non soltanto rispetto al Nord, ma anche nei confronti dei Paesi emergenti: in concreto, non c’è impresa italiana che, tra Calabria e Slovenia, scelga la prima per i suoi impianti. E non si incoraggia l’avvio del motore promesso dai predicatori del tempo perduto senza adottare per il Mezzogiorno una fiscalità di vantaggio, ad esempio, come hanno fatto con successo in passato altre aree economicamente depresse, come l’Irlanda, il Galles, il Midi francese e le sacche povere della Grecia e dell’Iberia.

Declina l’estate con un dolcissimo settembre, e uno che abbia un po’ di curiosità delle cose del mondo e che non intende parlare o scrivere senza cognizione di causa va a saggiare il polso del Sud alla barese Fiera del Levante, quella che ci apre gli occhi, presentandoci il Mezzogiorno che ci piace: non quello dei fatti di cronaca e delle vicende criminose (che sono perfettamente uguali a quelle del Nord), e neanche quello – splendido – che amiamo di più, della cultura, dell’arte, dei paesaggi da brivido. Ma il Sud che ha voglia di fare e di intraprendere, di “vendere” se stesso sui mercati, di crescere e di prosperare.
In realtà, proprio questo Sud è la parte del Paese che la politica ha penalizzato, danneggiandolo sempre più, negli ultimi tempi: con i presidenti di Regione in caduta libera, col flop dei “governatori” turisti non per caso, e con gran codazzi al seguito, in nome di nebbiosi progetti di relazioni economiche con grandi Paesi, con gli sperperi e con operazioni non sempre limpide sulle quali indaga – a volte ostacolata – la magistratura, e via elencando. Vien da pensare al summit alla reggia di Caserta, a conclusione del quale si sono promessi un bel po’ di quattrini all’Italia mediterranea. Si manterrà la parola? E se pure si manterrà, servirà a qualcosa?

Suspicione legittima. Perché al Sud manca il supporto di una classe dirigente che sappia investire sulla sua gran voglia di fare. Ed è il Sud il primo a pagare per l’assenza di due politiche cruciali per la crescita: la riduzione (veloce, e soprattutto autentica) delle imposte e la flessibilità, anche in uscita, del mercato del lavoro.
Piaccia o no, se si vuole avviare quel dannato motore le tasse al Sud vanno tagliate, non solo perché è giusto, ma perché si deve tener conto di chi sono i “competitori” del Meridione nell’era della globalizzazione. I Paesi balcanici si stanno riempiendo di grandi strutture turistiche internazionali. Quei luoghi sono più suggestivi della Sicilia, di certe fasce costiere e interne della Calabria o della Basilicata? Per nulla, ma esibiscono due tratti ai quali i grandi investitori internazionali non possono restare indifferenti. Primo: il rischio-Paese è inferiore; e qui conta senza dubbio la grande incompiuta della politica italiana, cioè la lotta alla criminalità organizzata; ma conta anche l’incertezza normativa che avvolge ogni ambito della vita italiana. Semplificare è necessario per attrarre investimenti esteri. Una multinazionale non può permettersi di mettere in campo risorse in una realtà nella quale i suoi manager non sono in grado di sapere con ragionevole certezza che ciò che è illegale oggi lo sarà anche domani, e viceversa. Ma, in seconda battuta, i Paesi balcanici hanno anche imposte molto contenute. Il Montenegro ha una flat tax del 9 per cento. Dalla Slovacchia in giù, hanno praticamente abolito l’imposta sul capital gain: e noi “armonizziamo”, sì, la tassazione sulle rendite finanziarie, ma spostandola verso l’alto!
Simultaneamente, proprio al Sud, dove la disoccupazione è di gran lunga più alta che al Nord, servirebbe un mercato del lavoro autenticamente flessibile. Si aggiunga il fatto che il capitale umano di qualità tende purtroppo ad emigrare. Senza flessibilità in uscita, l’incentivo delle imprese a “sposare” per la vita nuovi lavoratori è davvero modesto. Immaginiamo di essere una multinazionale dell’intrattenimento: andremmo a dislocare un nostro albergo in una zona magari bellissima, ma dove c’è grande incertezza sui diritti di proprietà, dove sono necessari mesi per ottenere un’autorizzazione, dove i cartelli del crimine, ma anche singole famiglie mafiose, reclamano – minacciose – il pizzo, dove le tasse sono alte, e dove, nel caso che le cose vadano male, o magari non ci sia sintonia tra datore di lavoro e impiegato (“fannulloni” inclusi), è praticamente impossibile licenziare?
Non è che ci siano molti masochisti, fra gli amministratori delegati delle multinazionali. Il Sud ha tutto per vincere le sue sfide. Ha angoli di liberismo e di paradiso che possono e debbono essere mostrati al mondo. Ma servono le istituzioni giuste. Due scrittori (l’economista italiano, ma che opera negli Stati Uniti, Alesina, e il giornalista specialista Gavazzi) hanno detto che si tratta di un’appropriazione indebita, perché il liberalismo non sta né a destra né a manca. Allora facciamo noi un’altra provocazione: il liberismo o è “terrone” o non sarà.

 

   
   
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