Marzo 2008

Record negativo dell’italia
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L’impresa di fare impresa
Flavio Albini
 
 

 

 

 

 

 

La burocrazia
ha senso se ha obiettivi nobili.
E invece in questa maniera tende
soltanto ad
affaticare le
imprese italiane.

 

Non è un gioco di parole. È la pura e semplice realtà di casa nostra: avviare un’impresa da noi costa diciassette volte più che nel Regno Unito; ma anche undici volte di più rispetto alla Francia. In termini puramente tecnici, si parla di start-up. Che è come dire: l’avvio. Soltanto questo: la partenza di un’azienda.
Un aspirante imprenditore italiano deve mettere sul tavolo 3 mila e 600 euro, come minimo, solo per presentare il fardello cartaceo che è preliminare alla nascita di un’impresa. E si tratta solo delle prime, primissime carte, s’intende. In Inghilterra se la cavano con 207 euro. In Francia con 300 euro circa. In Irlanda con 95. In Nuova Zelanda con una cifra corrispondente a 41 euro. Solo la Grecia sta messa peggio di noi: 3 mila e 700 gli euro necessari per aprir bottega. Eppure, più che i quattrini, contro l’imprenditore italiano è la burocrazia che si accanisce con ottusa determinazione.

Un’indagine conoscitiva che il Censis ha condotto insieme con la Confcommercio ha esplorato i meandri burocratici delle aziende italiane, per rispondere alla domanda: che cosa succede dopo lo start-up? Risultato della ricerca: l’imprenditore italiano deve girare per un paio di settimane almeno in nove diversi tipi di uffici. In bocca al lupo! Però all’inizio, almeno, a spingere c’è l’entusiasmo del neofita. Ma dopo?
Dopo, l’aspirante imprenditore deve imbarcarsi in diciassette passaggi attraverso la Pubblica amministrazione soltanto per ottenere permessi e autorizzazioni, ad esempio, per costruire il magazzino della sua impresa: totale, 284 giorni a correr dietro alla burocrazia. E dopo ancora?

Dopo ancora, per registrarlo, quel magazzino, o un terreno annesso, oppure un fabbricato, che cosa deve fare? Questa volta l’impavido apprendista industriale deve girare almeno per ben otto uffici diversi. Come succede in Corea. Otto defatiganti passaggi burocratici, il doppio rispetto agli altri Paesi industrializzati, in media. Perché in Svezia, ad esempio, di passaggi del genere è sufficiente solo uno. E negli Stati Uniti, al massimo quattro.

La verità è che si passa un gran tempo a firmare montagne di carte che nulla hanno a che fare con l’impresa, dal momento che sono solo pesi burocratici. E non è aumentando complessi incartamenti o numero di passaggi burocratici che si rende più trasparente l’impresa verso il mercato. Anzi! La burocrazia ha senso se ha obiettivi nobili. E invece in questa maniera tende soltanto ad affaticare le imprese italiane. In particolare quelle piccole. Non si può certo non tener conto che ogni passaggio burocratico è un costo, molto spesso impegnativo.
Le imprese italiane hanno bisogno di tutela. Perché sono vitali e creativi gli imprenditori del nostro Paese, titolari di oltre 7 milioni e 100 mila imprese, tante quante ne sono state censite lo scorso anno. Ed è grazie a questa spinta creativa che ancora oggi da noi c’è il saldo netto positivo delle aziende, la natalità che supera sempre la mortalità: più di 70 mila il saldo attivo dell’ultimo Rapporto dell’Unioncamere (873.333, per essere precisi). Lo stesso Rapporto, però, ci segnala anche una brusca frenata. Un rallentamento del tasso di crescita: da 1,6 a 1,2 per cento. E questo perché nell’ultimo anno le cancellazioni sono aumentate parecchio.
È un segnale poco rassicurante. C’entrano qualcosa le tasse tutte italiane per le aziende? Da noi pesano per il 76 per cento degli utili dell’impresa, contro, per capire, il 47,8 per cento medio dei Paesi Ocse. Ma non solo. Oltre che molto di più, ci vuole anche molto più tempo per pagarle, le tasse: 360 ore, ha calcolato il Censis, ci mette un imprenditore a compilare i moduli dei pagamenti, contro le 203 ore della media dei Paesi Ocse. E il tempo, si sa, è denaro.
Ogni impresa, da noi, ha bisogno di un impiegato che sia addetto soltanto a sbrigare i rapporti con le Pubbliche amministrazioni. E non è un onere da ridere. In un conteggio complessivo, si calcola che la spesa a carico del sistema produttivo per gli espletamenti amministrativi sia di oltre 13,7 miliardi di euro, pari a circa l’1 per cento del Prodotto interno lordo (dati stimati da Censis-Confcommercio).

Alcuni invocano l’introduzione dell’autocertificazione per tutto ciò che non è tassativamente soggetto ad autorizzazioni esplicite e specifiche. Il che significherebbe tagliare una bella fetta di ingerenza burocratica. Ma pare che da questo orecchio non si senta. Allora si ricorda che si potrebbe realizzare il celeberrimo “sportello unico”.
E non è che questo problema non sia stato preso in considerazione. Tutt’altro. È da gran tempo che i governi in successione si chiedono che cosa fare per combattere la burocrazia che soffoca le imprese. Ed è da più di dieci anni, ormai, che la risposta ha sempre avuto lo stesso nome: sportello unico per le imprese.
Un nome, una chimera. Perché questo sportello lo si voleva già nel 1998, anche per combattere – si disse – la corruzione e la microcriminalità organizzata nel mondo dell’imprenditoria. E venne messo in piedi. Ma non decollò mai. Un nuovo disegno di legge passò da Palazzo Chigi, incluso nel calderone delle liberalizzazioni. Approvato dal governo, passò a Montecitorio, che diede l’ok. Ora giace a Palazzo Madama, alla Commissione Industria del Senato. Chissà se, e quando, potrà vedere la luce.

 

   
   
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