Marzo 2008

Global view: l’impetuoso risveglio delle economie asiatiche
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Lezioni orientali
in salsa occidentale
Claudio Alemanno
 
 
 

 

 

 

 

Detta in soldoni, abbiamo troppi debiti in America e troppo risparmio in Asia: uno
squilibrio
di cui dovrebbero preoccuparsi
i Paesi dell’euro.

 

Anche il viaggio più lungo incomincia con un passo. Questo antico motto birmano sembra perfettamente assimilato da un espansionismo asiatico senza confini. Il pressing del nuovo capitalismo sta producendo inediti scenari nelle relazioni internazionali. Silenzi e veleni si moltiplicano facendo esplodere a raffica situazioni di crisi riconducibili a percorsi di globalizzazione senza regole. Il capitalismo made by Cindia (il corsivo è il titolo di un recente volume pubblicato per l’area Economia e Management di Sperling & Kupfer) sta cambiando il corso degli eventi che orientano lo sviluppo.
Oggi nel cuore del sistema c’è la tecnologia di trasmissione delle informazioni e delle comunicazioni, settore in cui la regione Asia-Pacifico sta producendo forti impulsi innovativi, che possono compromettere il primato occidentale della ricerca. Cindia è una crasi voluta per sottolineare la competizione poco armoniosa con cui le economie asiatiche (India e Cina, in primo piano) stanno portando significative correzioni alle rotte tradizionali dello sviluppo.
La partita è di dimensioni mondiali e si gioca a tutto campo. Nella società globale i nuovi “individualisti” (non ancora completamente sdoganati dal collettivismo di casta o di partito) cercano con ossessione spazi di potere in economia e nel costume. Un fine perseguito con l’uso spregiudicato della politica interna e internazionale, utilizzando al meglio le smagliature del sistema in nome di un modello che identifica lo sviluppo con un’assimilazione veloce delle dinamiche occidentali. Una sorta di road map convenzionale che sta amplificando la monotonia corale della società di massa.
Tuttavia le tematiche sociologiche che emergono dall’affermazione del nuovo capitalismo per creare storia devono percorrere un lungo cammino di governo delle intemperanze prodotte dall’era dell’ammirazione per i grandi cambiamenti che nei Paesi asiatici non coincidono con il crollo dell’ancien régime. Sono scomparse le oligarchie obsolete, ma il potere si esprime con una continuità caratterizzata da forti spinte evolutive che non intaccano il fascino della leadership personalizzata. Sul fronte occidentale invece si fa uso e abuso di un lessico di autocompiacimento per avere creato con le aperture economiche (WTO, in particolare) nuovi sentieri di democrazia che finora, sotto la coltre della retorica e dell’ideologia, hanno prodotto solo preoccupanti fattori di disturbo negli equilibri internazionali.

La nuova Cina ha ereditato dal confucianesimo e dalla cultura marxista l’agire pragmatico. Conserva ancora un potere centralizzato e non ha sindacati (almeno quelli da noi conosciuti), né diritto di sciopero. La nuova India si regge sempre sul potere delle caste, ma ha istituzionalizzato princìpi e valori democratici. Ha poteri bilanciati, sindacati e diritto di sciopero e continua a sollecitare regole per accrescere la fruibilità dei diritti civili. Una fitta rete normativa regola comportamenti filtrati e benedetti dal viatico induista. L’ex colonia britannica si sta prendendo una grossa rivincita offrendo sostanziali contributi alla formazione manageriale inglese.
La Judge Business School (Università di Cambridge) ha inserito nella sua struttura il Cambridge Centre for Indian Business. Una nuova cattedra per approfondire lo studio dei modelli di business utilizzati in India, con specifico riferimento all’innovazione tecnologica, alle interconnessioni su scala globale tra sviluppo, economia e imprenditorialità.
L’antico fascino dei Milord appare in chiaro declino. Sorprende comunque che Cina e India, mondi così diversi e lontani, siano diventate improvvisamente vicine, alleate in aree importanti di ricerca e sviluppo pericolosamente competitive per le economie occidentali.
Si fa sempre più strada il dubbio di vivere una realtà meno brillante di quanto siamo indotti a credere, mettendo in discussione le virtù terapeutiche della globalizzazione. Merci e mercati continuano a inanellare situazioni di azzardo etico. Di fronte a tanti elementi di criticità stupisce l’assenza di iniziativa politica. Domina la voglia di blandire le new entry dei salotti buoni passando sotto silenzio le ombre che sovrastano i valori occidentali e i fattori di rischio che le nuove modalità dello sviluppo introducono nei settori della finanza, del commercio, dell’approvvigionamento energetico, delle tematiche ambientali.
Un esempio per tutti. Segnali preoccupanti vengono dall’economia americana, epicentro del “pensiero globale”. L’intreccio tra debito pubblico, passivo del commercio estero e interventi monetari di sostegno della Banca centrale cinese creano circuiti poco ortodossi sul terreno delle libertà economiche in versione liberal.
Per le regioni asiatiche il mercato è una novità che va sfruttata in termini di potenza politica ed economica. La liberalizzazione finanziaria ha un rapporto privilegiato con la politica. Finché questa viaggia lungo i binari market friendly, senza correttivi di governo globale, la correzione degli squilibri resta affidata alla responsabilità esclusiva della politica monetaria, sostanzialmente all’azione calmieratrice del cambio. Ciò determina frequenti stress di allineamento che si ripercuotono negativamente sulla crescita, rendendo lo strumento monetario un ulteriore fattore di squilibrio. Va calmierata la politica di potenza anche nel settore commerciale. Non è accettabile l’idea permissiva che consente di vendere tutto quello che si produce senza filtri necessari per assicurare al consumatore globale le necessarie garanzie di sicurezza. Un problema che investe gli standard di produzione, non solo l’importazione e le barriere doganali. Auctoritas, non veritas, facit legem (Hobbes).

Dare governo al mercato internazionale presuppone il rispetto delle norme e dell’attuale organizzazione, ma anche l’accettazione di Autorità di controllo che al momento non ci sono. In questa direzione la comunità occidentale dovrebbe lavorare con maggiore determinazione, dovrebbe immaginare un pluralismo statuale capace di esprimersi con voci concertate, per sviluppare un soft power in grado di acquisire carattere di polo di riferimento certo e univoco nelle trattative internazionali.
Si potrebbe iniziare da cose semplici, come l’istituzionalizzazione di un circuito formativo tra le Banche centrali per assicurare stabilità finanziaria e una progressiva integrazione tra gli intermediari e i mercati. Come l’inserimento di Cina e India nel G7 e nell’Associazione internazionale per l’Energia. Il nucleare spaventa ancora. Il suo rallentamento, secondo dati ONU, ha prodotto in mezzo mondo quattromila vittime, molto meno delle persone che ogni anno muoiono nelle miniere di carbone cinesi.
Detta in soldoni, abbiamo troppi debiti in America e troppo risparmio in Asia. Uno squilibrio di cui dovrebbero preoccuparsi anche i Paesi dell’euro. Se India e Cina non fanno la loro parte favorendo i consumi interni o modificando il cambio, la crescita europea sarà penalizzata dalla concorrenza internazionale. Diventa essenziale muoversi tra monopoli e corporazioni, multinazionali e centri di ricerca assicurando nuovi standard ai valori dell’equità e della solidarietà. Purtroppo è difficile movimentare idee e progetti oltre i confini della corte. «Gli Apostoli diventano rari, sono tutti Padreterni», usava ripetere spesso lo scrittore francese Alphonse Karr.

 

   
   
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