Marzo 2008

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Risparmio per il futuro
Robert J. Shiller
Docente di Economia Yale University
 
 

 

 

 

 

La maggior
parte delle persone non sembra
preoccuparsi molto di quanto reddito
accantonare
per il futuro.

 

La gente è affascinata dalla ricchezza. Ama guardare i ricchi, sognare le loro belle case, le loro lussuose vacanze, le loro macchine eleganti e le loro cene da gourmet. Ma chi da tutto questo volesse desumere che la gente dedica grande impegno a pianificare il modo migliore per accumulare ricchezza per sé sarebbe fuori strada.
La maggior parte delle persone non sembra preoccuparsi molto di quanta parte del proprio reddito accantonare per il futuro, oppure di calcolare di quanto benessere extra potrebbe godere negli anni a venire, ritoccando oggi il proprio tasso di risparmio.
La maggioranza delle persone si limita ad estinguere il mutuo, a versare (o far versare) i contributi obbligatori per la propria pensione pubblica o privata (sempre che ce l’abbia) e a tenere da parte un po’ di soldi per le contingenze di breve periodo. Tutto qui.

L’economista Frank Ramsey, in un celebre articolo pubblicato nel 1928, sosteneva che «le persone non hanno la capacità di immaginare» le conseguenze delle proprie azioni odierne sul loro futuro. Se adottassero il giusto approccio al problema – sostiene Ramsey – giungerebbero con facilità alla conclusione che devono mettere da parte la metà del proprio reddito: in questo modo, accumulerebbero una ricchezza tale da garantire loro molta felicità negli anni successivi. Abitualmente, però, questa è una possibilità cui le persone neanche pensano.
Richard Thaler, un economista contemporaneo, nel 1980 parlò di un “effetto dotazione”. Le persone possono ammirare altre cose, ma si comportano come se, in linea di massima, fossero sufficientemente contente di quanto già possiedono e mancasse loro la volontà di prendere in considerazione un cambiamento reale. L’apatia umana riguardo al tema dell’accantonamento di fondi per il futuro è una delle sfide più impegnative per i governi. I leader più attenti riconoscono che il problema esiste ed è tangibile, e che non può essere ignorato. Malgrado ciò, le tradizionali filosofie politiche di destra e di sinistra fanno fatica ad offrire soluzioni.

Singapore ha scelto un approccio diretto fin dal 1955: un piano di risparmio nazionale obbligatorio che produce tassi di risparmio molto elevati. La percentuale di contributi destinati al Fondo di previdenza centrale attualmente è del 34,5 per cento per i redditi più alti.

Gli Stati Uniti non hanno alcun piano di risparmio obbligatorio, e il tasso di risparmio personale è spaventosamente basso (anzi, addirittura negativo). Ma il Governo è restio a prendere in considerazione l’introduzione di meccanismi obbligatori e preferisce adottare misure per superare l’inerzia dei singoli, un fattore che inibisce il risparmio. La legge del 2006 per la difesa delle pensioni, promulgata dal Governo americano, incoraggia i datori di lavoro ad iscrivere automaticamente i dipendenti a un piano di risparmio personale per la vecchiaia. La differenza fondamentale con il programma di Singapore è che il datore di lavoro non ha un obbligo in tal senso, e i dipendenti, anche se le deduzioni dalla busta paga inizialmente vengono applicate senza necessità del loro consenso, possono ritirare la loro adesione al programma facendone richiesta. Il recente piano neozelandese, il KiwiSaver, e la legge di riforma delle pensioni promulgata dal governo britannico nel 2007 sono basati anch’essi sull’iscrizione automatica per i dipendenti, con possibilità di revocare l’adesione.
Brigitte Madrina, dell’Università di Harvard, sostiene però che l’iscrizione automatica ai piani di risparmio rappresenti un elemento di fondamentale importanza, anche nel caso in cui al dipendente venga lasciata piena libertà di ritirare la propria adesione. Se il datore di lavoro dice al neo-assunto che è disponibile un piano pensionistico, permettendogli addirittura di versare a suo favore la stessa quantità di contributi che verserebbe lui, ci sarebbe comunque una fetta consistente di lavoratori che sceglierebbero di non aderire al programma.

Ma se il datore di lavoro iscrive automaticamente il suo dipendente al piano, dicendogli che può uscire quando vuole, semplicemente notificandoglielo, la stragrande maggioranza dei lavoratori si limiterà ad accettare il piano. Sembra anche che il dipendente tenda ad accettare passivamente sia la percentuale di contributi scelta dal datore di lavoro sia la ripartizione dell’investimento (il bilanciamento tra azioni e obbligazioni, ad esempio).
La ricerca di Brigitte Madrina e dei suoi colleghi indica che questi nuovi programmi possono migliorare il tasso di risparmio nei Paesi in cui verranno adottati. Forse questi Paesi potrebbero ottenere risultati ancora migliori, adottando programmi obbligatori, ma non sembrano intenzionati a farlo. Insomma, non riusciranno a far crescere i risparmi al livello di Singapore, ma possono realizzare progressi rilevanti.
La motivazione migliore per non trasformare questi programmi in piani obbligatori consiste nel fatto che le persone sono diverse tra loro e devono fare i conti con circostanze differenti, che soltanto loro conoscono. C’è chi è innamorato del proprio lavoro e in pensione non vuole andarci mai, e di conseguenza dà minore importanza al risparmio. C’è chi vuole spendere cifre consistenti ora, per l’istruzione, per la psicoterapia o per qualunque cosa ritenga importante al momento, e dunque rinvia l’accantonamento di denaro ad una fase successiva.
Qualcuno quindi rimanda il tempo del risparmio per ragioni logiche e ricomincerà a mettere da parte soldi in un secondo momento, ma il problema di fondo è che ci sono molte altre persone che omettono di accantonare denaro per il futuro senza alcun motivo valido, e che difficilmente compenseranno in una seconda fase il mancato risparmio odierno.
Un piano di risparmio pubblico ad adesione automatica, anche non obbligatoria, (accanto ad uno privato, più che mai necessario), può risolvere (quanto meno in parte) questo problema. L’adesione automatica crea un piano risparmio adeguato alle esigenze dell’individuo medio. Chi non si preoccupa di queste cose, chi è poco attivo, si limiterà a non revocare l’adesione al piano, mentre chi non vuole assolutamente prendere parte al programma potrà tirarsene fuori semplicemente scrivendo una lettera.
Questi piani risparmio dimostrano che l’imposizione pura e semplice non è l’unico metodo per aggirare l’inerzia della gente. La speranza è che in futuro questi piani (pubblici e privati) vengano adottati su scala sufficientemente ampia, tale da poter approntare una serie di programmi nuovi, in grado di rispondere sia alle esigenze degli inerti che a quelle degli attivi.

 

   
   
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