Marzo 2008

L’uomo, la megalopoli, la ciudad de dios
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Tra grattacielo e slum
Janis Polzer - Ralph McKlein
 
 

 

 

 

 

 

Il problema non
è contare quanti abitanti vi si
accalchino, ma come possano
vivere in condizioni di disagio, in
carenza di igiene,
e senza un lavoro stabile.

 

Il mondo è entrato in una nuova era, dal momento che la metà della popolazione vive nelle città. Il preambolo del nuovo schema di accordo tra i Paesi asiatici del Pacifico (Enhanced Framework for the Asia-Pacific), nel riaffermare questo fatto da tempo noto (ma si dice che l’anno in cui la popolazione urbana ha superato quella rurale sia stato proprio il 2007), continua esprimendo la preoccupazione che provoca questa situazione: «Le città generano gran parte dell’inquinamento che influiscono sui cambiamenti climatici. I poveri nelle aree urbane sono facili vittime di disastri. Così molte città diventano trappole gigantesche. È necessario sviluppare nuove concezioni, così che i Paesi della regione del Pacifico asiatico possano guardare e trattare le loro città come ecosistemi viventi».
Gli esponenti di oltre 35 Paesi in questione (tra i quali la Cina, l’India e la Corea) si sono incontrati a Nuova Delhi, sotto l’egida dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa delle condizioni di vita nelle aree urbane (UN-Habitat). Da diversi anni si va discutendo il tema dell’enorme espansione dei nuclei urbani, definiti “megalopoli” o “conurbazioni”. Se questa rapida espansione ha riguardato, fino alla fine del XX secolo, le aree industrializzate del mondo occidentale e del Giappone, oggi il fenomeno investe in pieno regioni come l’America Latina, l’Africa e il Subcontinente asiatico, la Cina e la Corea (appunto: i Paesi della costiera asiatica). UN-Habitat ha compilato un’analisi statistica che ha aperto una finestra su questa situazione e causato un certo scompiglio. Per quanto i dati riferiti siano evidentemente incerti, (nessuno è in grado di comporre un accurato rilevamento negli slum, nelle favelas, nelle città di Dio delle sconfinate periferie urbane), la novità e la grandiosità del fenomeno risultano evidenti.

Alcuni dati, per esemplificare il problema. Città del Messico, secondo la statistica UN-Habitat, nel 1974 aveva tre milioni di abitanti, che sono diventati 18,3 milioni nel 2004, (secondo altre rilevazioni, dal 1950 al 2004 è passata da 2,4 a 19,9 milioni di abitanti); la capitale peruviana, Lima, negli ultimi trent’anni è passata da 2,5 a 7,4 milioni, (ma secondo altri è andata dagli 0,6 del ‘50 agli 8,2 del 2004); la filippina Manila, nello stesso arco di tempo, è andata da 1,3 a 10 milioni (e secondo altri, in mezzo secolo, è passata da 1,5 a 14,3 milioni); l’indiana Mumbay (Bombay) da 5,9 è salita in tre decenni a 16,4 milioni (sempre secondo altri, e sempre in cinquant’anni, è passata da 2,9 a 19,1 milioni); la cinese Shanghai in trent’anni è andata da 3,1 a 10,8 milioni (secondo altri, in mezzo secolo, da 5,3 13,2 milioni). Prendendo come unità di tempo i trenta anni, Parigi è passata da 8,1 a 9,6 milioni, Londra da 1,4 a 7,1 milioni, New York da 11,5 a 21,2, Tokyo-Yokohama (le due città sono considerate un’unica conurbazione) da 2,4 a 22,2 milioni.
Il dato palese è questo: nei Paesi industrializzati l’urbanesimo sembra essere ormai contenuto, indice che gli agglomerati urbani vi hanno raggiunto una condizione di relativa stabilità. Invece è esploso nei Paesi in via di sviluppo, con velocità impressionante. Nei Paesi industrializzati le città sono cresciute lungo tutto l’arco del XIX e del XX secolo, non in modo uniforme, ma con una certa gradualità. Per esempio, Londra agli inizi del Novecento era diventata sette volte più grande di un secolo prima. Ma città come la nigeriana Lagos e la sudanese Khartoum sono cresciute di dieci volte in soli trent’anni.
Aumenta anche il numero di città (a metà del XX secolo erano una novantina in tutto il mondo quelle che superavano il milione di abitanti, oggi sono quattrocento) e aumentano le megalopoli: soprattutto nelle regioni il cui sviluppo industriale non è compiuto.
Il termine “megalopoli” fu usato per la prima volta dal geografo Jean Gottmann nel 1960, per descrivere la continuità di aree urbane costituitasi nel secondo dopoguerra nella costa orientale degli Stati Uniti, da Boston a Washington. Qui si notava che l’allargamento delle periferie di città come New York, Philadelphia, Baltimora, tendeva a ricucire tutto il territorio in un’unica continuità urbana. La campagna circostante i grandi centri abitati si urbanizzava e toglieva la soluzione di continuità. Il fenomeno si è poi osservato tra le città dei Grandi Laghi, che hanno costituito la “Megalopoli laurenziana” (tra le canadesi Montreal e Toronto, e le statunitensi Detroit e Chicago, tutte nella zona del bacino del fiume San Lorenzo). Sulla costa occidentale degli Usa il fenomeno ha interessato l’area che va da San Diego a Los Angeles e a San Francisco. In Europa, fenomeni analoghi interessano la regione della Ruhr e il bacino del Reno, la zona di Parigi, la Valle Padana e la Costa Azzurra francese.

Con la crescita delle aree urbane del mondo in via di sviluppo, il numero di megalopoli (sull’ordine dei 20 milioni di abitanti) continua ad aumentare prepotentemente: sono Città del Messico, che si estende fino a Puebla e a Cuernavaca, le aree di San Paolo e di Rio de Janeiro, quelle di Giakarta, di Dacca e di Karachi, e quelle di Shanghai e di Mumbay, che attraggono milioni di persone che spopolano le campagne.

In tutte queste nuove megalopoli si possono ammirare gli arditi grattacieli: sono la loro faccia tecnologica e ricca. Ma l’estensione urbana avviene nelle disordinate baraccopoli dove si vive di espedienti e anche ai limiti della legalità. E il problema non è contare quanti abitanti vi si accalchino, ma come possano vivere in condizioni di disagio, in carenza di igiene, e senza un lavoro stabile.
Le immagini-simbolo di queste baraccopoli sono quelle di coloro i quali si arrampicano sulle cataste di rifiuti nei giganteschi immondezzai di Manila o di Città del Messico, alla ricerca di oggetti da riciclare o di qualcosa da mettere sotto i denti. Oggi circa un miliardo di persone vivono in queste condizioni. E il loro numero aumenta. Mentre si accavallano i gridi di allarme, si paventano nuove forme di instabilità sociale, e c’è addirittura chi prevede il diffondersi della guerriglia urbana come condizione intrinseca di queste conurbazioni. Allora si sostiene la necessità di «pianificare l’urbanesimo per includere», di dotare le città di Dio di servizi (acqua potabile, energia, trasporti, centri medici…), perché tutte le città, anche quelle miserabili, vanno «trattate come esseri viventi». E gli organismi viventi vanno aiutati a crescere, perché la marcia della civiltà deve andare nella direzione del progresso verso la città sostenibile.

 

   
   
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