Marzo 2008

OPINIONI
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Se l’America si isola
Robert J. Samuelson
Editorialista di Newsweek e Washington Post
 
 

 

 

 

 

 

 

Per molti anni,
la crescita Usa è stata il motore dello sviluppo
globale.
Ora non è più così: adesso è il mondo a sostenere
l’economia
americana.

 

La globalizzazione è il classico capro espiatorio, sfruttato da politici ed esperti di tutte le tendenze. La chiamiamo in causa per mille motivi: disoccupazione, disuguaglianze, prodotti scadenti. Ma il vero test è un altro: come si spiega la tenuta dell’economia statunitense, nonostante il collasso del mercato immobiliare? Quattro le ipotesi possibili: l’abile guida della Federal Reserve da parte di Ben Bernanke; la domanda sempre sostenuta da parte dei consumatori; la bassa inflazione; il commercio estero.
L’ipotesi giusta è l’ultima. Il deficit commerciale americano è aumentato per così tanto tempo che ci si dimentica che può anche scendere. Ed è stato proprio quello che è successo l’anno scorso: fino ad agosto, il disavanzo era di 472 miliardi di dollari, il 9 per cento in meno (46 miliardi) rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Nel secondo trimestre, l’economia Usa è cresciuta del 3,8 per cento annuo, anche calcolando lo 0,6 per cento in meno causato dalla crisi immobiliare.

Un contributo decisivo (+1,3 per cento) è sopraggiunto proprio dal miglioramento della bilancia commerciale. Un grande esportatore come la Caterpillar è un esempio di questa svolta: tra il 2004 e il 2006 le sue vendite all’estero sono cresciute del 44 per cento (a 10,5 miliardi di dollari), e nell’ultimo anno e mezzo ha creato 11 mila posti di lavoro in America. Non è garantito che la ripresa dell’export americano eviti una recessione. Ma il fatto che questo sia possibile ci induce comunque a considerare in modo più positivo la globalizzazione, senza accontentarci degli stereotipi.
Contrariamente a quanto si pensa di solito, il saldo commerciale (deficit o surplus) non ha effetti strutturali rilevanti sull’occupazione statunitense. La creazione o distruzione di posti entro i confini dello Stato americano nel lungo periodo è svincolata dall’impatto del commercio estero: dal 1991 al 2006, il disavanzo è cresciuto da 31 a 759 miliardi di dollari, e nello stesso periodo gli occupati sono aumentati di 28 milioni, con una riduzione dal 6,8 per cento al 4,6 per cento del tasso di disoccupazione.
Ma il commercio, come qualsiasi tipo di concorrenza, ha un impatto su specifiche attività lavorative: quelle più vulnerabili all’import cercano di salvare i propri posti, anche se il libero scambio è positivo per l’economia nel suo complesso (scelta maggiore di prodotti, a prezzi inferiori). Il protezionismo sembra una risposta logica, ma è tardiva. Avrebbe avuto senso, per gli Stati Uniti, trent’anni fa, prima che il disavanzo commerciale iniziasse ad esplodere. Quei posti di lavoro sono perduti e in gran parte non torneranno. Anzi, essere protezionisti oggi peggiorerebbe le prospettive occupazionali delle industrie esportatrici.
Un esempio: il governo americano aveva proposto accordi di libero scambio con Perù, Panama, Colombia e Corea del Nord. Nel clima protezionistico che si respirava all’epoca al Congresso americano, questi accordi potevano essere approvati. Eppure, avrebbero potuto avere un effetto netto positivo sulle esportazioni.
La diminuzione del deficit riflette innanzitutto il deprezzamento del dollaro, che dal 2001 ha perso il 22 per cento rispetto a un paniere di ventisei valute. Questo rende più competitive le esportazioni americane e più costose le importazioni, e contribuisce al cosiddetto “decoupling” tra l’economia statunitense e quella mondiale. Per molti anni, la crescita Usa è stata il motore dello sviluppo globale. Gli americani sono stati i compratori di ultima istanza: gli altri Paesi hanno rafforzato produzione e occupazione esportando negli Stati Uniti.
Ora non è più così. Nella seconda fase dell’anno scorso, la spesa americana al consumo è cresciuta di un misero 1,4 per cento annuo; secondo le stime del Fondo monetario internazionale, quest’anno la crescita mondiale sarà più del doppio rispetto a quella americana. Adesso – sostiene l’economista Jim O’ Neill – è il mondo a sostenere l’economia americana.
Ancora più in generale, è un errore incolpare la globalizzazione per le crescenti disuguaglianze economiche, che invece sono causate soprattutto dalle nuove tecnologie, che allargano i divari retributivi tra lavoratori più e meno qualificati. Sono ben altre le vere, grandi preoccupazioni legate alla globalizzazione. Ad esempio, la moneta cinese rimasta sottovalutata. Un altro rischio è quello di una crisi valutaria globale, se si verificasse una fuga dal dollaro degli investitori, con una brusca caduta della divisa americana e con uno sconvolgimento dei flussi commerciali e finanziari internazionali. Viceversa, un graduale deprezzamento del dollaro, unito a un declino del disavanzo commerciale Usa, sarebbe rassicurante. Cruciale è la gradualità: gli scossoni violenti portano danni economici sicuramente ingenti.
Gli attacchi rituali alla globalizzazione non sono innocui. La psicologia è importante. Se gli investitori globali si convincessero che gli Stati Uniti vogliono rendere la loro economia meno aperta al commercio e agli investimenti esteri, l’effetto sarebbe di un vero panico nei confronti del dollaro. Lo status del biglietto verde come valuta globale di riferimento dipende dalla sua utilità per comprare e vendere. Se questo ruolo verrà ostacolato, il dollaro diventerà sempre meno indispensabile. Quelli che in America si scagliano contro la globalizzazione dovrebbero ricordarsi che il mondo li ascolta, e potrebbe agire di conseguenza.

 

 

   
   
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