Marzo 2008

Le nuove “sette sorelle”
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Gli squali dell’energia
Alberto Berardi Fattori
 
 

 

 

 

L’oro nero ha
più che mai, in
assenza di energie alternative, una forza di pressione che può rasentare la violenza.

 

C’erano una volta le “Sette Sorelle” del greggio, nate dalla frammentazione di Standard Oil. Enrico Mattei ne criticava lo strapotere, ma anche loro erano un simbolo del dominio dell’Occidente al quale l’Italia apparteneva. Ai nostri giorni, invece, mentre il costo di un barile di petrolio sale ora dopo ora, probabilmente neanche Mattei riconoscerebbe più la geografia dei suoi nemici. E le eredi di Standard Oil – Exxon Mobil, Royal Dutch Shell o Bp – appaiono malleabili di fronte alla politica di potenza delle nuove “Sorelle” russe o cinesi.
Per capire quanto velocemente sia cambiata la mappa, è sufficiente incrociare l’andamento del prezzo del petrolio dal 2003 con le classifiche delle più grandi imprese al mondo, stilate sulla base del valore di Borsa. Perché la notizia non è che il numero di compagnie della Top ten dell’energia sia salito dalle due del 2003 alle cinque della fine del 2007, mentre le quotazioni del barile triplicavano da 30 a oltre 90 dollari, con sfondamento dei 100 dollari alla fine del primo trimestre 2008. In fondo, tutto questo era prevedibile, per un’industria che ha costi di produzione del barile non molto sopra i due dollari in condizioni normali.

È piuttosto la gerarchia fra le “supermajor” che segnala la rivoluzione intorno agli idrocarburi. La prova più smagliante viene da PetroChina e da China Petroleum (Sinopec), due delle “Tre Sorelle” nate nel 1982 dallo spacchettamento per regioni dell’industria di Stato dell’energia deciso da Pechino. Proprio nel terzo trimestre del 2008 PetroChina ha collocato a Shanghai un altro segmento di capitale, per un valore di circa 9 miliardi di dollari, con una domanda che è risultata cinquanta volte sopra l’offerta dei titoli.
Eppure la scalata di PetroChina (il cui braccio operativo è Cnpc) è già stata senza precedenti: a metà 2005, con il petrolio a 60 dollari, era la quinta più grande “supermajor” al mondo, con un valore di Borsa di 132 miliardi di dollari e con la presenza sui listini a New York e a Hong Kong. Nel precedente mese di aprile (con il barile di petrolio a 70 dollari circa), era tredicesima con 205 miliardi di dollari, mentre a metà marzo 2008 era seconda e capitalizzava circa 430 miliardi: dietro PetroChina si ritrovava tutta l’aristocrazia industriale e tecnologica americana, da Microsoft a General Electric, mentre davanti resisteva soltanto Exxon Mobil.
Analoga l’ascesa di China Petroleum-Sinopec, la seconda “Sorella” cinese votata a coprire il fianco meridionale della Repubblica popolare. Era 45esima al mondo per valore nell’aprile 2007, a 116 miliardi di dollari. Nel successivo mese di ottobre, con il greggio a 87 dollari al barile, era già nona e valeva 265 miliardi (più di At&T, quasi quanto Royal Dutch Shell) e da allora tiene la posizione.

Per le vecchie “Sette Sorelle”, quelle contro le quali si ribellava l’Eni di Mattei (al fondatore del gruppo italiano si attribuisce anche la paternità della definizione), sul valore di Borsa incidevano riserve, produzione, il bacino dei consumatori, lo stesso prezzo del greggio. Le nuove “Sorelle” cinesi rispondono alle stesse leggi, ma hanno dalla loro parte anche altre spinte. Quella del governo, azionista di controllo dell’una e dell’altra, prende mille forme nella sua caccia alle risorse per alimentare la crescita cinese. A Sinopec Pechino versa sussidi per indennizzarla delle perdite nella raffinazione imposte dal prezzo politico della benzina nel territorio cinese. PetroChina riesce a produrre in Africa greggio a prezzi insostenibili per gli occidentali ed è oggetto di sospetti per il ricorso al lavoro forzato: in pochi si stupiscono che le sue offerte per nuove concessioni, per esempio in Angola, siano su livelli imbattibili.
Ma anche i nuovi protagonisti russi in fondo inseguono un modello di successo: con il sostegno del proprio governo-azionista di maggioranza alla politica di espansione e di revisione dei prezzi. Gazprom è cresciuta in Borsa da 70 a oltre 280 miliardi di dollari in due anni. Ha inglobato altri pezzi dell’industria petrolifera ex sovietica, ha messo l’Europa occidentale alle sue dipendenze per il gas e ha tessuto rapporti che vanno dall’Algeria al Venezuela.

Da posizioni marginali fino al 2005, Rosneft ha invece beneficiato della liquidazione di Yukos, e ora rivaleggia con la nostra Eni quanto a capitalizzazione. E i prossimi cospicui aumenti delle quotazioni avranno probabilmente un effetto sorprendente: la nuova generazione di “squali autoritari” dell’energia avrà mascelle abbastanza vaste per inglobare i pesci di media dimensione sul mercato. Acquisti di 30 o 40 miliardi di dollari in azioni, per le nuove “Sorelle”, sembrano quasi una spesa di poco conto.
Cina e Russia, da ultimo, usano la potenza delle loro grandi società dell’energia per condizionare, oltre che all’estero, anche all’interno e sui propri confini la vita politico-economica di altre regioni. Valga, a pochi mesi dall’apertura a Pechino delle Olimpiadi, quel che è accaduto nel martoriato Tibet; e valgano i ricatti di Mosca sulle Repubbliche ex sovietiche che non intendono lasciarsi influenzare dal Cremlino e reclamano la libertà di accostarsi all’Europa comunitaria. L’oro nero ha più che mai, in assenza di energie alternative, una forza di pressione che può rasentare la violenza, mentre il resto del mondo resta muto per ragioni di convenienza.

 

 

   
   
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