Marzo 2008

Dove si prepara il futuro

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Quest’anno bisestile che
sta sconvolgendo il mondo
Aldo Bello  
 
 

Per quanto possa sembrare strano, sono in corso due fenomeni decisivi per la misura del mondo in questi nostri tempi: in campo economico e in campo spirituale.

 

Per una ragione o per un’altra, l’Asia fa sempre paura. Non è ancora rientrato il panico per la crescita record della Cina e dell’India, che già si lancia l’allarme opposto: occhi aperti, le potenze asiatiche non crescono abbastanza, almeno non quanto servirebbe per proteggere l’economia mondiale dalla recessione in atto negli Stati Uniti. Chi aveva riposto speranze nel decoupling, letteralmente “disaccoppiamento”, cioè nella possibilità che nel 2008 la Cina, l’India e le altre economie emergenti diventassero il motore dell’economia globale, staccandosi dagli Stati Uniti, al cospetto dei nuovi numeri si deve ricredere. Uno studio incredibilmente poco noto del Fondo monetario internazionale, datato dicembre 2007, ridimensiona drasticamente l’impatto dei Paesi asiatici sull’economia globale, e ancora di più rispetto a quella dell’Occidente.

Secondo i dati Fmi, in base alla banale correzione della parità di potere d’acquisto, nel 2005 il Pil cinese è stato di quasi il 40 per cento inferiore rispetto alle stime ufficiali, e quello indiano del 38 per cento. Nel resto del pianeta, invece, la correzione è molto più leggera (8 per cento in meno), mentre in Europa, Nord America e Australia (tre aree che fanno capo all’Ocse) il dato resta quasi invariato: un calo di appena l’1 per cento.
Se poi si aggiunge il fatto che molte economie emergenti dipendono dall’export americano (la Cina deve il 36,6 per cento del Pil alle esportazioni, per il 20 per cento dirette negli Usa), le speranze del disaccoppiamento sono ancora più flebili; e se gli americani smettono di consumare, l’economia cinese rischia il collasso. Risultato: oltre alla recessione americana, che secondo Deutsche Bank «è già un fatto», potrebbe innescarsi anche una recessione asiatica (dell’ordine di uno o due punti percentuali negativi, secondo l’economista Mario Deaglio), che verosimilmente determinerebbe una stagflazione europea.
Previsioni nerissime per il 2008, dunque. Con una notizia buona e una cattiva. La buona: con il dollaro a picco, l’euro si sta consolidando come moneta globale; nei Paesi esportatori di greggio, poi, l’economia continua a tirare, e soprattutto nel Golfo Persico c’è un boom edilizio: solo in Arabia Saudita sono sei le nuove città in costruzione, e le commesse sono quasi tutte in euro.
E la cattiva: perdurano i conflitti etnici, o nazionalistici, all’interno di Russia, India e Cina, col rischio di deflagrazioni che possono far divampare l’emisfero, e non solo questo; con una situazione particolarmente preoccupante in quel ventre molle asiatico che è il Tibet, dove la Cina, richiamando alla memoria i giorni di Tian an-Men, ancora una volta ha mostrato i muscoli di potenza imperiale, soffocando nel sangue una rivolta scoppiata alla vigilia della primavera.
Dal punto di vista formale, il Tibet storico è stato una provincia cinese dal 1720: faceva parte della cintura di sicurezza esterna del Celeste Impero insieme con la Manciuria, con la Mongolia interna e con il Sinkiang, regioni con antichi fermenti autonomistici. A differenza delle altre regioni-cuscinetto, però, il Tibet non aveva una popolazione a maggioranza cinese; inoltre, il clero buddista vi ha sempre goduto di un’immensa autorità morale, che è stata alla base di una potente forza di identità nazionale. E per questo è stato teatro di rivolte particolarmente temute da Pechino. Dal 1965 è Regione autonoma della Repubblica popolare cinese. Sono passati infatti 57 anni dall’invasione da parte del cosiddetto esercito di liberazione popolare di Mao, e quasi 50 (17 marzo 1959) da quando il Dalai Lama abbandonò la propria residenza e riparò in India, dove costituì il governo in esilio, con sede a Dharamsala, subito dichiarato illegale dalla Cina.
La cultura tibetana, serbatoio prezioso di spiritualità per l’umanità intera, rischia continuamente di essere dissolta. Il paesaggio naturale e urbano è inquinato. La popolazione indigena, ridotta a circa sei milioni di persone, è già superata dagli oltre sette milioni di abitanti non tibetani trasferiti in gran parte dal governo di Pechino per “cinesizzare” l’area, grazie anche all’uso di una ferrovia arditissima, quella del Quingzang, che unisce la capitale cinese a Lhasa, favorendo la permeabilità del territorio tibetano.
Come nel 1956 e nel 1959, il Tibet è riesploso con quest’anno bisesto. Al modo della Polonia del 1980, della Lituania del 1988, dell’Afghanistan del 1989, della Birmania del 2007, si sono chieste libertà religiosa e democrazia. Infatti, che cos’hanno in comune questi scenari, fra di loro molto diversi dal punto di vista culturale? La forza della religione che scende in piazza, un vigore che rende interi popoli disposti a battersi e a morire per una libertà che non è un residuo di tempi passati, ma un valore incrollabile, una testimonianza perenne del martirio dei credenti, che un brutale pugno di ferro può soffocare nel sangue, ma non può far venir meno né cancellare.
Del resto, è storia nota anche da noi. Dei 70 milioni di martiri cristiani nel corso di duemila anni di Cristianesimo, ben 45 milioni sono da ascriversi al XX secolo: una cifra impressionante, che riassume in sé lo scandalo di una persecuzione nel mondo che oggi riguarda in varie forme almeno il 10 per cento delle centinaia e centinaia di milioni di uomini e donne che professano la religione cristiana. Secondo i dati più recenti, nella tragica classifica degli Stati che attuano sistemi di repressione è in testa l’Arabia Saudita, seguita dall’Indonesia e dal Sudan. In Iraq i cristiani parlano da sempre di rischio sopravvivenza, mentre in Libano, di fatto l’unico Paese mediorientale in cui risieda tuttora una consistente comunità di fede cristiana, i cristiani sono passati da maggioranza a circa un terzo della popolazione: alle persecuzioni, infatti, si sono aggiunte le guerre, che hanno indotto oltre 250 mila fedeli di Cristo ad abbandonare il Paese dei Cedri per mettersi in salvo. Fenomeni analoghi nei Paesi dell’ex Urss: la caduta di un regime che aveva distrutto migliaia di edifici cristiani e costretto i fedeli a una vita catacombale non ha messo fine alle vessazioni compiute contro i cristiani. L’emergenza riguarda anche le Città Sante. A Betlemme i cristiani sono oggi solo il 12 per cento della popolazione, mentre a Gerusalemme dal 53 per cento del 1922 si è precipitati al 2 per cento; e persecuzioni sono in atto in Siria, in Algeria, in Pakistan, in Somalia, in Nigeria…

All’origine degli sconvolgimenti che stanno caratterizzando la vita planetaria odierna, dunque, ci sono l’economia (con il complemento del possesso delle materie prime e delle attività produttive sostenute dai regimi dei costi interni del lavoro) e le componenti spirituali (cultura, lingua, arte, religione) dei popoli. Per quanto possa sembrare strano, sono in corso due fenomeni decisivi per la “misura del mondo” in questi nostri tempi: in campo economico, il ridimensionamento degli impatti che le economie emergenti possono avere sul resto del globo, con la rivalutazione dei vincoli di reciproca dipendenza già emersi, in nuce, alla fine del secolo e millennio scorsi; in campo spirituale una decisa desecolarizzazione, con il potente ritorno sugli scenari planetari delle componenti religiose che hanno tradizionalmente informato di sé le civiltà di tutte le latitudini.

Certo, le nuove entità produttive sono aggressive quanto basta per conquistare sempre nuove fonti di approvvigionamento di materie prime e nuovi mercati: il che significa che la geografia economica muterà in qualche modo, ma meno incisivamente di quanto fosse dato credere fino a poco fa. Sull’altro versante, il riemergere di componenti solo in apparenza astratte, come i patrimoni spirituali dei popoli, insieme con la richiesta di crescenti diritti umani, (chi non rispetta i diritti umani non ha diritti, sostiene un efficace slogan adottato da tutte le comunità non libere), sta ricompattando – saldandole – vecchie e nuove generazioni. Il fenomeno è ancora in parte sottotraccia, ma è innegabile. Gli avvenimenti del Tibet, la testimonianza resa dai martiri in nome della fede, (come quella di monsignor Faraj Rahho, arcivescovo di Mosul, trucidato dai musulmani; o quella dei monaci che si sono fatti massacrare a Lhasa nel nome della propria libertà), come le folle accorse nell’immenso ovale del Bernini, in San Pietro, a dare al mondo persino l’immagine visivamente concreta della solidarietà a un Pontefice offeso da un pugno di laicisti in ritardo, dal balbettamento dei politici e dal complice silenzio degli intellettuali, sono i sintomi di una rinascita che non è soltanto aspirazione al benessere materiale: è molto di più e di più creativo, perché coinvolge ragione, menti e coscienze delle persone, e perché è contro un pensiero arcaico secondo il quale la scienza è l’unica forma di sapere e tutto il resto, salvo forse l’economia, (cioè arte, religione, filosofia), è forma varia di superstizione, concetto spazzato dall’epistemologia contemporanea, da Popper a Kuhn e ad Habermas.
Il 2008 si presenta così, sorprendendo chi riteneva che tutto fosse stato già scritto nel libro del destino degli anni immediatamente precedenti. Da qui a poco, il bisestile scoprirà molte delle sue carte, mettendoci di fronte a scenari che ci costringeranno a muoverci non al passo, ma al trotto con i tempi.

 

 

   
   
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