Dicembre 2007

Rocco De Vitis

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Il tarlo dell’umanesimo
a.b.  
 
 

 

 

 

 

 

 

Primo, mi venne in primo piano Augusto Guerriero, che si firmava “Ricciardetto” sul primo settimanale italiano con cospicue illustrazioni, Epoca. Pensavo che fosse soltanto un opinionista. Avrei scoperto, tempo dopo, che si trattava di un magistrato col pallino della scrittura: uno dei suoi libri, Guerra e dopoguerra, era andato a ruba, diventando introvabile nel giro di poche settimane.
Caso tutt’altro che unico. Si guadagnavano il pane facendo altri mestieri il Tobino delle Libere donne di Magliano, il Gadda di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, e poi Sinisgalli, e poi Volponi, e via elencando, compresi un po’ di pittori – Burri, per dire – e architetti e persino compositori e interpreti del mondo teatrale e cine-televisivo: medici, ingegneri, chimici, altri uomini di scienza varia...

Il tarlo dell’Umanesimo è stato, e continua ad essere, un “philum” identitario del popolo di santi, di eroi, di navigatori, eccetera, in un Paese che genera in tutte le sue latitudini ingegni di gran levatura e artisti di prima grandezza. Anche nelle province più eccentriche. Anche nelle aree più periferiche. Come nel caso di Rocco De Vitis, medico supersanese, che coniugò la missione professionale con la passione per le lettere, e quasi per elezione, per il latino dell’età classica, al punto che dell’Eneide ci diede ben due versioni, in versi liberi la prima (con traduzione fedelmente letterale), e in endecasillabi l’altra. Restituendoci un Virgilio che «ritornerà sempre nello spirito, nelle coscienze dell’eterna umana vicenda e viene con il ritorno del suo eroe: Enea». Eroe che orgogliosamente è definito «un Ausonio, un Italo-Troiano. Egli discende da Dardano, che, nato a Còrito (l’odierna Cortona nell’Umbria), emigra nella Troade, dove una sua figlia diviene la moglie di Teucro, il leggendario fondatore della stirpe di Priamo e di Anchise, e quindi di Ettore e di Enea...».
E insieme con l’epopea delle nostre radici identitarie, De Vitis tradusse le Georgiche e le Bucoliche: il Libro delle genti italiche, da una parte; e i libri della loro operosità creativa e della loro forza d’immaginazione dall’altra; l’uno e gli altri colti nella loro perenne attualità e nella luce che gettano sui coni d’ombra caliginosa dell’avvilente sottocultura mercificata dei nostri corrottissimi tempi.
A latere, due raccolte: Naufragio a Milano e Soste lungo il cammino, volumi compositi, versi e prose d’occasione, stille di saggezza intrise di valori antichi e per ciò stesso perenni, pagine nelle quali, scrive Maria Bondanese, «l’eco dei grandi problemi, l’uomo e la società, la vita e la morte, Dio, ci arriva non pedanteggiante e sentenziosa, ma con la trasparenza dell’esempio, vissuto all’insegna di un naturale moralismo cristiano, di un coerente sentimento civile». Ecco la memoria di ritorno: proprio al modo delle scritture riflesso dell’anima, del pensiero, della cultura dispiegata – in orizzonti certamente più vasti, ma con identica sincerità e immediatezza – da quel conservatore illuminato che fu Ricciardetto, o dal poeta e narratore di marchio lucano che fu Scotellaro, o dal padre narratore e dal figlio poeta dal marchio pugliese che furono Tommaso e Vittore Fiore, o infine da chiunque ebbe un tarlo, un nervo sensibile, una corda sonora tesa tra ragione e passione: che sia propria della solare mediterraneità quella sorta di eresia innocente che rende parallela la vocazione umanistica al più ordinario, e per tanti versi inesorabile, mestiere di vivere?

 

   
   
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