Dicembre 2007

Rocco De Vitis

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Il traduttore, il suo poema
Antonio Errico  
 
 

 

 

 

 

 

 

Probabilmente si può anche scrivere un poema, si può anche costruire un romanzo, senza crederci. Si possono mettere insieme montagne di parole, tessere, trame, dipanare intrecci, creare dal nulla situazioni e personaggi, con un po’ di arte, un po’ di artigianato, ma senza implicarsi, senza tenerci, rimanendo distaccato dal testo, estraneo allo sviluppo degli avvenimenti.
Ma senza crederci non si può tradurre neppure una riga. Perché tradurre è un gesto di altruismo, un mettere se stesso, e la propria lingua, al servizio di un autore e di un lettore; spesso significa rinunciare alle proprie idee, alla propria visione del mondo per entrare nelle forme di pensiero, nelle modalità di comunicazione di un altro che ha scritto in un’altra lingua, un altro tempo, un altro luogo. Significa rifiutare il proprio stile per aderire quanto più è possibile allo stile di un altro; penetrare sintassi, lessico, strutture “altre”, pensare con l’altrui pensiero, provare i sentimenti di un altro. La traduzione pretende un atto di umiltà assoluta. Sempre, quali che siano l’autore, il testo, il genere, il tempo, la lingua. Ma soprattutto quando un autore è un classico, uno di quei monumenti al tempo e alla poesia che hanno retto ai venti di tutte le ideologie, alle contestazioni degli studenti di ogni epoca, ai modelli e alle mode che ciclicamente condizionano e improntano le storie letterarie.
Per anni – per molti anni – Rocco De Vitis si è confrontato con un classico poderoso; con uno di quei libri che non sentono in alcun modo il peso dei secoli; con un poema che è uno specchio di destini individuali e collettivi, di “furor” e di “pietas”, di ragione granitica e di rapinoso delirio. Per Rocco De Vitis, l’Eneide è stato un libro d’amore e di studio, di riflessione e di passione, di analisi e di rigorosa interpretazione. Tradurre questo poema è stata una maniera per entrare nel mondo che raccontava e comprenderlo attraverso la grande arte e l’ineludibile artificio della poesia. Al traduttore non bastava conoscere il senso delle parole e la sapienza con la quale le parole venivano organizzate in struttura, ritmo, combinazione quasi alchemica di lessico e di forma; voleva altro: sperava di riuscire a portare nell’altra lingua anche le pulsazioni del verso, le sensazioni profonde, irripetibili, che suscitava la lingua originaria, le emozioni che gli davano le storie e i sogni dei personaggi.

Così per anni – per molti anni – ha cresciuto quel suo poema. Con un lavoro paziente, meticoloso, attento, teso a scoprire i segreti del verso, le sue insidie, a scandagliarne i moventi e gli intenti. Un lavoro appassionato, soprattutto, umile perché consapevole del fatto di dover fare i conti con la magia del linguaggio virgiliano, con un modello culturale e linguistico secolare.
La traduzione punta sull’essenzialità della parola, sul suo potere di rendere un’atmosfera, di scendere al fondo di una situazione, della storia e di una condizione esistenziale per coglierne il momento e l’elemento caratterizzante.
Rocco De Vitis ha cercato di mantenere intatta (per quanto una traduzione possa permetterlo) la sensibilità e la potenzialità semantica del linguaggio di Virgilio, sperimentando tutte le strade per non cadere nella trappola della sonorità vuota, della cristallizzazione forse appariscente ma fredda e sterile. Attraverso l’uso calibrato del lessico e l’impostazione del periodo, De Vitis traduce fedelmente anche le figure dei personaggi, la loro umanità proiettata in una pluralità di dimensioni. Enea, prigioniero della morale, del retaggio ideale della sua gente, del Fato che ha tracciato per lui strade che vanno in una direzione opposta a quella che le occasioni dell’esistere sembrano indicargli; Didone, martoriata da una passione che si ingigantisce fino a diventare elemento di dissoluzione, smania ossessiva, si proiettano dalla pagina all’immaginario con tutta la loro carica poetica e umana.
Che nel suo lavoro di traduzione Rocco De Vitis si sia lasciato prendere e coinvolgere dal poema e dal mito è assolutamente evidente. Ma era inevitabile, forse, se si considera questa traduzione, dopo quella delle Georgiche, l’esito naturale di una ricerca intensa e appassionata, orientata in particolar modo a scoprire e riscoprire quegli elementi che fanno dell’Eneide un altare alla poesia.
Ho conosciuto Rocco De Vitis intorno alla metà degli anni Ottanta; diceva Virgilio a memoria e lo traduceva simultaneamente. Me lo ha fatto conoscere Maria Bondanese, che prima ne ha curato il lavoro e ora ne cura la memoria individuale e culturale.
Ora, per questa Rivista, ne ha tracciato un profilo che non lascia agli altri molte altre cose da dire. Perché ha sapientemente combinato biografia, bibliografia, ricordi, documentazione, storia, affetti. Con discrezione. Con stile. Con passione.

 

   
   
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