Dicembre 2007

Una vita, una storia che parla di noi

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Rocco De Vitis, dottore
Maria Antonietta Bondanese
 
 

 

 

 

 

 

 

«È il primo mio giorno di guerra sul fronte greco-albanese. In groppa ad un mulo cerco di inerpicarmi fino alla quota assegnatami dalla 127ª sezione di sanità. Un pomeriggio quasi primaverile e il sole prossimo al tramonto».
Vario di forme e di toni, lo smisurato paesaggio è solcato da profonda quiete. Subito dilacerata e scossa.
«In alto, a ridosso di una montagna, alcuni soldati, convulsamente, mi fanno dei gesti che io non riesco proprio a capire e tranquillo proseguo tra uno scenario titanico, che eccita la mia fantasia in una allucinazione di sogno.
Scarta, ruzzola, perdo la mia rozza e mi trovo miracolosamente in piedi: fischiano ancora gli orecchi e gli occhi mandano scintille riflesse dal bagliore di due granate scoppiate a breve distanza. E quei soldati stan fermi e mi fan cenno di correre ed io ora, con quel mio innato senso di fatalismo, continuo a piedi la mia scalata e, solo quando entro nella zona d’ombra del monte, mi corrono incontro. Si meravigliano che il Comando mi abbia inviato a quell’ora, poiché la “LITTORINA” (così lo chiamavano un rumoroso obice greco) teneva sotto il tiro costante quel tratto scoperto di mulattiera» (R. De Vitis, “I nostri caduti”, in Soste lungo il cammino).
Miracolo o fato, il tenente medico Rocco De Vitis raggiunge illeso la meta, Luzzati, quasi a picco sulla strada che da Tepeleni porta ad Argirocastro. «Da qualche mese, il soldato italiano sui crinali di questi monti ancora zebrati di neve, su queste balze, sta scrivendo una fra le tante pagine eroiche di questa guerra», così annota il corrispondente dal fronte Gianni Botta (Primavera a Tepeleni, in “Tomori” del 7 aprile 1941).

Fra i tanti cui tocca scrivere quella pagina anche lui, Rocco De Vitis, classe 1911, richiamato alle armi nel gennaio ‘41. Nella sua personale “Agenda 1941”, una serie minuta di annotazioni: «Domenica 19, commiato da Supersano alle 13.30, partenza da Lecce alle 17.55 / notte infame / lunedì 20, arrivo a Napoli alle 7.15, ore 9 al Comando truppe coloniali presso i Granili…»: alla violenza degli eventi, al turbine degli accadimenti è opposto un umile ma caparbio raziocinio. Le prime ore a Napoli sono di grande concitazione, incombe l’imbarco per l’Africa Orientale. A seguire, invece, sono i giorni lunghi dell’attesa, dello smarrimento, del vuoto: nihil novum / nihil gratum, registra fedele il diario.
Zuccoli, Sensi, Van Vechten, Mitchell, D’Annunzio…: infaticabile lettore, trova sollievo, breve oblio dal «perfido mondo» e dalla «storia bugiarda dei tempi» (“Agenda 1941”, 17 febbraio) nell’universo dei libri. Compagni assoluti di vita, da quei volumi velati d’antico, tra i legni odorosi degli scaffali nella penombra del suo singolare esotico studio, promana il fascino di edizioni Hoepli, Corbaccio, Bompiani ormai perdute. Libri più che libri, testimoni oggi unici e preziosi di transiti per tempi, emozioni e spazi diversi.
Un luogo, una data autografa in calce all’ultima pagina di ogni testo. Erasmo, Goethe e Stevenson letti nel ‘37 a Bologna, l’anno e la città della sua laurea, “celebrata” in uno scanzonato annuario goliardico. Cronin, finito di leggere nel novembre ‘38 quando nel Dodecaneso italiano, tra Rodi e Coo, assolve il servizio di leva e sorride, vigoroso e prestante, in sella al suo mulo di ufficiale. Chissà, forse la guerra può tornare ad essere fantasia di futuristi, dacché a Monaco Mussolini è stato «l’ago della bilancia» internazionale e Chamberlain, dinanzi alla Camera dei Comuni, ha testé affermato che «l’Europa e il mondo hanno ragione per essere grati al Capo del governo italiano per il lavoro da lui compiuto nel contribuire ad una pacifica soluzione» della questione dei Sudeti.
«Supersano, 10 gennaio 1940-XVIII»: la pagina conclusiva di Zola, Il Sogno, certifica il congedo e il ritorno al paese, dove il 25 maggio convola a nozze con l’adorata “Tettuzza”.
Sguardi segreti, sussurri di parole hanno punteggiato l’idillio con Antonietta Sbarro, un amore senza fine che li ha sorpresi ancora adolescenti. Un amore cui non poteva fare ombra il vagheggiamento di lui per Maria Attanasi Beltrame, insegnante elementare morta a Soleto a soli venticinque anni.

 

«Soleto, il Soletum di Plinio e per la superstizione la cittadella delle macàre o streghe […] mi è particolarmente cara e perché il paese natale di mia madre e perché vi ho trascorso gran parte della mia fanciullezza, costretto a vivere in casa della nonna per poter avere la possibilità di frequentare il ginnasio-liceo Colonna nella vicina Galatina e dovendo – e al caldo e al gelo – fare ogni giorno l’andirivieni a piedi o in bicicletta».

Nel tragitto quotidiano incrocia, fra le altre, un’abitazione in pietra leccese a piano terra. Un giorno,

 

«da dietro il vetro di una delle finestre, m’apparve improvviso, come una eterea visione... venuta / di cielo in terra a miracol mostrare, il volto bellissimo di una giovane donna».


Stroncata da un male incurabile nel 1927, Maria è compianta dall’intera comunità e «dinanzi alla bara che serbava tutto il mio tormento e che si portava l’essenza del Dolce Stil Novo» (“Il dolce stil novo”, in Soste lungo il cammino) l’imberbe ginnasiale pronunzia un lirico encomio. Gesto accorato, inconsueto e impresso, fino a non molti anni or sono, nella memoria dei più anziani a Soleto.

Appassionato delle lettere, lo studio è elevazione del suo animo, cibo della mente, riscatto da una condizione sociale di marginalità. Nei banchi del “Pietro Colonna”, tra rampolli della borghesia professionistica e di aristocratici lombi, siede pure lui, figlio di “mesciu” Angelo, calzolaio barbiere che il 2 gennaio 1913 è salpato dal porto di Napoli su uno dei tanti bastimenti della speranza. Quattordici giorni fino a Nuova York. Una traversata della paura. In preda ai marosi per sei interminabili giornate. Rulla il piroscafo, beccheggia orrendamente. Quasi in fin di vita, il trentenne Angelo è fatto salvo dalla sua schietta, incrollabile fede. San Michele Arcangelo, patrono del suo paesetto, gli sembra tagliare montagne d’acqua con la spada. I primi risparmi dell’emigrante saranno per un’opera di devozione, uno struggente Cristo Morto, eseguito in cartapesta dal leccese Oronzo Manno, statua recata ancora oggi in processione a Supersano la sera del Venerdì Santo.
«Il nome del nostro vapore era Germania», racconta Anacleto, “Teto” l’americano, col suo colorito meticciato linguaggio, nell’umanissima autobiografia. “James” Anacleto Galati è il fido “discipulu” che, appena sedicenne, ha voluto seguire Angelo nell’avventura transoceanica. Scrive, per ricordare ai suoi figli e nipoti, come «Maestro Nino» e altri quattro compaesani «nascosti delle loro famiglie», quasi carbonari,

«stavano facendo i preparamenti di venire in America per un paio d’anni, e facevano i conti che qui in America si quadagnava tre o quattro dollari al giorno che scambiarle a lire veniva a 30 lire al giorno più di 180 lire alla settimana e più di 720 lire al mese. E secondo i loro conti un paio d’anni in America uno podeva ritornare a Supersano. Ricco».

È l’Eldorado. Entusiasta, “Teto” implora e supplica il maestro di potersi unire al gruppo, non sapendo neppure dove trovare le tre-quattrocento lire necessarie al viaggio, più «centoventicinque lire per deposito che si deve fare a Napoli». Di un’altra cosa è ancora più stupito: come può Angelo lasciare la moglie Maria, «non solo che era una delle più belle donne forse di tutta la provincia di Lecce, ma la più buona e aveva un sorriso che faceva illuminare una stanza scura», assieme ai piccolissimi figli, Rocco e Gina? Ma Angelo, guardandolo dritto in faccia:

 

«e tu che ti credi che io faccio questo passo per me... Lo faccio per loro. e poi si tratta per pochi mesi. non appena ci mettiamo a posto faccio la progura per loro, e saremo tutti riuniti in America [...] qui in questo Paese disgraziato uno vive sempre di miseria. Tu lo sai che io ci sono mesi che appena posso pagare la rendita di casa, quarda tuo Padre, mio Padre, passare tutta la vita in questa maniera, e meglio essere morto».



Anche se la perdita definitiva di popolazione fu di gran lunga minore – intorno al 38% – il numero complessivo degli espatri tra il 1861 e il 1940, si calcola, secondo Ercole Sori, sui 20 milioni in un’Italia che contava circa 33 milioni di abitanti nel 1901. Un’emorragia di vite alla ricerca “del meglio”. Amaro il destino di Angelo: non tornerà più a Supersano. Fallite svariate partenze, muore di crepacuore – infarto dice il referto – all’imboccare la scaletta dell’aereo che, oltre quarant’anni dopo, deve ricondurlo in Italia.

Nell’animo del figlio Rocco si agita una mescola nera di risentimento, pena, disperazione per il padre perduto, per l’abbraccio negato:

 

[...] Per tre volte
allor tentò di circondar le braccia
al collo, per tre volte l’ombra, invano
contenuta, sfuggì le mani, uguale
ai venti lievi e molto simigliante
ad un dolce fuggente alato sogno
(Eneide, libro VI, vv. 1046-1051, trad. De Vitis).



Nell’amato Virgilio una consonanza di affetti. Come sfugge ad Enea l’ombra di Anchise, così svanisce per Rocco ogni attesa. Angelo non verrà. Gli resta di lui l’impercettibile amorosa presenza al suo fianco, lì a Napoli, quel 18 marzo 1941 quando, su quella stessa banchina di emigranti, riceve infine l’ordine d’imbarco sulla “Città di Savona” per il fronte greco-albanese.
Durazzo, Tirana, Valona, Zemblan, Ponte Bence, Tepeleni e quindi Luzzati. Il fuoco incrociato delle opposte artiglierie qui non dà requie, eppure capita di conversare «sull’eventuale durata della guerra, che si prevede molto breve» (“Agenda 1941”, 29 marzo)! Il 6 aprile,

«apprendiamo l’entrata in guerra della Germania contro la Grecia e la Jugoslavia: ci sentiamo più rincuorati anche perché in questa domenica di Palme regna una tranquillità un po’ insolita. Verso le 16 cominciano però ad arrivare alcune granate che scoppiano vicinissime. Si corre per la montagna, ma apprendo subito che ci sono dei feriti. Mi precipito giù, col cuore che mi batte forte ma con alto il senso del dovere. Medico tre fanti, di cui uno alquanto grave (Marti Amleto di Corigliano d’Otranto) il cui sangue mi macchia anche la giacca. C’è stato anche un morto, colpito da una scheggia sulla tempia sinistra. Regna un po’ di panico perché la morte ci sovrasta necessariamente e inesorabile come la spada di Damocle. A letto comincio a leggere “La sosta sul ponte” di Lucio D’Ambra» (“Agenda 1941”, 6 aprile).

 

Si riaccende la fiducia giovedì 24 aprile quando la Grecia depone le armi. Il Comando ordina quindi il risanamento dei campi di battaglia.

«A me, col mio reparto, viene assegnata la zona che, con centro a Luzzati, seguendo la via per Argirocastro, comprende più quote fino alla cima del Bus-Devrit ed in più il settore del Mali-Palcies» (“I nostri caduti”, cit.).


Più che la vista, è il senso dell’olfatto che guida alla ricerca dei morti, trasportati poi a spalla, su improvvisate barelle, e deposti in loculi scavati nel terreno roccioso:

... Intanto
affidiamo alla terra gl’insepolti
corpi dei nostri, unico onor dovuto
all’Acheronte.
(Eneide, libro XI, vv. 32-35, trad. De Vitis)


Lavoro immane. Procede per molti giorni, com’è attestato dalle annotazioni quotidiane dell’“Agenda 1941”, dov’è pure riportato l’elenco esatto degli ignoti e degli identificati. A varie quote è data degna sepoltura ai caduti, comprese le salme di 35 greci.

«Ma tu, soprattutto, lindo e decoroso cimitero di Luzzati con le tue 150 croci numerate, hai ancora il mio cuore e a distanza di 40 anni, se un qualche valore ha il tempo, rivolgo a chi di dovere l’angosciosa domanda: che cosa di quei fratelli morti se n’è fatto da parte del Governo italiano? Che cosa se n’è fatto di quei sacri luoghi da parte dello stato d’Albania? Se ne è data poi comunicazione alla Grecia dei suoi connazionali da noi devotamente raccolti e seppelliti?» (“I nostri caduti”, cit.).

Domanda ancora oggi senza risposta. Morti dimenticati di una guerra, più di altre, sbagliata. Tumulati nell’oblio che «la storia assegna come condanna senza appello agli incolpevoli sconfitti» (Aldo Bello, “I dimenticati”). Come Ettore Del Niro. Raggiunto il padre, capitano al fronte, muore in azione contro i partigiani iugoslavi, nella primavera del ‘42. Fiore reciso dall’aratro.

«Ricordi? Ti conobbi in un meriggio di primavera su una vetta di guerra mentre provavi le armi tolte al nemico disfatto […]. E fremevi, anelavi a nuovi cimenti perché tu più che soldato eri un’offerta. Volontario nel più alto significato ideale, non t’avvinceva più nessun legame fuorché quello che lega l’offerta al sacrificio dell’eroe purissimo» (R. De Vitis, foglio autografo del ‘42).

Ma il franare degli eventi travolge il sacrificio e l’eroismo dei singoli. Luglio ‘43, gli angloamericani sbarcano in Sicilia. L’otto settembre il governo Badoglio, «riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria», chiede l’armistizio e fugge da Roma. All’indomani esplode la carica distruttiva dell’esercito germanico contro soldati e civili italiani. I reparti tedeschi in ritirata dalla Puglia lasciano dietro di sé devastazione, saccheggi e stragi, una scia di vendetta. Alla violenza nazista si oppongono la reazione popolare e il coraggio di militari come il generale Bellomo. Tra i pugliesi combattenti all’estero che decidono di mantenere fede al giuramento prestato, anche il tenente medico Rocco De Vitis.
Prigioniero della Wehrmacht, è costretto a una durissima peregrinazione attraverso l’Europa centrale fino in Russia. Fame, gelo, paura. Remoti i giorni dei simposi ridenti – brevi soste d’umanità – con Davide Lajolo, compagno d’armi e di letture. Solo la sua dignità e la funzione di medico lo salvano dall’abbrutimento, dall’estremo degrado. Nel luglio ‘44, i tedeschi, inseguiti dai sovietici, invertono la rotta trascinando con sé il detenuto da un carro ferroviario all’altro. A dicembre, arrivati in Germania, a Siegmaringen, il vagone del prigioniero è agganciato ad una tradotta dei “repubblichini” della divisione Italia, in partenza per il Brennero. Varcato il confine, i mesi che precedono la Liberazione sono un’odissea di profugo nell’Italia di Salò.

Il 23 maggio 1945 è il giorno del ritorno. A Supersano, a casa. Lì lo aspetta la sua sposa. Come allora, nel maggio odoroso del ‘40. Il primo governo dell’Italia libera è costituito da Ferruccio Parri il 21 giugno ‘45 con ministri Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Pietro Nenni. Grandi le attese della “rivoluzione morale” che deve rigenerare il Paese. Al Sud una nuova Italia fermenta nel movimento contadino di occupazione delle terre incolte. Il ministro dell’Agricoltura, Fausto Gullo, emana i decreti per la riforma dei patti agrari e la promozione della contrattazione sindacale collettiva. Caso rarissimo – rileva A. Rossi Doria – in cui un intervento dall’alto dà legittimità alle lotte dal basso e insieme le amplia.
«Sulle terre incolte d’Arneo / noi porteremo la vita e il lavoro, / darem le terre a tutti coloro / a cui l’agrario per anni negò» (in G. Prontera, Una memoria interrotta): l’epopea dei braccianti salentini, tra il dicembre 1950 e il gennaio 1951 si chiama Arneide. Accusato di favoreggiamento, subisce alcuni giorni di reclusione anche Cesare Reho, segretario della Camera del Lavoro di Supersano, che fu tra i primi poi a promuovere qui un moto di occupazione del latifondo incolto, in contrada “Schillanti”. A sedare gli animi e sciogliere il contrasto con i proprietari De Marco è però Rocco De Vitis. Con la sua mediazione, si arriva a un frazionamento in piccole quote della zona “Schillanti”, attribuite con sorteggio a circa mille nuclei familiari della comunità supersanese.

L’umanesimo civile, la formazione politica cristiana, l’esperienza di vita gli aprono una visione dei problemi che va oltre il conflitto di classe. Il confronto e la negoziazione sono per lui gli strumenti del progresso, la via della crescita economica e sociale, la garanzia democratica dei ceti più deboli.
In quell’arco di anni, un «comunista senza dogmi», Giuseppe Di Vittorio, si batte con poca fortuna ma con tutte le forze perché non si spezzi l’unità sindacale fra tutti i lavoratori, al di là di ogni appartenenza politica o credo religioso.

«Rompere la barriera delle proprie rigide posizioni, incontrarsi, colloquiare bisogna, entrare in contatto col pensiero e con l’animo dell’altro, scacciare i preconcetti e la mania che uno o una classe voglia il male del prossimo, erigendosi a paladino della verità» (“L’uomo e la società”, in Soste, cit.).

Due uomini differenti, entrambi protagonisti secondo modi, contesti e convincimenti diversi, ma animati da un identico pragmatismo, orientato ai bisogni delle persone, a quel bene comune che non può essere sacrificato al fanatismo e allo schematismo ideologico.
Lasciato alle spalle l’incubo della guerra, la priorità ora è costruire una realtà nuova, di cittadinanza e partecipazione, dopo due decenni di forzata passività. È la stagione degli inizi.
Nella vita politica, De Vitis porta la stessa passione e l’impegno che lo fanno medico infaticabile di tutti e ad ogni ora, esperto dei mali del fisico e dell’anima, confidente sapiente e fidato di disagi e problemi.
Non si candida a ruoli istituzionali ma, nelle file della Democrazia Cristiana, svolge un’intensa attività a sostegno della candidatura del concittadino Arcangelo Magli, eletto al Senato con amplissimo suffragio nelle votazioni dell’aprile ‘48. A Palazzo Madama il senatore Magli pronuncia però, il 22 febbraio ‘50, un discorso di duro dissenso dalla posizione di De Gasperi sulla questione di Trieste, “invitando” il Presidente del Consiglio a lasciare il posto ad altri. Decisione gravida di conseguenze. Per il senatore, che passa ai Monarchici, per la comunità di Supersano che vede sfiorire le prospettive di un rapido sviluppo.
Deluso ma non arreso all’ostinazione degli uomini e degli eventi, De Vitis continua la lotta di ogni giorno ai morbi del corpo, alle tossine dell’arroganza e del qualunquismo.

«Ognuno di noi trovi ed innalzi anzitutto entro di sé i valori dello spirito, le regole eterne della convivenza sociale, basata sull’amore e sul rispetto reciproco, e – senza fanatismo – non tralasci ugualmente alla politica il compito di proporre leggi più giuste e sempre più socialmente avanzate» (“L’uomo e la politica”, in Soste, cit.).

Nel suo ambulatorio, nella sua abitazione, di giorno e di notte, presta le cure ai compaesani, ai più sbadati non risparmia rimbrotti preoccupati, al capezzale dei più gravi accorre premuroso, a bordo di una Fiat “500 C”, «a Topolinu te don Roccu», familiare ai supersanesi fino alla fine dei suoi giorni. Dei suoi mali non parla mai. Una sobrietà che lo fa sentire “a casa” tra i classici latini. Nel 1982 pubblica una traduzione dell’Eneide virgiliana, in endecasillabi sciolti, seguita nel 1987 da una seconda edizione in endecasillabi puri, cui fanno poi corona nel 1988 le traduzioni delle Bucoliche e delle Georgiche.

Enzo Panareo, Aldo de Bernart, Florio Santini esprimono allora apprezzamento per un lavoro fedele e appassionato che l’Autore offre, con modestia, agli studenti in particolare, per la possibilità di «eliminare i comuni e fiacchi traduttori» grazie all’aderenza del tradotto con l’originale, ma anche al «culto del tempo e della parola», dice Antonio Errico, sotteso alla smisurata fatica. Tenacia che non stupisce in un uomo profondamente legato alla Natura:

Togliersi i calzari
ed andar talora
con i piedi scalzi,
perché santo è il suolo
su la terra impervia
(“Caritas”, in R. De Vitis,
Naufragio a Milano).


Sulla Serra di Supersano, tra vigna e ulivi piantati nel terreno sassoso, trascorre pomeriggi operosi, già avanti nell’età, ed edifica agli inizi degli anni Ottanta una chiesetta a San Giuseppe perché, ricorda l’anziano e affezionato Ugo Santoro, «u tottore, era statu alla cuerra, ia curatu tanti feriti, ia vistu murire tanti giovani surdati e ulia cu costruisce na chiesia cu ringrazia u Signore ca l’ia sarvatu te ddhra brutta esperienza». Dona poi alla parrocchia questa cappella a lui così cara, impreziosita dagli affreschi di Ezio Sanapo e dalle sculture di Antonio Elia, artisti che lui ha visto crescere a Supersano, ammirandone da sempre la bravura e la genialità. Nei giovani ripone ogni attesa, ogni domani. A loro porta nelle scuole un messaggio di fede, dottrina, saggezza. Fino al 1997, fino all’ultimo.
Nelle sue intime fibre, una vita la sua, una storia che parla di noi.

 

   
   
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