Dicembre 2007

Geo-poesia

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L’Italia in versi
Ada Provenzano - Giorgio Franciosa - Elisa Minerva
 
 

 

 

 

 

 

Qui Jovine narrò l’epopea delle “Terre del
Sacramento”, e qui fame e rivolta, amore e morte, diedero un nome
a una letteratura oggi rottamata senza una ragione.

 

In quella che non a torto molti considerano una delle sue più belle poesie, D’Annunzio mette a frutto l’esperienza personale. Il volubile comandamento della transumanza trasferisce sul piano della memoria innumerevoli escursioni, compiute fin dall’adolescenza nella terra nativa. Non c’è palmo d’Abruzzo che non abbia perlustrato, anche a dorso di mulo, alla ricerca delle proprie radici remote.
Cantore della modernità alle soglie del ‘900, il suo formidabile balzo in avanti si compie in virtù di una lunga rincorsa a ritroso. Il Poeta-Vate, del resto, non avrebbe saputo riproporre il mito di Icaro se non accanto a quello pastorale: l’esplorazione dello spazio non è disgiunta da quella del tempo. Scrive: Settembre, andiamo. È tempo di migrare. / Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori / lasciano gli stazzi e vanno verso il mare: / scendono all’Adriatico selvaggio / che verde è come i pascoli dei monti...
La transumanza, la ciclica “mena delle pecore”, fu drammatica epopea di pastori e lunga storia di arretratezza economica e sociale per le aree che ne furono teatro. Aree destinate fatalmente a trasformarsi in nuclei di espulsione demografica, in bacini di emigrazione, in inferni di vite erratiche, crudamente cantati, dapprima, e poi malinconicamente trasfigurati in dolenti nostalgie dai versi di Eraldo Miscia.

Per antica tradizione molta poesia meridionale, e dunque anche abruzzese, si abbandona a visioni romantiche. È il caso di Giovanni Titta Rosa: Sotto pallidi olivi / sparse greggi sul margine dei greti / brucano l’erba rugginosa. // Sole / d’inverno, lievi erranti fumi azzurri / su chiuse ville e casolari. // Dolce quiete di vita… Ma è pure consuetudine di scrittori in transito, attratti dal paesaggio inconsueto, o coinvolti nell’incanto della vita semplice, e quasi primordiale, che sembra aver fermato il tempo.
Così Biagia Marniti, pugliese delle calanche argillose del Subappennino, celebra gli scenari cristallini di Francavilla al Mare: Vie deserte, / acquamarina di onde / frangentisi in fascinosi fiocchi / quasi di neve… / Qui mi rallegra la terra / il treno in corsa / Quella luce rosacobalto… Al modo di un altro delicato poeta, Giovanni Francesco Romano, salentino, che sulle sponde del lago di Barrea torna a ritrovare serenità e ispirazione: Zoccoli allegri. / L’acqua ora canta / nelle brocche di rame; e ancora: Un grillo canta. / Pullula melodiosa / acqua di luna; e in un ultimo balenante haiku: Cantano donne, / lontano. Che tristezza / muove le foglie.
Specularmente, altri versi sembrano riecheggiare la rocciosa indole ribelle dell’anima abruzzese. Ottaviano Giannangeli: Quale è il senso del mondo, / e la mia avventura avrà una fine… / Passava un vento furibondo / sulla terra che non ha confine. // Vedevi la luna, ora lontana, / non più carezzevole, svagato / il timbro di una campana, / il tutto disarticolato. // E calmo, il tutto. Spettrale / un canto di funebri danze. / Bruciava millenni, distanze / nella staticità astrale. E poi altri poeti di forte impatto e di scoperto impegno sociale. Il coltissimo Giusepe Rosato: Donne scotellariane anche a Lanciano / si stringono alle otto del mattino / davanti alla serranda della chiusa / Camera del lavoro. Il loro volto / buio è un’ombra nel sole settembrino / e una guardia le assedia, come il cane / il suo gregge, le difende dal mite / lupo che in loro finge la miseria. E l’elegante Giammario Sgattoni: Non raccontarmi più favole lunghe / di lucerne, demòni e ripostigli / dentro stanze annerite da millenni: / quando il giorno sarà precipitato / tra quei colli e le frange dei ciliegi, / rapido guaderò, senza bagnarmi, / le foci del Tronto – già gonfie di nevi.

Alla loro franca poesia fanno eco altri due scrittori di spessore. Pasquale Scarpitti, il primo: …Sono con te, Pescara, / la terra che si spacca per germogliare case / le gru possenti che dal cielo gettano / mattoni e calcestruzzo sui fiori dei giardini / l’ombrello dei pini recisi per gabbie umane / con te sono il mare ancora azzurro vele gabbiani / e gli operai che t’amano più della Svizzera / dove in francese tedesco italiano / e neppure in dialetto possono capire / i pescatori che credono soltanto / in quel mare in burrasca dove finiranno / in quel filo di cielo nascosto nella barca / tra casupole rotte del porto canale… E poi l’altro, l’aspro e generoso cantore di Chieti, Silvio Catalano: Sette sassi ho trovato per strada, / sette sassi a punta di chiodo / e capocchia di duro mercante: / passo più passo meno, // quattro nell’ombra e tre nel sole. / I miei passi andavano piano / come su un lastrico di cimitero, / posando pensiero dopo pensiero, // – quattro nell’ombra, tre nel sole – // ma con tal senso di natura morta, / che una lucertola guardò quei passi / e il mezzogiorno s’irrigidì.

Fu terra gemella minore, il Molise, fino al giorno in cui volle recidere il cordone ombelicale che lo legava all’Abruzzo, e si lasciò portare dalla risacca verso le morbide alture della Capitanata, dell’Irpinia e del Vulture. Sicché in “Campobasso-Salerno” Carlo Betocchi poteva cantare: Il Sannio era ricco di querce / poi cominciarono i noccioleti / dell’Irpinia: e sempre tra i monti. / Ingiallivan le stoppie e le saggine // nei campi; le viti vendemmiate / festeggiavan la morte, con quel loro / cuore a pampini, sventolante…
Qui Jovine narrò l’epopea delle “Terre del Sacramento”, e qui fame e rivolta, amore e morte, diedero un nome a una letteratura oggi rottamata senza una ragione, che non sia pretesto di coloniali conferme di dominio sul pensiero del Sud. E qui il più rappresentativo dei poeti molisani, Sabino D’Acunto, diede voce alla sua terra, scrivendo – tra storia ed elegia – dalle insellature staffilate dal vento: Sulla mia gente veglia la montagna, / assorta testimone / di primavere sacre e di memorie: / Per fame d’orizzonti / vennero gli avi dentro il bue mitico / alla ricerca d’una patria. E là, / ove il Matese la sua asprezza placa / nella pianura emersa dai silenzi, / destini si compirono nel solco / di favolose età. / In questa terra avara la mia gente / rinnova le sue stirpi / come sui rami mutano le foglie. // Un antico destino è la fatica / di solcare i maggesi e porvi seme / di grano e di speranza: / gli uomini hanno muscoli di pietra / e cuore di fanciullo. // È buona la mia gente. / Nel suo penare cotidiano sogna / un domani migliore… / È una speranza – questa – che si spezza / con il pane, ogni giorno, e come il pane / lascia di sé insoddisfatta voglia. / Risonanze sommerse porta il vento / quando s’alza negli orti a sera e mugghia, / ostile, sulle case antiche e vuote / che immagini conservano remote / e ricordi di morti senza tempo. / In queste mura intesse la sua vita / di rinunce e miseria la mia gente: / i vecchi non ricordano che fame / e le mamme hanno il petto dissanguato / dalla fame dei figli: nelle mani esse stringono la pena / e grani di rosario. // Come vorrei lungo i tuoi tratturi, / terra mia dolce, unirmi ai tuoi pastori / che lenti vanno e muti come numi / antichi nel silenzio sopra l’erbe; / o per le strade unirmi ai pellegrini / a ritrovar la fede dei miei padri / dietro un ramo intarsiato fatto croce…// Ma non odo che pianto nei crocicchi / e sulle soglie vedo solo addii. // Non si piangono morti, qui, ma vivi! // Uomini vanno col fardello carico / di stracci e di illusioni, chissà dove. / Partono! // Parte tutta la mia gente / per approdi lontani. / Partono all’alba, come i condannati…// …Il nostro cuore / è pietra di sepolcro. / Nella sua quiete alta la montagna / al dolore degli uomini fa eco. // Le primavere sacre si rinnovano: tormentose, crudeli, senza miti.
E mentre in “Come da un alto sagrato” Geri Morra incrocia memoria e nuvole d’ira, (…Io ricordo i canti dalle vigne / e i tuoi piedi di creta, le mani / chiuse nel mio pugno giovane, / i brandelli di cielo sul mio capo / che sollevava il tenero querceto, / l’urlo ostinato dei vetturali, / il gioco delle tue ciglia / sulla veste gonfia di vento, / il lamento dei pastori sulle prode, / l’occhio pavido e aperto / come il nero nel fiore della fava…, Lino Angiuli – in scorribanda dalle contrade della sua Peucezia – tra ironia rarefatta e richiamo alla riflessione – invia saluti da Rotello: …Forse / siamo soltanto le perdite del tempo noi / se ci scordiamo le pietre normanne / o i tanti soprannomi con cui / chiamiamo ancora il dio dei padri / perché ci faccia compagnia lungo la via / che porta da una lettera all’altra / di quel minuscolo dolore animale / dal quale magari volendo volando / un pendaglio d’aglio potrebbe salvarci.

Compito ingrato bruciare le cartoline poetiche dedicate a Napoli (e a tante altre città della Campania), tale è la ridondanza delle mozioni d’amore per le meraviglie (ma sempre più offese) del paesaggio, per la musicalità del dialetto, per la notorietà delle canzoni, per i temi eterni che intridono i componimenti di un numero impressionante di verseggiatori. Napoli non è soltanto storia, arte, scienza, civiltà e creatività; e non è soltanto miseria e nobiltà, karakorum di pattume e struscio a Mergellina, quartieri di Carlo V e architettura maestosa sui lungomari. È soprattutto metafora di un pianeta immaginario unico, di un universo speciale che non si domina per altrui volontà, e che ingloba tutto quanto c’è – nel bene e nel male – nel mestiere di vivere, e ne fa come per partenogenesi una sorta di creatura sanguigna e prevaricatrice, lazzarona e imbellettata, callida e fatua, servile e ferocemente reattiva, votata alla generosità e all’impostura. Ed è questa, appunto, la città che fu capolinea dei viaggi che completavano le escursioni lungo i percorsi degli spiriti colti di tutta Europa, con qualche deviazione solo verso la splendida Sicilia delle poleis greche e di Federico di Svevia.
Confessa a muso duro Lino Curci: Città nativa, mio assurdo rancore, / sento di detestarti, a volte, come / tutte le cose che dovrei più amare. / Prigione del mio tempo e alla gelosa / mia libertà limite oscuro… // Approdo di navi e di velieri, / odorano i limoni così dolci / sulla tua costa e i pescherecci dormono / sull’acqua verde delle baie con tanta / pace! Ma gridi nervosa, inquieta, / nelle tue strade e il sangue mi sconvolgi / di umori e di tristezze, con la turgida / furia della rivolta onde ti nego / per sempre gratitudine filiale…
Eppure, per il paesaggio campano Curci aveva distillato splendidi versi: il paesaggio, però, lontano dalla metropoli tentacolare, quasi protetto dalla distanza, nella luce meridiana che rendeva diafani gli orizzonti: Strade d’ocra leggera, solitarie / in quell’aria dorata, dal timone / dei rossi carri l’uomo silenzioso / guarda lontano, va la vigna bassa / fino alla proda: come canta l’ora / d’autunno prima del tramonto! Un fumo / di pienezza felice la rallegra, / evapora e rallenta / tutta la vita. Contemplavo a valle / le crete digradanti, intorno i poggi / con i paesi…
Destino dell’urbe partenopea, forse, quello che intravide Giambattista Marino, che ne scrisse con una sensualità panica – elegante, sì – quasi sempre risolta nell’intrecciarsi e sovrapporsi di metafore iperbolicamente ampliate: Or che l’aria e la terra arde e fiammeggia, / né s’ode euro che soffi, aura che spiri, / ed emulo del ciel, dovunque io miri, / saettato dal sole, il mar lampeggia; / le braccia aprendo in spaziosi giri, / e del suo crin ne’ liquidi zaffiri / gli smeraldi vaghissimi vagheggia...
Farà poi eco Francesco Flora, con un “Canto della vita” che vibra in tutte le corde del sentimento: Azzurro, dolce in bocca a respirare / sapor di cielo e mare / sul colle di Camaldoli. La vita / è più leggera in cima: / tutta la terra intorno / soave abisso agli occhi: / il colle che digrada aspro di selve / fulgido di ginestre… // Ma sulle acque incantate / ove le barche a vela, / farfalle ad ali tese, / palpitano in silenzio, / le montagne de le isole respirano / come i seni nascenti: e il vento e il sole / scintillano stridendo / di frantumi di stelle e di comete… E Leopardi, che al cospetto delle falcature del mare partenopeo visse gli ultimi, sofferenti giorni della sua vita, così descrive l’incombente Vesuvio, striato dal “fiore del deserto”: Qui su l’arida schiena / del formidabil monte / sterminator Vesevo, / la qual null’altro allegra arbor né fiore, / tuoi cespi solitari intorno spargi, / odorata ginestra, / contenta dei deserti…

Non solo Napoli. Fior di poeti esplorano altre Campanie: Raffaele Carrieri, a Pompei, (Fossile il filo nella cruna / lo sguardo nell’occhio. / Fossile la porta, fossile l’orma / e il cane nell’urna. / Fossile la lacrima / nel lacrimatoio. / Sola un’ape / controluce un’ape / versa miele / e crepita); Montale verso Capua, (…Rotto il colmo sull’ansa, con un salto, / il Volturno calò, giallo, la sua / piena tra gli scopeti, la disperse / nelle crete...); Alfonso Gatto dalle parti di Salerno (Prim’alba odora vuota. / Il silenzio dell’aria / s’imperla gelido. // E in ogni faglia tace / l’ulivo, la tristezza); Giorgio Caproni nell’“osso” della regione (Ahi treno lungo e lento / (nero) fino a Benevento. / Mio padre piangeva sgomento / d’essere così vecchio. // Piangeva in treno, solo, / davanti a me, suo figliolo. / Che sole nello scompartimento / vuoto, fino a Benevento! // Io nulla gli avevo detto, / standogli di rimpetto. / Per Bari proseguì solo: / lo lasciai lì: io, suo figliolo).
Infine, i diari di bordo degli sppiriti nomadi, i taccuini di chi si muove on the road e annota in versi non impressionistici le proprie emozioni: Lorenzo Giusto primo fra tutti, a Ravello, (Capzioso sortilegio d’alchimista / fermò velieri e navi d’oltremare / e legni e spezie e stoffe e essenze varie / si sparsero sui flutti d’ametista… // Dentro nicchie di pietra opalescenti / bellezze furon chiuse. Nei tramonti / bruciarono in cospetto agli orizzonti / i corpi di divini adolescenti), a Sorrento, (Rosei oleandri allacciano l’azzurro / come baccanti in floride catene, / e oscillano nei porti le carene / dei canotti con gracile sussurro. // Sulle rocce muscose un voluttuario / pino si genuflette a carezzare / i desideri scesi a naufragare / nell’immoto turchino millenario…), e Capri, (Rocce giganti avvinte alle catene / di blocchi di compatta malachite; / spiagge da molli ulivi impallidite, / rammemoranti approdi di sirene; // vigne sognanti incensi di patère / d’oro disperse fra cipressi e palme, / promontori dissueti alle cui calme / meriggiano solinghe dèe costiere…). E infine Elpidio Jenco, (Gàbberi, oh, i tuoi silenzi di macigno / precipitosi, i tuoi dirupi ardenti, / i covi duri all’ospite, le forre / come nere varate nei pendii, / verso le gole dove il tuon d’agosto / d’eco in eco vanì nel temporale / con l’ululo d’un affamato lupo!...).

La Calabria, terra grande e amara. L’antica Calabria di viaggiatori avventurosi. La Calabria dell’onore e del coltello, dell’amicizia e della vendetta. La Calabria del sanguigno Leonida Repaci: …Ti amo Calabria / per gli assorti silenzi delle tue selve / che conciliano i sogni dei pastori / e le estasi degli eremiti. / Ti amo per quel fiume di alberi / che dalle timpe montane / arriva ai due mari / a bere il vento del largo / frammisto all’aroma del mirto. / Ti amo per le solitarie calanche / chiuse da strapiombi di rocce / che prendon colore dall’alga / nata dallo spruzzo dell’onda… // Ti amo per il rifugio che dai / al latitante, all’evaso, al brigante, / all’orfano, al mendicante, alle bestie / affamate e senza padrone. / Ti amo per il dolore che schianta / il cuore dei giovani braccianti / quando lascian le terre dei padri / per guadagnare un pane salato / in terre lontane e nemiche… // E un giorno non troppo lontano / unito a te nella zolla / sarò anch’io Calabria, / sarò il fremito dei tuoi alberi, / il murmure della tua onda, / il sibilo dei tuoi uragani, / il profumo delle tue siepi, / la luce del tuo cielo…
La Calabria multiforme, roccia desolata, foresta vergine, mare cobalto, e luminosità più abbagliante perché più nere siano le ombre. La Calabria che si prende solo per amore. La Calabria di Franco Costabile: Un pastore / un organetto / il tuo cammino. / Calabria, / polvere e more. // Uova / di mattinata / il tuo canestro. / Calabria, / galline / sotto il letto. // Scialli neri / il tuo mattino / di emigranti. / Calabria, / pane e cipolla. // Lettera / dall’America / il tuo postino. / Calabria, / dollari nel bustino. // Luce / d’accetta / l’alba / dei tuoi boschi: / Calabria, / abbazia di abeti. // Una rissa / la tua fiera. / Calabria / d’uva rossa / e di coltelli. // Vendetta / il tuo onore. / Calabria, / in penombra / canne di fucili. // Vino / e quaglie, / la festa / ai tuoi padroni. / Calabria, / allegria di borboni. // Carrette / alla marina / la tua estate. / Calabria, / capre sulla spiaggia. // Alluvioni, / carabinieri, / i tuoi autunni. / Calabria, / bastione / di pazienza. // Un lamento / di lupi, / i tuoi inverni. / Calabria, / famiglia / al braciere. // Francesco di Paola / il tuo sole. / Calabria, / casa sempre aperta. // Un arancio / il tuo cuore, / succo d’aurora. / Calabria, / rosa nel bicchiere.
La Calabria sensuale, nella sua umanissima terrestrità, di Giuseppe Selvaggi: Sulla scarpata del fiume / danzano i carpentieri / per il vino bevuto a mezzogiorno. / Essi non bastano al loro cuore / e nemmeno alla carne. / Per la tua salute, Dio, / non scendere sulla riva. E quella degli spiriti erratici. Biagia Marniti, per esempio: Scilla dorato mostro / limpida sei nella memoria, / vive ancora il tuo silenzio / ed è sasso lanciato in mare. / Voci arse, uomini neri come topi, / mani che creano cesti simili a fiori, / tempesta che brucia con la luce e il grido / vivi solo in un ceppo / che non si piega e mi divora. O Raffaele Carrieri, infine, con il suo “Piccolo bestiario calabrese”: Covoni di sette cupole, / rovine del grano. / E tu nella mia mano: / cicala a Seminara / rondine a Crotone. / Nel deserto delle biade / mulinelli di pula: / e tu sulla mia spalla / più leggera della paglia / coricata sull’aia. / Campi d’Albanella / campi di Terranova: / e tu specchio, miraggio / mutevole in ogni occhio. / Nell’alone dell’Ave / per tratturi e mulattiere / dondolavano gli asini / coi castelli di fieno. / Caduta del sole a Sibari / notte nuziale a Castrovillari: / nella stanza dell’orzo / spiava Orione / e tu sul mio cuore / sospesa come una quaglia.

La Lucania, ora. La Basilicata, se si preferisce: guardata a vista dalle stupende colonne delle Tavole Palatine, a Metaponto, nome di luogo che riassume e fonde una composita storia di imbarchi verso approdi accoglienti, su rive di limpidi fiumi, in acrocori intatti, per dispiegare una storia e un’arte e una letteratura non esenti da leggende. Fu Metaponto, al modo di Taranto, scuola di Pitagora? Vi trovò, quest’uomo di scienza universale, la morte? Le Tavole ne contengono i resti? Piace pensare che sia così, perché se non c’è mito non esiste la fantasia, se inaridisce la leggenda muore l’immaginazione.
Ne prende coscienza Leonardo Sinisgalli: Al pellegrino che s’affaccia ai suoi valichi, / a chi scende per la stretta degli Alburni / o fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra, / al nibbio che rompe il filo dell’orizzonte / con un rettile negli artigli, all’emigrante, al soldato, / a chi torna dai santuari o dall’esilio, a chi dorme / negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante, / la Lucania apre le sue lande, / le sue valli dove i fiumi scorrono lenti / come fiumi di polvere. // Lo spirito del silenzio sta nei luoghi / della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto, / sofistico e d’oro, problematico e sottile, / divora l’oblio nelle chiese, mette il cappuccio / nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce / con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati. // Il sole sbieco sui lauri, il sole buono / con le grandi corna, l’odoroso palato, / il sole avido di bambini, eccolo per le piazze! / Ha il passo pigro del bue, e sull’erba, / sulle selci lascia le grandi chiazze / zeppe di larve. // Terra di mamme grasse, di padri scuri / e lustri come scheletri, piena di galli / e di cani, di boschi e di calcare, terra / magra dove il grano cresce a stento / (carosella, granoturco, granofino) / e il vino non è squillante (menta / dell’Agri, basilico del Basento) / e l’uliva ha il gusto dell’oblio, / il sapore del pianto. // In un’aria vulcanica, fortemente accensibile, / gli alberi respirano con un palpito inconsueto; / le querce ingrossano i ceppi con la sostanza del cielo. / Cumuli di macerie restano intatti per secoli: / nessuno rivolta una pietra per non inorridire. / Sotto ogni pietra, dico, ha l’inferno il suo ombelico. / Solo un ragazzo può sporgersi agli orli / dell’abisso per cogliere il nettare / tra i cespi brulicanti di zanzare / e di tarantole. // Io tornerò vivo sotto le tue piogge rosse / tornerò senza colpe a battere il tamburo, / a legare il mulo alla porta, / a raccogliere lumache negli orti. / Vedrò fumare le stoppie, le sterpaie, / le fosse, udrò il merlo cantare / sotto i letti, udrò la gatta / cantare sui sepolcri?
E ancora lui, Sinisgalli, e sempre con i suoi toni dolenti, in “Pasqua 1952”: …Le pendici del Serino sono ancora bianche di neve. / Ci siamo tappati nelle stanze, a stento / ci arrivano dalla piazza i rintocchi d’orologio. / Il fumo ci arrossa gli occhi, / è umida di bosco la legna morticina. // Cristo risorgerà dal sepolcro di iris: / i messaggeri ce l’hanno comunicato / bussando alle imposte. / I piccoli pastori ci portano i primi / asparagi dalle pinete, l’ortolana / scalza è entrata con un cesto di fiori / di rape. // Aspettano da trent’anni una Pasqua / tra i fossi, il muschio sopra i sassi, / le viole tra le tegole. Ma i morti / dormono sulle bare di castagno, / sugli archi delle stalle e dei porcili, / sulle crociere delle cantine e dei pollai. / Fanno fatica ad abbandonare per sempre / le nostre sedie, i nostri letti, / dove vissero tanti anni di lenta agonia. // Lungo le strade gli stracci / neri delle vesti sono più silenziosi. / Un gruppo d’uomini brucia col ferro / il grumo di veleno nella bocca dell’asino…

Calanche grigiastre emblema della fame lucana. L’abbandono, le odissee ignorate, le cronache a mezza bocca (e anche queste infastidiscono le opere e i giorni delle terre dell’opulenza), le insorgenze per il possesso di un minifundo, la tracotanza baronale, la Storia cancellata… Sopravvivono i sodalizi, questi non li inghiottirà la materialità di chi – diceva Carmelo Bene – “depensa”. E così riemergono dagli abissi dei nostri ri-morsi i versi dei meridionalisti militanti, di chi entrò in sintonia al di là di ogni frontiera, di chi fece della propria cultura lo strumento principe per il riscatto del Sud.

Baricentri ideali, un paese e un sepolcro, non in una sontuosa Santa Croce di periferia, ma nel cimitero di un minuscolo paese lucano, in cima a una brulla costola d’Appennino. Vittore Fiore ricorda l’uomo, il perseguitato, l’amico, (il poeta), Rocco Scotellaro: Nella tua tomba di Tricarico / cuore di contadino non si strugge / come nella Torre Normanna / cuore di cuculo non singhiozza, / io sento i fiori di Lucania / e l’uva puttanella maturare, / teniamo riunione alla Ràbata, / profumo di susine, di stalla / e intellettuali di Matera, / di Potenza, cantando tutti insieme / le tue nenie e canzoni di riscossa / nel paese di Rocco / e dovunque una piantata restituisca / cuori di vaccari e bandiere, / i tuoi racconti di paesani, di partenze, / dovunque una piazza, come dicevi, / ha un sole di mille candele / e un paese come il tuo, / è come una tavola nera. / Cantiamo tutti insieme, / manovali delle rotabili, / pastori delle curve, / lontane luci notturne, / cantiamo, noi, cicale / delle scorciatoie, delle valli, / che abbiamo pianto lungamente / e che Rocco è nella sua tomba di Tricarico / e non ci fa dormire, il ragazzo / che si annida sui nostri cuori / e ha rotto l’aria della Lucania. // Contadino senza terra, con un fiore di fuoco / contro il cielo, giovane donna di acagiù, / tu credi che un poeta morto / sia un minuscolo corpo, / mentre dietro di lui / passano e ripassano scialli neri / e vestiti di fustagno, ecco, / e scorrono piani di trasformazione / e romanzi nuovi e dialetti / e il respiro delle streghe nelle tele / di Lucania, delle vedove di Calabria, / di zolfatari e pescatori di Scilla, / siamo l’astuzia contadina e i cieli bassi, / Rocco, la vita che ci univa, / gli orizzonti lontani della tua terra, / li seguo dal ciglio dei burroni / mentre ride il tuo sangue per le valli / di poeta contadino, il tuo cuore lucano.
Civiltà terragna, dopo il tramonto di Magna Grecia e le ininterrotte schiavitù di barbari invasori. Con gli odori e i sapori della campagna, nelle visioni bucoliche, (Anna Santoliquido: I contadini / della Lucania / profumano / di terra / odorano/ di mosto / diffondono / intorno / la fragranza / del pane / appena sfornato…), ma anche con le realistiche narrazioni, che non ammettono ammiccamenti o reticenze, (Rocco Scotellaro: …Gettano i mantelli neri, / amano il loro mestiere, / uomini sono gli abigeatari, / spiriti pellegrini della notte, / si cibano all’alba…; e dello stesso autore, in versi dedicati alla sua regione: …È tanto imbrunito / che mi sento addosso paura. / Ha ripreso la vita / dei piccoli rumori. / Sono sui tetti le anime / dei morti del vicinato, / camminano sulle zampe dei gatti). Mentre Mario Trufelli rammenta il paese natio: C’è un paese che diventa vivo / quando la luna è alta…/ C’è un paese in alto sulla terra / ha un suo povero cuore nascosto / sta solo a reggersi il cielo / con le sue vecchie case di pietra; e Antonio Rinaldi scrive dell’atmosfera bellissima della sua Potenza: Mormora nella sera / come una voce gelida la brezza / che muove dall’oriente. Bruna / si vela nello sguardo / trepido, fisso; ti trascorre / quasi una luce il petto dove il cuore / dal silenzio invernale / lentamente si sveglia… Liberata / nel celeste è la fronte… // Come un mare, a onde / bagna il vento i capelli, tra le nuove fronde / trema bianca la luna.

(4 - continua)

 

   
   
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