Dicembre 2007

Memorie del passato

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I porti sepolti
Tonino Caputo - Olindo Rea - Francesco Fantini
 
 

 

 

 

 

 

Anche il clima
lavora per
cancellare la
storia:
i monumenti
col passare del tempo rischiano
di diventare
memoria, anch’essi porti sepolti,
se non si corre
ai ripari.

 

Una volta erano, per gli uomini del mare, l’altro capo, il punto d’arrivo dei desideri e delle rotte; invece oggi, «se tu cercassi le città dell’Acaia Erice e Buri, le troveresti sott’acqua». Un giorno vi approdavano tutti i velieri, adesso – semmai – «vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde…». Devono avere comunque un particolare fascino poetico, i porti sepolti: non per nulla Giuseppe Ungaretti dedicò la sua prima raccolta di poesie proprio a «quel nulla / di inesauribile segreto» che lo aveva colpito – sedicenne – mentre seguiva due archeologi alla ricerca dell’approdo ormai sommerso di Alessandria d’Egitto.
Prima di lui, Ovidio ne aveva enumerato diversi come esempio palese di Metamorfosi, mentre – ben più vicino ai nostri giorni – Italo Calvino aveva accolto nel suo elenco di Città invisibili un approdo decaduto di nome Berenice: senza alcun dubbio alludendo al porto omonimo (citato anche da Jorge Luis Borges) che fino all’arrivo dell’Islam e – più tardi – al taglio del Canale di Suez era stato il maggiore scalo egiziano sul Mar Rosso, la celeberrima “Porta del Levante”, il collegamento delle spezie tra l’Oceano Indiano e il Nilo.
C’è tuttavia un sistema più burocratico, freddo, per occuparsi dei «siti di esaurimento delle funzioni portuali» – proprio così ha catalogato il geografo Riccardo Friolo in un numero monografico della Rivista Marittima dedicato, appunto, a “I porti scomparsi” – ed enumerare le 7-cause-7 che possono determinare la morte delle darsene, peraltro in sostanza riducibili a due: decadenza per invecchiamento naturale (è il caso delle basi provvisorie per l’esplorazione polare, o degli scali temporanei su rotte abbandonate, dei capisaldi di flussi demografici ormai conclusi – dal commercio degli schiavi agli imbarchi degli emigranti – e delle stazioni baleniere disertate, degli attracchi abbinati a miniere esaurite, degli impianti industriali desueti), oppure decesso improvviso, esempio l’ictus di un maremoto, uno tsunami, un ingolfamento infartuale – come colesterolo nelle vene – delle sabbie trasportate da un fiume…

Ma, proprio al modo di un corpo, il porto non sparisce nemmeno dopo l’abbandono più definitivo: rimane in qualche modo fantasma, traluce cioè attraverso le onde se è stato sommerso dall’innalzamento delle acque, ovvero continua a rivelare – interrato anche a cospicua distanza dal mare – l’abbraccio dei suoi moli, un tempo protesi a riparo delle onde. In ultima analisi, è uno strano genere di ghost town, di “città sepolta”; e chissà se il suo particolare fascino è dovuto agli scheletri dell’attività frenetica che vi si svolse in passato (non si dice “porto di mare” a vanvera) o invece all’evoluzione brutale che ne ha trasformato l’organismo da anfibio e salmastro a terragno, solido, asciutto.
Gli esempi più classici sono esattamente quelli dei porti interrati: l’eterna meraviglia di chi, visitando Pisa, la sente citare quale “Repubblica marinara” e inutilmente vi cercherebbe un approdo navale – almeno se non si reca, poco discosto da Piazza dei Miracoli, nell’area archeologica del porto etrusco-romano, dove più o meno una decina di anni fa furono rinvenuti venti scafi. È vero: Pisa non fu mai realmente città costiera, e le imbarcazioni la raggiungevano semmai per via fluviale; ma anche il suo è un “porto sepolto”. E ancora più celebre è Ravenna, nel suo sito di Classe (classis era la flotta, in latino) aveva ormeggio la marina militare della Città Eterna per il Mediterraneo orientale: una forza forte di 250 triremi e di diecimila marinai.

Non molti sanno però che la Capitale imperiale ebbe anche un altro scalo, quello commerciale di Spina, posto all’imbocco del fiume Po; esso, di origine greca (fungeva da trait d’union fra Atene e gli Etruschi) conobbe la massima espansione nel VI secolo prima di Cristo, ma l’insabbiamento del delta ne decretò la morte già all’inizio dell’èra volgare; allo stato attuale i suoi resti si trovano a ben cinque chilometri dal mare. Sorte analoga a quella di Mileto, città turca che il fiume Meandro ha progressivamente sospinto lontano dal mare grazie a un tipico fenomeno di interramento, chiamato – appunto – “meandreggio”; e pensare che fin dal XIV secolo prima di Cristo il suo golfo ospitava le navi micenee che prendevano parte alla guerra di Troia, e che i traffici con ben 90 colonie le garantivano una floridezza tale da permetterle di ospitare le più alte scuole scientifiche e filosofiche del tempo.

Malgrado ciò, oggi i suoi due porti sono pianura, identico destino toccato a Velia, nel Cilento, sopra Capo Palinuro: glorioso tra i greci col nome di Elea (vi nacquero Parmenide e Zenone), il duplice scalo ebbe sede sui due versanti di un promontorio presto insabbiato dai corsi d’acqua a carattere torrentizio che vi sfociavano trascinando terra e detriti. Per non parlare di Portus Augusti, il colossale bacino di interscambio marino-fluviale fatto scavare dall’imperatore Claudio alle foci del Tevere e attualmente annegato nella campagna poco fuori Fiumicino. O del Portus Julius, che era stato realizzato nel 37 prima di Cristo durante la guerra civile tra Ottaviano e Sesto Pompeo: lo stratega Marco Vipsanio Agrippa mise su una grandiosa struttura portuale, adibita ad arsenale della flotta di Misero, collegando con un canale navigabile il lago d’Averno, il lago Lucrino e il mare; per effetto del bradisismo discendente, buona parte del porto è oggi sommersa, anche se tra Baia e Pozzuoli si snodano imponenti tracce delle strutture portuali e di alcuni vici suburbani. O di altri siti campani, primo fra tutti Pozzuoli (Puteoli = Piccoli pozzi), emporio della potente Cuma, che con l’arrivo dei fuggiaschi di Samo, 530 anni prima di Cristo, con il nome augurale di Dicearchia (= Giusto governo) divenne l’approdo più importante del Mediterraneo, tanto da essere appellata “Delus minor” o “Litora mundi hospita”.
Le arti del vetro, della ceramica, dei profumi, dei tessili, dei colori e del ferro vi trovarono larga diffusione, per la presenza di maestranze locali educate a tradizioni fenicie, ellenistiche ed egiziane. Attraverso il suo porto, Puteoli assimilò anche i segni di altre civiltà e religioni. Infatti è storicamente accertata la sosta per sette giorni di San Paolo che, nel 61, vi trovò già una comunità di cristiani. La città prosperò fino a quando il porto corrispose alle esigenze del commercio romano, ma subì un duro colpo con l’apertura di quello di Ostia. Con l’accentuazione del bradisismo discendente, che sommerse le strutture portuali, e poi con la caduta di Roma, divenne un piccolo centro di pescatori. O infine Baia, che si affaccia su una splendida insenatura, e il cui nome è legato al leggendario viaggio di Ulisse, che qui seppellì il suo compagno Bajos. Approdo della potente Cuma, fu il luogo flegreo più decantato e più frequentato per le sue delizie ambientali, oltre che per le rinomate sorgenti termali, tanto che Orazio poté esclamare: «Nullus in orbe sinus Bais praelucet amoenis». Per effetto del bradisismo, oggi gran parte della città è sommersa dal mare.

Ha fragile costituzione, un porto. È sufficiente un mutamento – anche positivo, umanamente parlando – dell’ambiente che lo circonda a determinare il suo stato di salute. La costruzione di un ponte, ad esempio, facilita la vita agli automobilisti, però può condannare a morte un approdo fino allora fiorente. Qanà – l’attuale yemenita Bir Alì, citata anche da Ezechiele nella Bibbia e attualmente oggetto di una missione archeologica subacquea – deve la sua decadenza al… Cristianesimo, o meglio, all’imperatore Teodosio, il quale, mettendo al bando il culto degli idoli, inflisse un colpo mortale al commercio dell’incenso che nel golfo di Aden faceva tappa d’obbligo per i rifornimenti.
All’opposto, alla Tortuga – il rifugio caraibico dei filibustieri e dei corsari di una lunga epoca – soltanto i resti dei cannoni ci segnalano quello che fu per settant’anni del XVII secolo un insediamento di almeno diecimila persone. E proprio per repentine evoluzioni di questo tipo Friolo propone di usare gli scali come indicatori ambientali privilegiati: «Negli ambiti geografici confinati (porti, isole, oasi) – scrive – è possibile verificare quanto sia illusorio il modello della crescita illimitata, perché più rapido è il consumo delle risorse e quindi più breve si fa la parabola storico-evolutiva». Non è necessaria nemmeno la distruzione con lo spargimento del sale come accadde a Cartagine, possente approdo punico però definitivamente decaduto con gli arabi; basta il prelievo indiscriminato di acque per l’irrigazione, come è successo a Mujnak, sul lago d’Aral, un tempo prospero attracco per pescherecci e mercantili, e attualmente con i moli a ben quaranta chilometri dalla nuova riva.
Né occorre la forza degli elementi, come l’innalzamento delle acque marine o lo speculare abbassamento della costa, per mettere a rischio aree urbane (come Pozzuoli) o intere zone fino ad allora frequentate da un gran numero di persone, come Capo Lacinio, nel Crotonese, dove una nobile colonna si alza ancora oggi al cospetto del mare, con recenti e incompleti scavi alle spalle, ma con fasce archeologiche di gran rilievo (saccheggiate da gran tempo) proprio sulla costa, sotto un mare calabrese che aveva custodito, fra l’altro i celeberrimi Bronzi di Riace: erano due soltanto, oppure tre, i bronzi? E che fine hanno fatto alcune pupille, le lance, almeno uno scudo, che oggi possiamo soltanto immaginare? E che cos’altro c’era insieme con loro, o attorno a loro, in quella miniera archeologica subacquea che ha dato nuovo e più possente lustro all’arte delle civiltà mediterranee?
E nemmeno occorre la congiunta furia degli elementi che ha praticamente ridotto a zero gli insediamenti provvisori delle esplorazioni artiche, come il “porto di ghiaccio” di Barents (fine del secolo XVI) nella Nuova Zemlja, oppure l’avamposto di Virgohamna, nelle Isole Svalbard, dove – oltre a Hudson, Pike e Nobile – si fermavano i balenieri danesi a cuocere il grasso di cetaceo con cui impastavano persino i mattoni; è bastata la “piccola glaciazione” dei secoli XIII e XIV per indurre all’abbandono di Gardar, in Groenlandia, la diocesi cattolica più settentrionale del Medioevo, nonché centro di commercio marittimo di pellicce e di zanne di tricheco.
Ma con tutta probabilità la parabola più repentina è stata quella di Dyea, approdo della “corsa all’oro” nell’Alaska: da piccola base stagionale dei pescatori, in due anni soltanto, dal 1896 al 1897, si trasformò in una vera e propria boom town da ventottomila abitanti in più al mese, per poi ripiombare nell’abbandono più completo entro il 1906. Un porto morto e sepolto da adolescente.
Il più splendido approdo, tuttavia, appartiene alla città che ospitò una delle sette meraviglie del mondo antico, Alessandria d’Egitto, il centro del sapere del tempo, con la sua fantastica mega-biblioteca, con le strutture urbane di cui si favoleggiava già all’epoca, con il celebre faro che indicava la via, visibile da gran distanza, ai marinai che solcavano le acque di quell’importante scacchiere marino. Sommovimenti della terra, una furibonda rabbia tellurica, i crolli, gli incendi, la strage, il bradisismo selvaggio che ne seguì, con l’affondamento della piattaforma e dei monumenti che vi erano stati eretti, (templi con maestose colonne, centri di studio con i testi dello scibile umano in misura sconosciuta presso qualsiasi altro centro di raccolta di opere del mondo contemporaneo, luoghi della politica, della socialità, delle relazioni umane, uffici pubblici e insediamenti civili…), tutto contribuì a cancellare per secoli una metropoli che soltanto da pochi anni va riemergendo, grazie ad accurate ricerche e a importanti quanto faticosi recuperi di materiali strappati al mare e al silenzio del tempo.
E per il futuro? Esiste un porto predestinato a sparire: Banjul, capitale dello Stato africano del Gambia, sarà sommersa entro mezzo secolo. La città sorge su un’isola, alla foce del fiume Gambia, ed è esposta tanto all’innalzamento delle acque, quanto alla loro erosione: proprio per questo, secondo gli studiosi, è in cima alla classifica delle località condannate. E in questa poco invidiabile graduatoria seguono città “di terra”, come Detroit, (spopolata per la crisi dell’industria dell’auto), e Ivanovo, (città tessile dell’ex Unione Sovietica); oppure Timbuctu, nel Mali, minacciata dalle sabbie. Tra i porti, va segnalata San Francisco, che attende il “big one” che potrebbe sconvolgerla. Ma sono presenti anche due antiche città di mare italiane: Venezia, abbassatasi di 24 centimetri nell’ultimo secolo, e Napoli, su cui incomberebbe un’eruzione del Vesuvio.

Anche il clima lavora per cancellare la storia, cioè i monumenti che col passare del tempo rischiano di diventare memoria, anch’essi “porti sepolti”, se non si corre ai ripari. I marmi del Partenone corrosi dalle piogge acide; le cattedrali gotiche divorate dallo stress termico, al modo di quelle romaniche che costellano da nord a sud l’intera regione pugliese; i templi di Agrigento minacciati dallo sfarinamento delle pietre; le pale ignee d’altare mangiate dalle muffe: non saranno soltanto gli esseri umani e animali a fare le spese degli sbalzi di temperatura, è minacciato il ricordo stesso della nostra cultura. I monumenti che hanno sfidato i millenni, le guerre e le invasioni, rischiano di venire umiliati dalle insidie dei capricci atmosferici. Sono queste le conclusioni cui perviene l’Atlante delle Vulnerabilità, emanazione del progetto “Arca di Noè” finanziato dall’Ue e coordinato dal Cnr. La ricerca comprende le mappe che evidenziano la progressione del rischio lungo tutto il secolo in corso.
Ad esempio, nell’Europa del Nord l’erosione accelererà fino a rubare ai marmi 35 micron (millesimi di millimetro) ogni anno, e la corrosione del ferro, del bronzo e dello zinco utilizzato nei tetti dei monumenti crescerà con il crescere degli inquinanti e della temperatura media annuale, con massimi in corrispondenza dei dieci gradi centigradi. Nel bacino del Mediterraneo l’effetto negativo della radiazione solare aumenterà, coinvolgendo l’Italia, la Spagna, il Portogallo, la Grecia e l’Area balcanica. E nell’intera Europa si intensificherà il fenomeno della “cristallizzazione dei sali”, particolarmente dannoso per i materiali porosi: arenarie e mattoni saranno colpiti da stress meccanici interni, che potranno portare alla loro completa disgregazione. Sebbene la temperatura sia spesso considerata la variabile principale dei cambiamenti climatici, se si considerano i beni culturali prevale il ruolo non soltanto di eventi estremi come precipitazioni intense, alluvioni e tempeste, ma anche di fenomeni meno evidenti e più diffusi che creano danni strutturali nei tetti, nelle guglie, nei pinnacoli, facendo perdere coesione ai materiali. L’acqua, ad esempio, produrrà variazioni di umidità responsabili della crescita di microrganismi, in particolare su materiali lapidei e sul legno, e della formazione di sali che degradano le superfici e accelerano i fenomeni di corrosione.
Nell’arco del XXI secolo, dunque, i monumenti subiranno un duplice assalto. Da una parte, la pressione crescente delle muffe, che raggiungeranno i 30 milligrammi per centimetro quadrato in quattro aree (Alpi, Balcani, Scandinavia e Islanda meridionale); dall’altra, estati sempre più secche porteranno in larga parte del Vecchio Continente a un inaridimento dei suoli che proteggono reperti archeologici ancora non portati alla luce. Già cinque anni fa l’Istituto centrale per il restauro e l’Agenzia protezione ambiente e servizi tecnici avevano lanciato l’allarme, ricordando che la “cura di bellezza” per i monumenti è garantita solo per tre anni. Poi, l’“effetto peeling” svanisce, le particelle nere cominciano di nuovo a creare una patina visibile sulla superficie di chiese e di statue, e per tornare ad apprezzare una facciata barocca o un arco di trionfo imperiale o un gruppo marmoreo è necessaria l’abrasione di altri millimetri di viva pietra, di vivo marmo, incidendo così profondamente sull’equilibrio delle opere d’arte.
È proprio di questi giorni l’allarme per il gruppo del “Ratto delle Sabine”, di Firenze, che dovrà essere nuovamente restaurato, e – speriamo – conservato in museo, lasciando all’aperto solo una copia. Ma altri – e numerosissimi – esempi non mancano. Nel Mar Baltico le rovine della chiesa medioevale polacca di Trzesacz offrono una classica immagine di monumenti antichi distrutti dall’erosione della costa. Per gli studiosi, la Torre di Londra è un ottimo esempio per mostrare i danni da inquinamento sui monumenti. La Torre Eiffel, a sua volta, è l’esempio di un monumento in metallo che rischia per l’aumento delle temperature medie e per lo stesso inquinamento. La Torre de Oro, a Siviglia, costruita dagli arabi nel 1220, è monumento emblematico del biodeterioramento. Una terribile alluvione nel 1997 ha semidistrutto le pitture murali conservate nella polacca Klodzko. Nell’agosto di cinque anni fa Praga, capitale ceca, venne investita da una violentissima alluvione, con gravi danni ai monumenti. La chiesa maltese di Sannat, come altri monumenti realizzati con materiali porosi, è a rischio cristallizzazione. E per tornare a casa nostra: la fiorentina chiesa di Santa Maria in Fiore presenta evidenti danni da inquinamento, mentre nell’agrigentina Valle dei Templi, a Selinunte, a Segesta, a Pesto, a Metaponto, sempre più le radiazioni solari avranno ripercussioni sulle strutture marmoree e calcaree.

 

   
   
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