Dicembre 2007

Il corsivo

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Disperate invasioni
dal mare
Aldo Bello
 
 

 

 

 

 

 

Proliferano anche per questo gli
Ultimi, gli esuli volontari della
fame, gli espulsi
da aree che
potrebbero essere trasformate in
pingui giardini.
Si moltiplicano i poveri e i dannati.

 

La legge che anticipa la disponibilità della cittadinanza italiana per gli immigrati era da tempo materia di accese controversie fra giudizi o pregiudizi favorevoli e contrari. La normativa, nei suoi termini essenziali, prevede la riduzione da dieci a cinque anni di residenza regolarizzata per chiedere il passaporto, come accade in Gran Bretagna o in Francia: gli aspiranti devono dimostrare un’adeguata conoscenza della lingua italiana, e devono prestare un giuramento, mentre ai loro figli la cittadinanza spetterà per nascita sul nostro territorio.
È pensabile che “sentirsi cittadini”, con doveri oltre che con diritti, possa prevenire la formazione di turbolenti ghetti etnici e favorire l’integrazione sociale. Fra le obiezioni avanzate senza pregiudizio contrario alla legge, il quotidiano dei vescovi, “Avvenire”, si è chiesto se «un passaporto fa l’integrazione»; Galli della Loggia ha domandato come ottenere che venga accettata in pieno, insieme con la cittadinanza, anche la nostra Costituzione, dai valori ai princìpi, fino a un “ripudio” esplicito delle precedenti regole di convivenza; la sinistra radicale ha osservato che il concetto di “ripudio” contraddice la Costituzione sul tema della libertà religiosa. Eppure non di questo si tratta, ma soltanto di costumi o di regole del vivere sociale incompatibili con i nostri princìpi e con le nostre norme costituzionali.
Intanto, le cronache dall’Europa continuano a segnalare che dopo gli episodi terroristici e i torbidi sociali in varie aree europee, affiora una crescente cautela rispetto alle speranze riposte nell’integrazionismo. Non per niente Magdi Allam ha ricordato che a Londra gli attentati «sono stati opera di terroristi suicidi con cittadinanza britannica», e che il 40 per cento dei musulmani con la stessa cittadinanza, malgrado quello status, continua a reclamare l’introduzione e l’applicazione letterale della sharia, vale a dire della legge islamica.
Nel nostro Paese ora si discute a volte sull’argomento persino secondo calcoli di proselitismo elettorale. Come potrebbero votare i neo-cittadini, quando avranno ottenuto anche i diritti elettorali? Giovanni Sartori ha pronosticato che «faranno voto di scambio: si daranno al miglior offerente». I musulmani che prenderanno la cittadinanza «prima vorranno l’istruzione separata, poi le moschee».

Sui temi centrali della controversia, numerose voci avvertono che la cittadinanza più facile comporta un parallelo e più efficace controllo dell’immigrazione clandestina, se realmente è praticabile, insieme con la necessità di rinunciare alle frequenti sanatorie, che hanno comunque operato come richiami o inviti. Ma quanto spazio è ancora disponibile, nella società e nell’economia, per altri flussi della manodopera di stampo migratorio? All’inizio di giugno, a Prato, (20 mila immigrati, pari a oltre il 10 per cento della popolazione della città toscana), il sindaco avvertiva in una lettera a un quotidiano: «Non siamo in grado di assorbire ancora eventuali regolarizzazioni». E forse nessuno sa, perché non se ne discute in alcun luogo, che gli africani, e questi soltanto, sono ormai 852 milioni.

Pochi argomenti riescono a scavare, dentro di noi, un solco altrettanto profondo, e altrettanto pochi vengono rielaborati in modo altrettanto estremo, come l’immigrazione. Com’è accaduto negli ultimi tempi, con i provvedimenti governativi che hanno ribaltato le norme varate dal governo precedente, con gli scontri fra immigrati in un quartiere degradato di Padova e con la decisione di crearvi un “muro”, dalle operazioni dei servizi britannici che hanno arrestato oltre venti musulmani accusandoli di terrorismo: islamici, ma di nazionalità britannica. Oltre che con l’arresto di altri islamici, con la retata in Italia in ambienti anch’essi islamici.
Fatti molto diversi, ma che racchiudono – come ha scritto di recente Ilvo Diamanti – una sorta di “bipolarismo ideologico” che tende a far convergere tutto: immigrazione, terrorismo, Islam, ordine pubblico... Il mondo e la verità sembrano essere divisi in due: il rigore da una parte, la solidarietà dall’altra (a sinistra, con il concorso del mondo cattolico); la sicurezza di qua, l’integrazione di là; la distanza e l’autodifesa a destra, il multiculturalismo a sinistra. Mentre è divenuto evidente, negli ultimi anni, che neppure il multiculturalismo garantisce l’integrazione.

Si pensi al Regno Unito dove, dopo gli ultimi arresti, in seguito al sanguinoso attentato di oltre un anno fa, ci si interroga proprio sul “modello multiculturale”, sul quale gli inglesi continuano a investire con molta convinzione e con impegno forse maggiore di prima. E oggi fanno fatica a capire. Perché sono coinvolti giovani cresciuti in un contesto aperto, tollerante (parola che Diamanti trova «orrenda», essendo «etnocentrica»), democratico, multiculturale – appunto – che riconosce legittimità e garantisce rappresentanza alle differenti etnie e religioni? Perché questi giovani scelgono di aderire a visioni integraliste e fanatiche, fino al punto di combattere con violenza contro il loro stesso Paese, aprendo un conflitto irriducibile fra identità religiosa e cittadinanza?
In ogni caso, anche altre ricette, considerate più o meno miracolose, una volta sperimentate più a fondo sembrano in difficoltà. Si pensi alla Francia, la terra che più di ogni altra nega il modello multiculturale, in nome della centralità e della laicità dello Stato, dove tutti sono francesi se accettano le norme e i valori della Repubblica. E si pensi a Parigi, dove la rivolta delle “banlieues” ha messo in luce come le comunità etniche, negate per diritto, si sono formate e riprodotte di fatto sul territorio, e dove, nonostante l’attenzione all’integrazione e alla socializzazione delle periferie, e nonostante il diritto di voto e di cittadinanza concesso a tutti, la protesta è esplosa con violenza inaudita, per settimane, senza specifici ed evidenti motivi, se non l’incapacità del “modello francese” di integrare.
Il fatto è che non ci sono soluzioni sicure e durature per affrontare le grandi migrazioni dei nostri tempi. E l’ideologia che oppone le ragioni della sicurezza a quelle dell’accoglienza, il rigore alla solidarietà, non serve. Il multiculturalismo che permea il linguaggio e le azioni di una parte politica rischia di giustificare e di accentuare le divisioni della nostra società, invece di ridurle, e di moltiplicare i conflitti fra gruppi, invece di superarli, senza che la teoria del “securitismo” approdi a sponde diverse.
Con questa amara constatazione: data l’impossibilità di controllare tutte le coste e i confini; data l’inadeguatezza delle quote degli ingressi stabilite rispetto alle richieste del mercato del lavoro; data l’impossibilità di frenare le masse crescenti di persone in fuga dalla fame, dalla miseria, dalle malattie e dalla guerra; dato tutto questo, gli stranieri hanno continuato e continuano ad arrivare in misura massiccia nel nostro Paese, e a restarvi, in massima parte da lavoratori irregolari, riserva abbondante per il lavoro nero, richiesto da alcuni settori del sistema produttivo; oppure da clandestini, bacino magmatico cui attingono le attività criminali, diffuse sul territorio. In questo modo, alla durezza ideologica si è sommata la bassa capacità di controllare realmente il fenomeno.
Per integrare, occorre disporre di uno specifico modello di cittadinanza che preveda diritti ma anche norme da osservare, un modello in base al quale realizzare politiche sociali, formative e urbane, perché se consentiamo che nelle città e nelle metropoli, nei medesimi punti, confluiscano e si concentrino grandi flussi di stranieri, spesso clandestini o irregolari, per lo più di identica provenienza, possiamo dichiararci certo multiculturali o securitari, ma ci scontreremo comunque con le stesse difficoltà incontrate nel ghetto padovano.
Solo che da noi questo modello non c’è. Le politiche urbane, più delle amministrazioni, le improntano gli immobiliaristi. Quelle del lavoro, facendo di necessità virtù, le praticano gli imprenditori. Mentre quelle educative sono, da anni, al centro di riforme e apparenti rivoluzioni, che in realtà procedono per prove e per errori, un taglio qui e un rammendo più in là, umiliando gli insegnanti, e deprimendo la scuola pubblica senza qualificare quella privata.
In conclusione, e in sintesi: le polemiche portate avanti da opposte sponde rivelano le nostre ataviche debolezze, la fragilità della nostra identità nazionale (tricolori al vento soltanto in occasione di partite di calcio, e solo se vinciamo!), la fragilità delle nostre istituzioni, la fragilità della nostra politica; e la nostra incapacità di progettare e di definire un modello. È confermata, specularmente, la nostra vocazione all’arte di arrangiarci, perché «di fronte alle regole, al civismo, allo Stato, troppo spesso noi – anche noi – ci sentiamo stranieri. E immigrati. Clandestini».

Le difficoltà della cultura tradizionale degli italiani ad aggiustare le lenti con le quali guardano alla società contemporanea determinano una specie di effetto boomerang: il modo in cui essa cerca di tutelare soggetti de-privilegiati rischia di essere controproducente proprio dal punto di vista di un impegno efficace per ridurre le disuguaglianze e per rafforzare la coesione sociale.
Prendiamo il caso dei lavavetri. L’adeguatezza dell’ordinanza fiorentina sotto il profilo giuridico può essere forse anche discutibile, ma le critiche si sono soffermate soprattutto sulle finalità del provvedimento. Lo stesso presidente della Camera ha voluto sottolineare che sarebbe stato meglio partire dal racket, piuttosto che da coloro che stazionano nelle vicinanze dei semafori di tutta Italia. E il ministro della Solidarietà sociale ha parlato di «ingiustizia». Così anche esponenti del mondo cattolico, i quali hanno ribadito che le misure più efficaci sono quelle volte all’integrazione; concetto ribadito da don Vittorio Nozza, presidente della Caritas, il quale ha messo in guardia dall’affidarsi solo ad azioni di legalità.

Insomma, per un vasto fronte culturale le condizioni di forte disagio dei lavavetri immigrati (o degli ambulanti abusivi che spesso e volentieri vendono merci contraffatte, occupando anche aree di alto valore artistico o religioso) devono giustificare il fatto che le istituzioni chiudano gli occhi. Viene in questo modo legittimata una sorta di relativismo legale, in nome del quale chi compie un’azione finisce per contare più della legalità dell’azione stessa.
Dalla parte opposta, per giustificare l’intervento, si è insistito sul ruolo del racket nell’organizzare il lavoro dei lavavetri (e degli ambulanti). Ma questa giustificazione è debole, perché lascia intendere che, se non ci fosse il racket, il fenomeno si potrebbe tollerare. Il punto essenziale è invece che il relativismo legale mina la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e accresce la percezione dell’insicurezza. Eccoci dunque all’effetto boomerang: la tolleranza verso determinati comportamenti – non soltanto i lavavetri violenti, i venditori abusivi, i tossicodipendenti, gli spacciatori per strada, i nomadi, ma anche la prostituzione, le risse tra bande di ubriachi, le occupazioni abusive di locali – accresce il senso del degrado urbano e l’insicurezza. Siamo tra i Paesi in cui la paura di essere oggetto di un’azione criminosa è già ai livelli più alti (riguarda oltre il 30 per cento della popolazione, il doppio dei Paesi scandinavi; ma è molto cresciuta nelle regioni del Nord e del Centro, dove raggiunge spesso picchi ben più alti).

La conseguenza è duplice. Intanto, l’insicurezza porta chi può permetterselo a lasciare le zone più colpite. Chi resta – spesso si tratta dei più anziani – si rinchiude e si isola sempre di più. Si rompono così le reti sociali che esercitano un controllo sui comportamenti devianti. Alla fine, l’insediamento della criminalità è favorito e tende a crescere. Si voleva più solidarietà, si ottiene più criminalità.
Ma c’è una seconda conseguenza. La crescita dell’insicurezza aumenta la diffidenza nei confronti degli immigrati in generale, fino ad alimentare fenomeni di vero e proprio razzismo. Le ricerche mostrano che reazioni di paura sono particolarmente diffuse fra gli strati sociali medio-bassi, bacino di consenso tradizionale del progressismo italiano. È evidente che questo rende sempre più difficili azioni volte ad accrescere l’integrazione sociale degli immigrati e la coesione. Esattamente l’opposto dell’obiettivo sbandierato da chi antepone la solidarietà alla legalità, dimenticando di chiedere rigore nei confronti della cosiddetta microcriminalità: è appena il caso di ricordare agli smemorati, pronti quant’altri mai alle dotte citazioni, che Beccaria sosteneva che essa andava perseguita allo stesso modo della maggiore delinquenza. Non fare rispettare la legalità di fatto mina la possibilità di una solidarietà e di un’integrazione efficaci.
Si potrebbero fare altri esempi di effetti boomerang legati a una cultura obsoleta: non soltanto la tolleranza verso l’immigrazione irregolare, ma anche – in tema di lavoro – l’identificazione di flessibilità e precariato, o l’idea dell’orario ridotto e della tassazione degli straordinari come strumenti per accrescere l’occupazione, o la strenua difesa di pensionati cinquantenni...
Che cos’hanno in comune questi esempi? L’idea di matrice ottocentesca che la difesa di soggetti sociali disagiati debba prevalere rispetto al funzionamento imparziale e impersonale delle istituzioni, o rispetto a considerazioni più generali sulle conseguenze di determinate azioni per l’interesse collettivo. In fondo, è l’idea, presente nell’ambito delle sub-culture marxiane e catto-marxiane che hanno segnato la storia del Paese, che la difesa immediata dei più deboli – degli “Ultimi”, secondo il linguaggio cattolico, ora ripreso anche dal Presidente della Camera – sia automaticamente generatrice anche di vantaggi collettivi, indipendentemente dalle forme che assume. E pertanto la politica deve continuare a prevalere sulle istituzioni.
Nella società contemporanea questa visione ideologica – che in fondo diffida delle argomentazioni empiricamente fondate – rischia di creare sempre più effetti perversi e di essere controproducente rispetto agli obiettivi stessi di riduzione delle disuguaglianze che si vorrebbero perseguire. Non è l’accettazione del “dispotismo della realtà” a rendere difficile la strada di una parte della politica italiana, ma il dispotismo dell’ideologia con cui una parte di essa si ostina a leggere la realtà.

Chi – persino nel nome del cattolicesimo, soprattutto quello che va dai “secoli bui” alle soglie “liberatorie” dell’Illuminismo – sostiene che l’accanimento sugli Ultimi e sui poveri ha qualcosa di sospetto, nel senso che è un velo che copre ben altre indecenze e più inquietanti e scandalose latitanze dello Stato, evidentemente è legato a dottrine che l’evoluzione storica planetaria ha messo in liquidazione, per la prima volta senza spargimenti di sangue, senza contro-rivoluzioni armate e, in ultima analisi, senza possibilità di ritorni. Citare il passato, piegandolo alle proprie sconsolate nostalgie, non fosse altro che per una sorta di chiamata di complicità etiche e politiche da dispiegare nell’azione governativa attuale, è sicuramente gioco strumentale al limite del disprezzo della ragion critica altrui. Così è nel richiamo della questione della povertà e del nomadismo nella storia d’Europa, vale a dire la storia di come nacque la questione sociale e di come la carità medievale avrebbe finito col degradare, producendo nello stesso tempo la secolarizzata assistenza pubblica ma anche la grande esclusione e la pratica di punire-bandire i poveri senza lavoro: i poveri «un tempo santificati e poi criminalizzati», che in alcune disposizioni medievali venivano chiamati “inutili al mondo” e che nel Seicento inglese vennero soprannominati “deserving poors”, cioè “poveri che lo meritano”. Ed eccolo, il colpo basso: «Anche questa degenerazione è parte delle radici d’Europa, e specialmente delle sue radici cristiane», narrate per esempio dallo storico Bronislaw Geremek, ex dissidente e poi ministro degli Esteri polacco, oltre che da studiosi della questione sociale, come Robert Castel.
Seguiamo il filo quintessenziale del discorso portato avanti dagli appassionati sostenitori delle visioni doppie nella realtà trascorsa. Essi affermano: è tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento che il povero senza lavoro diventa figura equivoca, impaurente. Lo si vuole assistere e al tempo stesso allontanare, recludere. L’esclusione degli Ultimi (soprannumerari, Inutili al Mondo) conosce il punto massimo nel momento in cui la civiltà sembra più raffinarsi: nel Rinascimento, quando si cominciano a sognare utopie di società e città ideali. I massacri di San Bartolomeo, che uccisero duemila protestanti a Parigi e diecimila in Francia, hanno sullo sfondo l’utopia cinquecentesca di una società perfetta, armoniosa, fondata sull’amore e sulla fede indivisa.
E questo sarebbe stato non tanto uno stereotipo – in ogni caso tipico dell’anticattolicesimo di ogni tempo – quanto addirittura l’itinerario dell’Europa, «il suo sprofondare e il suo risollevarsi»: l’illusione di poter allontanare dagli occhi il povero, bandendolo. Perché sarebbe stato proprio così, bandendo gli Ultimi, che nell’Ottocento e nel Novecento è nata – ma necessariamente sotto il segno della violenza rivoluzionaria – la Questione Sociale. Allora: l’esclusione degli ultimi non nasce oggi, risale al Medioevo, e diventa persino organizzazione carceraria per via di grandi crisi, come quella determinata dalla peste ai primi del Cinquecento: più che mai in quell’occasione nasce la figura del povero, simultaneamente assistito e colpevole, comunque senza tetto, o, come si diceva all’epoca, «dimorante dappertutto».

E quali scopi avrebbe avuto l’emarginazione-reclusione? Molti. Uno religioso, in particolare a partire dalla Controriforma: è una guerra santa contro i pericoli del tempo che erano il vagabondaggio e la mendicità, considerati «disordine dei poveri». Gli ospizi del Cinque-Seicento (Pitié Salpêtrière, Bicêtre, Compagnia del Santissimo Sacramento nella capitale francese) intendono fare ordine. Ha uno scopo politico incoraggiato dalla Chiesa: il povero è classe pericolosa, va segregato o, nella migliore delle ipotesi, raddrizzato. E ha scopi “igienici”. Quando gli attuali fautori della mano dura usano la parola “decoro”, riecheggiano i miti neoplatonici dell’armonia perfetta, che resuscitano inconsapevolmente. Decoro non è soltanto ordine, ha una sua connotazione estetica, coniuga il bello a vedersi e il bello morale, l’aspetto e il comportamento.
Ma solo questo fa parte delle “radici cristiane” dell’Europa? E le lotte del Cristianesimo perché gli Ultimi non fossero trattati come criminali e la povertà non apparisse delittuosa, tanto per far capo a qualche Libro che risale a un paio di migliaia di anni fa, e che non si chiama “Capitale” né “Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni”, ma “Vangelo”, o che non è stato scritto da uno storico intriso di partigianeria luterana o atea o politeista? E la resistenza nata dentro lo stesso universo cattolico, già nel ‘500, con Filippo Neri che difendeva gli zingari persino in opposizione a Pio V, (papa Ghisleri, che avrebbe voluto bandirli da Roma non in quanto zingari, ma in quanto empi); e con Vincenzo de’ Paoli, che si ribellò agli ospizi-prigioni; così come dentro l’universo secolarizzato, con le sommosse di artigiani e di operai, e nell’800 con l’idea socialista? E le reti di dormitori, spedali, rifugi, conventi che accoglievano tutti, ma soprattutto i poveri, non soltanto lungo le vie che portavano ai pellegrinaggi a Roma o a Gerusalemme, o a Monte Sant’Angelo, ma anche al Monte Tauro, ad Oropa, al Sacro Monte di Varallo, persino a Santa Maria di Leuca, che apertamente contraddicevano il filone escludente e razzista insito nella stessa ideologia illuminista (proprio Voltaire insegni)? Chi può negare che la religione sia stata protagonista, in tutto questo, nel bene assai più che nel male? Ma ammetterlo, per certi comunicatori ingaggiati, evidentemente significa concedere nervose ammissioni.

E vuol dire, prima d’ogni altra cosa, negare che i poveri non li ha creati la religione, perché per la maggior parte li hanno messi al mondo la politica e la politica economica, la storia complessa dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il feudalesimo di classi dominanti con privilegi persino eslege giunti fin quasi alle soglie del “secolo breve”, il tragico XX secolo, nato con una guerra di sterminio e tramontato con il crollo dell’ultimo arcaico impero.

Il nostro Paese è al centro di un mare assediato da centinaia di milioni di poveri, governati, in non pochi casi, da cieche teocrazie o da ciniche organizzazioni familistiche che hanno in pugno le più cospicue risorse energetiche del pianeta, e che pertanto non hanno alcun interesse a far scalare di un solo gradino sociale le popolazioni che dominano, tenendole in bilico fra indigenza e nazionalismo, fra ignoranza e fanatismo.
È facilmente immaginabile, dunque, che nei prossimi anni, e forse anche nei prossimi decenni, nuove e crescenti ondate di diseredati percorreranno le rotte del Mediterraneo, dirette a Nord, in parte verso la Grecia e la Spagna, in più gran parte verso l’Italia, fermandosi o irradiandosi in una fase successiva verso i Paesi dell’Europa comunitaria. È persino ovvio riconoscere che ci si troverà al cospetto di un fenomeno di amplissima portata, di migrazioni epocali, con mutazioni storiche difficili da governare. Ma non per questo si potrà eludere il problema, trincerandosi dietro buonismi di maniera, oppure rifugiandosi nei sogni di utopie egualitarie.
È bene prendere chiaramente coscienza del fatto che intolleranza e paura sono un binomio micidiale che è in grado di creare cortocircuiti che vanno invece prevenuti. Ciò significa che le istituzioni – tutte le istituzioni – non possono latitare di fronte al rischio che i cittadini siano spinti a coltivare in buona fede o per disperazione la micidiale illusione che la soluzione sia quella – draconiana – di “purificare” questa sfera da tutti i “corpi estranei”: perché a questo punto è facile stabilire dove si comincia, ma impossibile capire dove si andrà a finire.
(Teocrati e capitribù familisti, possessori di quantità inimmaginabili di petrodollari, al modo dei nostri ipocriti predicatori dell’ideologia anti-occidentale, sanno benissimo che fino a tutto il XV secolo si moriva in massa per epidemie o per carestie. Dopo la scoperta dell’odiatissima America, che ha dato all’umanità trentasei tipi diversi e tutti evoluti di patate, il mais, i fagioli, il pomodoro e quant’altro, si moriva sempre meno per carestie, grazie alla coltivazione su scala crescente di questi prodotti nei campi del resto del mondo. Dunque: ci sono immensi territori che non sono sfruttati per le produzioni agricole, soprattutto in Africa e nel Vicino e Medio Oriente, dove si lascia avanzare il deserto, perché la ricchezza – per pochi – è sottoterra, ed è una ricchezza che garantisce – sempre per quei pochi – dominio e potenza. Proliferano anche per questo, o soprattutto per questo, gli Ultimi, gli esuli volontari della fame, gli espulsi da aree che potrebbero essere trasformate in pingui giardini. Si moltiplicano a velocità esponenziale i poveri e i dannati, perché ben altre forze, politiche, economiche, e religiose, ma che più nulla hanno a che fare con il Cristianesimo, manovrano le chiavi della depressione sociale, del controllo dei mezzi di produzione, (compreso un latente luddismo), dei poteri indistinti, della giustizia sommaria nel nome di leggi che non sono state sfiorate dalla Ragione, e via dicendo).
Nascono da tutto questo, e da altro ancora, diffidenza, paura, richiesta di pugno duro, limitazioni drastiche a presenze extracomunitarie. Non è lo Stato burocratico e oppressivo quello che invocano gli abitanti del Nord Italia, ma quello che sa manifestare con chiarezza il vantaggio tra i costi e i benefici della sua presenza. E non è quello clientelare, formato dall’intreccio tra assistenzialismo e mafiosità, quello che reclamano le nuove generazioni del Sud Italia. Presenza dello Stato vuol dire dimostrazione che gli appartiene il monopolio della forza e dell’autorevolezza per le garanzie di democrazia, di libertà, di sicurezza per tutti i cittadini, tanto nelle strade delle città settentrionali, quanto nel tessuto economico e sociale delle città meridionali. Senza che questo significhi pretesto per dilaganti occupazioni del potere pubblico in tutti i settori della nostra vita civile. Perché il Paese sbanda quando lo Stato è assente, ma soffoca quando è eccessivamente presente.

 

   
   
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