Dicembre 2007

C’era una volta

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Noi suonavamo
le nostre campane
Enzo Bianchi
Priore di Bose
 
 

 

 

 

 

 

 

Il parroco con il volto duro, le vesti scosse dal vento, incurante della pioggia, affrontava a viso scoperto
il demone della “tempesta”.

 

Per alcuni è un’autentica ossessione. Sì, ci si tiene costantemente aggiornati sul “meteo”, se ne parla molto: la capacità – sconosciuta nei secoli passati – di prevedere il tempo con un anticipo di almeno una settimana spinge infatti a “sapere”, a commentare, a discutere, anche se poi assai raramente ci si lascia determinare dal tempo nelle scelte e nei comportamenti.
Ma all’interno di questa “ossessione” c’è un altro aspetto che riguarda la lettura che ognuno di noi compie del “tempo che fa”: questa dipende essenzialmente da quanto ci dicono i mass media, verso i quali c’è un atteggiamento di fiducia quasi fideistica che toglie la possibile oggettività, il discernimento personale, la capacità di giudicare da se stessi a partire dall’esperienza e dal ricordo degli anni precedenti. Così, quando sta piovendo e noi leggiamo, ascoltiamo e vediamo servizi su piogge torrenziali, alluvioni, inondazioni e diluvi, siamo presi da paura e sgomento, come se la pioggia in sé fosse una novità imprevedibile; oppure la pioggia tarda a venire e subito ci vien fatto intravedere il deserto che avanza.

In realtà siccità, pioggia, inondazioni, tempeste sono emergenze periodiche di tutte le epoche e di tutti i luoghi: emergenze che cancelliamo dalla nostra memoria e che così ci appaiono ogni volta come novità inedite. Se le variazioni climatiche avvengono dunque su cicli più ampi che il semplice volgere di un paio di generazioni, è il rapporto che oggi si ha con “il tempo che fa” a essere cambiato rispetto a quello che viveva anche solo la mia generazione fino a quarant’anni fa, soprattutto in campagna.
Per me, che abitavo in Monferrato, tra colline coperte di filari di vite e piccole pianure chiazzate da campi di grano, il tempo meteorologico era anche allora, soprattutto d’estate, una vera ossessione: ma ossessione di paura preventiva che accompagnava tutti, da maggio fino a ottobre. Dal tempo dipendeva il “pane”, ovvero la sussistenza alimentare della gente contadina, e del tempo la radio dava sì qualche previsione, ma molto incerta, per vaste aree, sovente fallace, per cui non ci si fidava di quel che diceva.
Ma di cosa ci si fidava, allora? Della religione, del prete, della preghiera… Del resto sappiamo che in tutte le culture si sono sempre praticati riti per implorare la pioggia, per chiedere il sole, per ottenere il regolare e pacifico scorrere dei fiumi...
A fine aprile, per San Marco, iniziavano le cosiddette “rogazioni”: al mattino presto si partiva in processione attraverso le campagne, cantando le lunghe litanie dei Santi e chiedendo un’annata feconda di frutti. Il prete cantava in latino il Vangelo sulla porta della chiesa: «Quale padre, tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un uovo gli darà uno scorpione?».

«Dunque, occorre chiedere – proseguiva il prete – chiedere con insistenza a Dio, e Dio concederà il tempo propizio e raccolti abbondanti...». Se poi qualcuno gli faceva osservare di aver chiesto e di non essere stato esaudito, il prete rispondeva che questo dipendeva dal fatto di aver chiesto male, oppure dall’essersi comportato in modo tale da meritarsi il mancato esaudimento. E ai più sembrava che le parole del prete fossero fondate perché a volte succedeva – e non si mancava di farlo notare – che la grandine colpisse i filari di quelli che «non prendevano messa» o che erano soliti bestemmiare... allora si temeva ancor di più quel Dio che «castigando guariva» (castigando sanas).
L’angoscia per un evento atmosferico che in pochi minuti poteva distruggere un anno di lavoro era motrice di parole e azioni straordinarie che oggi fatichiamo non solo a credere ma perfino a immaginare. Quando, da maggio in poi, appariva all’orizzonte lo “scuro”, cioè le avvisaglie di un temporale, tutti uscivano di casa e stavano sull’uscio a osservare il cielo: se la minaccia veniva da Nizza, si annunciava un temporale particolarmente cattivo, se invece saliva da Acqui era meno pericoloso. E mentre la banderuola sull’asta della croce della chiesa cigolava sotto i colpi del vento, quando ormai il temporale era incombente e apparivano le terribili nubi più basse color caffelatte, nuvole piene di grandine, il parroco chiamava il chierichetto – quasi sempre ero io, perché abitavo proprio di fronte alla parrocchiale ed ero già sulla soglia di casa a scrutare a mia volta il cielo –, si vestiva con i paramenti liturgici, in particolare il piviale viola, e partiva risoluto incontro al temporale, con me accanto che portavo il secchiello dell’acqua santa. Tra tuoni e lampi che scuotevano la terra, il parroco avanzava deciso fendendo l’aria con l’aspersorio e con voce ferma implorava che Dio fermasse la grandine: «Per Deum verum, per Deum vivum…!». Rivedo ancora oggi quelle immagini: il parroco con il volto duro, carico delle ansie e delle attese di tutti i suoi parrocchiani, le vesti scosse dal vento, incurante della pioggia che cominciava a cadere, affrontava a viso scoperto il demone della “tempesta”.

Io ero impressionato dalla sua fede, la sua convinzione, la sua forza d’animo... mentre la perpetua contribuiva con scongiuri più “popolari”, come il bruciare rami di ulivo benedetti. E così, il più delle volte, la grandine era scongiurata: il mio parroco, don Montrucchio, aveva fama nella zona di essere uno dei preti più efficaci in queste suppliche e io attribuivo questo potere alla sua preghiera intensa, alla ricca umanità, al sapersi fare carico morale e materiale dei cristiani a lui affidati. Mi appariva davvero come un amico di Dio, e allora, mi dicevo, come potrebbe un amico negare un favore all’amico?
E come dimenticare le orationes diversae che tutti, grandi e piccoli, conoscevano a memoria? C’era quella per ottenere la pioggia, che invocava Dio in quo vivimus, movemur et sumus per ottenere contro la siccità una pluviam congruentem; quella per il sereno, che chiedeva sole sul mondo e osava dire che se il Signore faceva cessare le piogge torrenziali ci avrebbe mostrato il sorriso del suo volto (hilaritatem vultus tui); poi quella contro la tempesta, la grandine, il nemico terribile dei campi di grano maturo e delle vigne: se si abbatte sui filari li spoglia completamente, lasciando uno spettacolo di tremenda desolazione che provoca pianto e disperazione. A quei tempi non esistevano assicurazioni contro queste calamità, né razzi antigrandine, né reti di protezione: nella mia infanzia del dopoguerra, la grandine sui grappoli pronti per la vendemmia significava letteralmente fame. Solo il parroco e il suono di tutte le campane avevano qualche potere contro quella calamità.

Sì, fino all’inizio di ottobre, quando finiva la vendemmia, interi paesi vivevano così, con quell’ansioso interesse per il “tempo che fa”, tanto diverso dalla curiosità un po’ frivola dei nostri giorni. Ieri era Dio colui in cui si aveva fede e fiducia, oggi sembra essere la meteorologia… Cos’è meglio, più umano e più bello? Da parte mia, su questo non ho dubbi.

 

   
   
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