Dicembre 2007

Il nuovo pensiero unico del post marxismo

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L’ideologia ambientalista
Domenico Quintavalle  
 
 

Dell’ideologia c’è anche tutta la
tracotanza, in
questa convinzione che le sorti della Terra siano
pienamente nelle mani dell’uomo.

 

Accade da parecchi mesi a questa parte che l’Eni, il principale produttore italiano di energia, ci martelli con i suoi suggerimenti per “consumare meglio, guadagnarci tutti”: microscopiche cose, dall’uso di lampadine a basso consumo al controllo della pressione degli pneumatici, che, messe insieme – assicura l’azienda pubblica – consentirebbero a ogni famiglia di risparmiare più di 1.500 euro, un terzo delle spese energetiche annuali. Il che significa il taglio di un terzo degli incassi dell’Eni, che sentitamente ringrazierebbe!
Evidentemente, c’è qualcosa che non funziona, non nella intelligente strategia pubblicitaria dell’Eni, mirata a promuovere di sé un’immagine positiva nell’opinione pubblica, ma proprio nell’opinione pubblica. Ha un nome, quel processo che sostituisce la realtà con una sua rappresentazione magari non vera, o non del tutto vera, ma che pretende di esserlo: ideologia. Uno schema, per forza di cose semplificato, che abbraccia tutto il reale e lo spiega in termini di Bene e Male, di Buoni e Cattivi, e che tritura ogni “dettaglio” che non si accordi alla sua descrizione. Oggi, nella cosiddetta era della fine delle ideologie, la nuova ideologia si chiama ambientalismo. La-lotta-contro-il-riscaldamento-globale è la panacea post-moderna che racchiude in sé tutte le risposte, in tutto e per tutto erede della defunta lotta di classe. Diritti umani, fame nel mondo, lotta all’Aids? Questioni secondarie, delle quali ormai quasi non si parla più, o si balbetta soltanto: bazzecole di fronte alla grande battaglia contro i gas serra.
Una carrellata sui titoli di giornali e telegiornali lo conferma: non passa giorno che non si registri un nuovo segnale d’allarme climatico, dall’acquazzone in Val Brembana alla morìa di foche in Terra del Fuoco.
Che negli ultimi decenni la temperatura media della Terra sia cresciuta è un fatto. Così come è un fatto che siano cresciute anche le emissioni umane di anidride carbonica. A non essere un fatto, ma un’ipotesi, è la correlazione tra i due fattori. L’unica coincidenza evidente è quella temporale, ma solo ed esclusivamente se limitiamo lo sguardo agli ultimissimi decenni. Tra il 1940 e il 1975, invece, le cosiddette “emissioni serra” sono cresciute a ritmo accelerato, mentre le temperature terrestri hanno registrato un lieve raffreddamento. Dettagli, secondo la vulgata dominante che, come ogni ideologia, spaccia il proprio punto di vista per “Verità”, di cui non si può né si deve dubitare, verità “scientifica”, come si è soliti dire in questi nostri tempi. Coloro i quali contestano questa “Verità” – e tra questi ci sono pure studiosi di rango come Richard Lindzen, docente di Meteorologia al Mit – non sarebbero che squallidi negazionisti, ciechi volontari, prezzolati al soldo delle multinazionali dell’energia.

Nocciolo della questione non è quindi il riscaldamento globale in sé, dato acclarato anche se in una misura decisamente più modesta di quanto gli indefessi allarmisti lascino intendere, (da fine Ottocento ad oggi, l’aumento è stato di poco più di mezzo grado), ma la responsabilità umana in tutto questo. Il grande imputato è l’anidride carbonica, ma anche qui c’è qualcosa che non funziona. Il Grande Nemico è soltanto uno tra i tanti gas che generano l’effetto serra – il quale, giova ricordarlo, è indispensabile per garantire alla Terra le condizioni necessarie per la vita, umana e non –; nettamente più rilevante, in questo processo, è il vapore acqueo. Con il quale però l’uomo c’entra poco o nulla: ecco un primo indizio del perché l’attenzione si concentra tutta sull’anidride carbonica. L’ideologia ambientalista mette tra parentesi tutti i fattori climatici che non sono riconducibili all’uomo – un altro, e fondamentale, è il variabile influsso del sole – e addita all’opinione pubblica l’unico che in qualche modo dipende da noi.

Anche ristretto il campo all’anidride carbonica, qualche cosa continua a non tornare. Quello derivante dalle attività umane è appena il tre-quattro per cento del carbonio dell’atmosfera, sette miliardi di tonnellate annue, a fronte delle duecento rilasciate naturalmente dalle foreste e dagli oceani. Ora, il buon senso – il grande e sempre deriso avversario di tutte le ideologie – non può che suggerire la domanda: – Siamo sicuri che questa piccola frazione di una piccola frazione dei fattori serra, quella riconducibile all’uomo, sia proprio quella decisiva per il riscaldamento globale? –. Eppure, è su questo campo che le truppe corazzate dell’ambientalismo, politico e mediatico, schierano tutta la loro potenza di fuoco. Ridurre le emissioni di anidride carbonica, tagliare i consumi di energia, abbandonare i combustibili fossili: tutto questo fa parte dell’aurea ricetta che salverà il mondo da catastrofe certa.
Ora, che sia opportuno ridurre la fame di energia del mondo contemporaneo, specie di quella non rinnovabile, non è una fola dell’ideologia ambientalista. A suggerircelo, però, sono altre e più prosaiche considerazioni, come l’evidente insostenibilità sul medio termine di un sistema energetico basato su petrolio e altri idrocarburi in inevitabile via di esaurimento. A spingerci a contenere la nostra fame di elettricità finora sperperata senza alcun pudore, potrebbero essere anche considerazioni etiche di alto profilo. La bassezza dell’ideologia, però, consiste nello spacciare questo dovere, “ecologico” nel vero senso della parola, per Demiurgo. Che, a ben guardare, ben si sposa con quell’altro presupposto ideologico, pienamente accolto dall’ambientalismo, che vede nell’uomo il cancro del pianeta. Lasciamo perdere il Signore del creato di biblica memoria; già solo considerare l’uomo come un animale tra i tanti è troppo, per i Robespierre in divisa verde. No, gli uomini e le loro attività sono Male, e meno ce ne sono, meglio è.
Il politologo Giovanni Sartori, curiosamente spalleggiato dal poeta Guido Ceronetti, ha colto al balzo l’occasione per gemellare la crociata ambientalista al suo vecchio – e zoppo – cavallo di battaglia: la “bomba demografica”. Sartori a parte, non è un caso che l’ambientalismo abbia fatto breccia prevalentemente tra le sinistre, ormai orfane dei panni caldi del marxismo. Il nemico della lotta-contro-il-riscaldamento-globale è sempre il bieco capitalismo delle multinazionali, ancora una volta spalleggiato dall’America, e da questa soltanto. Anche l’obiettivo finale ricorda quello comunista, quel “mondo migliore” – in senso rigorosamente materiale – dove tutti saranno felici. Così i toni da crociata, l’ossequio ai “testi sacri” (con i Rapporti del Comitato Intergovernativo sul mutamento climatico fresco di Nobel, al posto de Il Capitale), il mito della “rivoluzione” verde anziché rossa, l’inflessibile certezza che il Male sia uno e uno soltanto, e la cura altrettanto semplice e unitaria. E in nostro potere: dell’ideologia c’è anche tutta la tracotanza, in questa convinzione che le sorti della Terra siano pienamente nelle mani dell’uomo.

«La sinistra del XXI secolo sarà ecologista o non sarà», annunciavano qualche mese fa su Le Monde i verdi francesi François de Rugy ed Emmanuel Schor. Un dogma già passato alle vie di fatto da un bel pezzo, ma che negli ultimi anni è diventato qualcosa di più dell’ideologia di una parte. È diventato, secondo il vecchio, inveterato e ben oliato meccanismo dell’egemonia culturale, il pensiero dominante per tutti. Almeno in Europa, è opinione comune (le statistiche parlano di oltre il 60 per cento) che il mondo si scaldi per colpa dell’uomo, e che questa colpa sia responsabile non solo di future catastrofi, ma anche dell’inverno un po’ tiepido dell’anno scorso, o dell’ondata di calore di due anni fa, o dell’estate prolungata di quest’anno, o delle nevicate anticipate di ottobre, o dei temporali assenti in agosto e fin troppo presenti in autunno. A tal punto questi luoghi comuni sono un sentire dominante, che un ministro della Repubblica si è potuto permettere di affermare senza arrossire (e senza essere sommerso da un mare di risate) che «la temperatura in Italia è aumentata quattro volte in più che nel resto del mondo», (l’ineffabile Alfonso Pecoraro Scanio alla Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici); che un politico americano, fino a non molto tempo fa considerato un guerrafondaio, può vedersi assegnato il più scontato dei Premi Nobel, per essere saltato sul carro vincente dell’ideologia verde, (Al Gore, riciclatosi come documentarista e promotore di un “Piano Marshall globale per l’ambiente”); che il Segretario delle Nazioni Unite invita tutti a contrastare i “negazionisti” dell’effetto serra, in un’odiosa assimilazione alla Shoah, (un intonso Ban Kimono, dettando l’agenda dell’Assemblea generale dell’Onu); e che persino il Cattivo-per-antonomasia, George W. Bush, pur continuando a rifiutare sostanzialmente Kyoto, finisce per mettere in scaletta qualche intervento per contenere le emissioni di anidride carbonica.
Con ogni probabilità, la parabola dell’ideologia verde avrà un epilogo sconfortante. Sotto la pressione del pensiero dominante, è prevedibile che presto o tardi tutti i governi del mondo prenderanno qualche misura “ecologica”. Così, magari, quella piccola parte dovuta all’uomo di carbonio nell’atmosfera, a sua volta piccola parte dei fattori che determinano l’effetto serra, sarà davvero ridotta, o perlomeno frenata nella sua crescita. E in questo modo, quando nel 2050 si sarà verificato che il pianeta non è finito arrosto, sarà difficile che si registri una presa di coscienza della fallacia delle previsioni catastrofiche, o una sana presa di distanza dall’arroganza dell’uomo, o una misurata valutazione della sostanziale marginalità delle nostre attività sull’ancora in gran parte sfuggente complessità della Terra. No. Il merito sarà ovviamente tutto dell’ambientalismo!

Se i Vichinghi la chiamarono Groenlandia (“Terra verde”), un motivo ci sarà pur stato. A dispetto della facies attuale, nel Medioevo la più grande isola del globo aveva un altro aspetto. E non solo: la Scozia, sempre nella stessa epoca, era autosufficiente per la produzione di vino da messa, mentre oggi lassù fa troppo freddo per i vitigni.
I climatologi lo chiamano Optimum medievale: dal 750 al 1200, le temperature furono eccezionalmente miti.
Un’eccezione? No, un esempio fra i tanti di un dato di fatto: sulla Terra le temperature sono mutevoli, e oscillano con cicli più o meno regolari nel corso dei millenni. Lo stesso alternarsi di ère glaciali e fasi interglaciali lo conferma. Altra età calda, forse ancor più dell’attuale, fu quella compresa fra il VI e il III millennio a.C., quando nella Mezzaluna Fertile nacque l’agricoltura. “Piccola èra glaciale” fu invece battezzato il periodo tra il XIII e il XVIII secolo, epoca di inverni rigidissimi e di estati brevi e fresche. Poi, a partire da metà Ottocento, le colonnine di mercurio hanno ripreso a salire. A tutt’oggi l’incremento è stato di 0,6 gradi, inclusa la battuta d’arresto del periodo 1940-1975.

Su un altro piano: due sono i retroterra culturali che possono nascondersi dietro all’attenzione per l’ambiente. Uno è quello, cristiano, della cura per il creato; l’altro, quello ideologico e neopagano di Gaia, la natura intesa come organismo eterno e autosufficiente. Per comprendere i meccanismi culturali in atto, ci si deve muovere da molto lontano, dai modelli di fondo a partire dai quali guardiamo alla natura. E questi modelli sono soprattutto due. Il primo, quello di un autore molto noto e tornato alla ribalta, come James Lovelock, parla di Gaia, la natura, come di un meccanismo vivente, in grado di autogenerarsi. E questa non è che una riproposizione moderna, che tiene conto della scienza, del modello greco: la natura è physis, ciò che è capace di generarsi da sé; una sorta di scena perpetua della nostra vita mortale. Qui non è sbagliato parlare di ideologia neopagana.

L’altro modello, invece, è cristiano. Nel senso della natura come creazione, come qualcosa che qualcuno – Dio – ha affidato a qualcun altro – l’uomo. E in questo affidamento c’è l’idea che la natura, tratta fuori dal nulla, può essere e può non essere più. Noi, figli del Cristianesimo, non possiamo non guardare la natura senza questa apprensione, senza questa cura.
Per quel che riguarda il nesso tra marxismo e ambientalismo, l’ideologia marxiana ha cercato di comprendere entrambe le posizioni, sommando tratti neopagani – l’esclusione della trascendenza, l’insistenza sull’eternità della natura, la materia che si sostituisce a Dio – all’eredità del messianismo ebraico-cristiano, il sogno di una natura rigenerata e redenta. Ha tentato di tenere insieme questi due pilastri, ed è anche per questo che è fallito. E oggi siamo qui a chiederci: la natura si riaggiusterà comunque, oppure è l’uomo il centro del problema? L’uomo che diventa cancro del pianeta? In quest’ottica, sì, naturalmente. E anche qui c’è un richiamo a una certa tradizione cristiana, ma a quella eretica dello gnosticismo: il male ha la sua causa prima nell’uomo, che ha la forza di tirarlo fuori da profondità demoniache. Da qui, la capacità di devastare la Terra.
Tuttavia, il rispetto del creato resta una virtù. Oggi l’etica nella sua agenda deve includere anche il rispetto della natura, un comportamento ecologico. È necessario richiamarsi a un’antropologia per la quale all’uomo spetta la massima responsabilità nei confronti della Terra, che gli è stata affidata.

 

   
   
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