Dicembre 2007

Verità come libertà

Indietro
Il terrorismo ambientale
Monica Marano - Carla Stagno
 
 

 

 

 

 

 

Il concetto di
risorsa non è
definito dalla
natura, come gli ambientalisti
vorrebbero far
credere, ma dalla creatività e dalla scienza umana.

 

I tratti tipici dell’ideologia ecologista, quali la totale avversità alla crescita demografica indicata come la causa di tutti i mali ambientali; l’opposizione radicale allo sviluppo, considerato il veleno diffuso dalla tradizione culturale occidentale; la concezione nichilista dell’uomo e della natura ci stanno portando verso una nuova forma di “statalismo globale” che non può non generare preoccupazione e inquietudine in chi considera la libertà dell’uomo un pilastro irrinunciabile della civiltà.
L’opposizione a questa deriva non si basa su considerazioni ideologiche, ma è fondata sulla realtà: per potersi affermare, infatti, questo statalismo globale è obbligato a truccare le carte, a fornire notizie sbagliate o parziali per assicurarsi – grazie al sistema mass-mediatico – un consenso della società civile. Due volumi (Le bugie degli ambientalisti e Le bugie degli ambientalisti 2, editi dalla Piemme) si son posto l’obiettivo di smascherare i trucchi e di rivelare i traguardi politici ed economici che si sono prefissi. Questa produzione, fra l’altro, è suffragata dal lavoro del Centro europeo di studi sulla popolazione (Cespas).
Vediamo di prendere in esame alcuni aspetti decisivi, per giudicare l’ambientalismo.

Popolazione e ambiente. La questione delle risorse. Esplicitamente o implicitamente, tutte le principali battaglie ambientaliste implicano la necessità di ridurre la presenza umana sulla terra, sia quantitativamente che qualitativamente. Affronteremo l’aspetto qualitativo più avanti, per il momento fermiamoci al primo, cioè alla presunta sovrappopolazione. Si sostiene che siamo troppi, anche se il mito della bomba demografica è ormai definitivamente tramontato e la popolazione mondiale con ogni probabilità si stabilizzerà attorno ai 9 miliardi per il 2050. Troppi già ora, si dice, per le capacità di sostentamento della terra (carryng capacity). In realtà, il concetto di carryng capacity è mutuato dall’ecologia, dove viene genericamente definito come «il numero di individui, in una popolazione, che può essere sostenuto dalle risorse di un habitat». Fatta propria dalle agenzie dell’Onu, questa è diventata la principale chiave di lettura del fenomeno del sottosviluppo: sovrappopolazione uguale povertà. Ma la realtà ci dice che dei 21 Paesi più poveri al mondo soltanto 7 hanno una densità superiore ai 100 abitanti per km quadrato, mentre fra i 21 Paesi più ricchi ben 12 superano questa densità. A un esame più approfondito ci rendiamo conto che il sottosviluppo è dovuto in realtà a fattori politici ed economici, oltre che culturali.

Stesso discorso vale per l’ambiente: la realtà dimostra che i maggiori problemi ambientali nascono nei Paesi sottosviluppati che, oltre tutto, sono anche quelli meno abitati. È il caso, ad esempio, della deforestazione, che contrariamente a ciò che si crede non è affatto un fenomeno globale, tutt’altro: nell’ultimo mezzo secolo la superficie terrestre coperta dalle foreste è aumentata, passando da 3,5 milioni di ettari del 1949 agli attuali circa 4 milioni. In questo quadro positivo, troviamo però situazioni locali di deforestazione legate, ad esempio, a un’agricoltura ancora primitiva (come in molti Paesi africani) o a situazioni di guerra (si veda il Myanmar, ex Birmania), o infine alla corruzione. Dunque, non c’è un legame diretto tra popolazione e degrado dell’ambiente.

Negli ultimi anni, per sostenere la tesi della sovrappopolazione, si è aggiunto il concetto di carryng capacity, ovvero «la capacità umana di migliorare il benessere e di ridurre la povertà». Tutto ruota attorno al concetto di risorse. Secondo il pensiero dominante, neo-malthusiano, le risorse infatti andrebbero esaurendosi per via della pressione demografica. Questa tesi presuppone che le risorse siano un dato fisso, immutabile e conosciuto. Ma nessuna di queste cose è vera. Nessuno sa, ad esempio, quanto petrolio esista ancora di fatto sotto la crosta terrestre, e lo stesso vale per tutte le altre risorse. Quello che si conosce è sempre meno di quel che in realtà esiste: soltanto il bisogno spinge a cercare nuove risorse. Un esempio emblematico è quello del gas: la sua produzione è aumentata di 12 volte dalla fine del Secondo conflitto mondiale, e con la crescita della produzione si sono moltiplicate anche le riserve: nel 1973 c’era disponibile gas per i successivi 47 anni, nel 1999 c’era gas per i successivi 60 anni. Analogo discorso per il piombo: le 40 mila tonnellate a disposizione nel 1950 erano sufficienti per la popolazione dell’epoca; averne prodotto di più sarebbe stato economicamente controproducente, perché avrebbe fatto crollare i prezzi a danno degli stessi Paesi produttori. Ma con la crescita della domanda non c’è stato alcun problema ad arrivare, vent’anni dopo, a una produzione di 86 mila tonnellate.
Inoltre, nella storia le risorse sono andate sempre aumentando e diversificandosi, dall’introduzione della patata nell’agricoltura all’uso del carbone, dai fertilizzanti all’energia atomica, tutte risorse che l’uomo ha conosciuto e poi sfruttato progredendo e usando nuove tecnologie.
Questo discorso vale anche per le risorse non rinnovabili, come l’acqua: nessuno di noi oggi si disseta andando direttamente alla sorgente. La possibilità di soddisfare le esigenze idriche della popolazione sta invece nella tecnologia, che ha consentito di potabilizzare acqua che in natura non sarebbe bevibile, e nella costruzione di acquedotti che portano l’acqua direttamente nelle case. Allora è possibile pensare che nei prossimi decenni avremo a disposizione risorse oggi neanche immaginabili.
(Per quel che ci riguarda da vicino, a proposito di mutazioni climatiche e di siccità, si afferma che i grandi laghi prealpini sono sotto i livelli storici, e i bacini montani anche. Dio solo sa da che cosa si ricavano queste notizie allarmistiche. Il livello del lago di Como, prima delle attuali piogge!, non soltanto non è stato sotto la norma, ma addirittura ha leggermente superato i livelli standard. Stesso discorso per i laghi Maggiore e d’Iseo. Per quel che riguarda poi i bacini montani artificiali, essi si sono riempiti nei mesi di maggio e giugno, come normalmente avviene da sempre).

Tutto ciò vuol dire solo una cosa: il concetto di risorsa non è definito dalla natura – come gli ambientalisti vorrebbero far credere – ma dalla creatività e dalla scienza umana che rende sfruttabile un dato componente della natura. Prima e fondamentale risorsa è dunque l’uomo, con la sua capacità di adattarsi e di rispondere alle mutate esigenze. L’uomo è la soluzione, non il problema. Eliminare uomini non risolve i problemi. Li aggrava.


Sviluppo è ambiente. Dicevamo che l’obiettivo degli ambientalisti è quello di ridurre la presenza dell’uomo sulla terra, anche dal punto di vista qualitativo. In questo senso, sotto accusa è soprattutto la rivoluzione industriale, e i provvedimenti che vengono attualmente invocati – più o meno esplicitamente – si riferiscono alla necessità di fermare l’economia occidentale. Il celebre Protocollo di Kyoto, con il suo drastico obiettivo di riduzione delle emissioni, ne è un clamoroso esempio. Ma è tutta la “dottrina” sui cambiamenti climatici che punta a questo obiettivo: sotto accusa sono le emissioni di gas serra prodotti dall’uomo, ma in particolare l’emissione di anidride carbonica, il cui aumento esponenziale dipenderebbe proprio dalla Rivoluzione industriale.
In effetti, la lieve tendenza all’aumento della temperatura globale che si registra da 120 anni (+0,6 °C) non è stata affatto lineare: gli aumenti ci sono stati dal 1910 al 1945, e di nuovo dopo il 1975. Il periodo 1945-1975 ha visto invece un calo delle temperature, tanto che negli anni Settanta gli scienziati lanciavano allarmi su una imminente glaciazione (e alcuni erano gli stessi che oggi gridano al riscaldamento globale). Ebbene, anche nel periodo di “raffreddamento” la concentrazione di anidride carbonica è andata aumentando. Ma l’ideologia non ha bisogno della realtà per essere confermata. Così ogni occasione è buona per prendersela con lo sviluppo. Esempio eclatante è stato quello dello tsunami che ha colpito il Sud-Est asiatico il 26 dicembre 2005: i media ci hanno bombardato con il messaggio secondo cui la gravità dei danni e delle perdite era dovuta agli interventi umani che avevano reso più vulnerabili quei territori, la colpa era soprattutto dello sfruttamento economico delle coste. In realtà, le località turistiche rappresentano una minima parte delle aree colpite, e sono quelle che registrano minori perdite umane: alle Maldive sono morte 82 persone, nella Thailandia meridionale la somma tra morti e dispersi arriva a 9 mila (di cui molti occidentali). Molti di più sono i morti in India (circa 20 mila), nello Sri Lanka (35 mila, di cui solo una parte nel sud “turistico”) e soprattutto in Indonesia (circa 200 mila tra morti e dispersi nella provincia di Aceh). Aceh e le aree tamil dello Sri Lanka sono zone dove imperversa la guerra da anni, vi si trovano a malapena delle strade, figurarsi se si può parlare di sfruttamento turistico ed economico da parte dell’uomo.

La realtà dimostra invece che laddove c’è lo sviluppo anche l’ambiente migliora. Prima abbiamo parlato delle foreste, ma anche per l’inquinamento atmosferico questo è vero. Secondo il Rapporto Ocse 2002, in tutti i Paesi industrializzati si registrano “riduzioni significative nelle emissioni” e si prevede che questa tendenza si rafforzerà fino al 2020. Secondo calcoli basati sui costi sociali dell’inquinamento dell’aria, si può affermare che nel suo insieme nei Paesi occidentali esso è diminuito del 70 per cento in quarant’anni. Il dato è ulteriormente confermato dalle rilevazioni portate a termine in Italia dall’Arpa, ossia dalle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente.
Anche se parliamo di rifiuti, il discorso non cambia: non è affatto vera l’affermazione che indica l’uomo moderno, che consuma di più, come produttore di maggiori quantità di rifiuti. All’inizio del 1900 la città di New York era molto meno popolata di oggi, ma essendo i trasporti strettamente dipendenti dall’uso dei cavalli, utilizzava un numero di equini pari a un milione e 200 mila. Calcolando che ogni giorno un cavallo produceva (e produce) almeno 9 kg. tra escrementi e urine, la massima parte dei quali in strada, si capisce benissimo quanti e quali problemi di raccolta e trattamento rifiuti avesse la sola metropoli americana. Ma per l’Italia basterebbe citare la poesia di Giuseppe Parini, “La salubrità dell’aria”, scritta nel 1759 – cioè prima della Rivoluzione industriale – per capire che la Milano di oggi, per quanto inquinata, è senza paragoni in condizioni ambientali di gran lunga migliori rispetto ad allora.
Stesso discorso per tutti gli indicatori ambientali. Il XX secolo, di fatto, ha visto la più grande crescita della ricchezza, della produttività, della salute, delle condizioni e delle aspettative di vita: la popolazione mondiale è aumentata di 4 volte, ma il Pil mondiale è cresciuto di 17 volte. L’umanità è riuscita ad incrementare e non impoverire – come sostengono strumentalmente gli ideologi verdi – la carryng capacity, la capacità di carico del pianeta. E grazie allo sviluppo si è avuta la possibilità di fare ricerca, ciò che ha favorito l’introduzione e l’uso di nuove tecnologie. Per questo è necessario un maggiore (e non un minore) sviluppo, se si vuole migliorare ulteriormente l’ambiente. Soprattutto va accelerata la crescita dei Paesi poveri, perché è lì che si trovano le situazioni ambientali più difficili.

Il rischio dell’ecototalitarismo. È significativo che l’invocazione per politiche ambientali più severe – oltre che puntare a frenare lo sviluppo – vadano nella direzione di creare uno “statalismo globale”. Lo si vede nel Protocollo di Kyoto, che è stato a suo tempo salutato con entusiasmo dai suoi sostenitori non tanto per gli effetti positivi che avrà sul clima – che in effetti sono nulli – ma per il fatto che per la prima volta si impone una “legislazione globale”. Significativo anche il fatto che la proposta politica più importante scaturita dalla presentazione ai politici della sintesi del Rapporto sui cambiamenti climatici dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), all’inizio dello scorso febbraio, a Parigi, sia stata quella di creare una sorta di “Onu dell’ambiente”. La richiesta è stata firmata da 46 Paesi, tra i quali l’Italia. In realtà, un’Agenzia dell’Onu per l’Ambiente esiste già – l’Unep – ma si vorrebbe trasformare questo organismo in un vero e proprio strumento di governo mondiale. Si comprende perciò come la questione del riscaldamento globale – le cui basi scientifiche sono peraltro discutibili e molto discusse – sia di fatto soltanto un pretesto per fare avanzare un’agenda politica ben precisa.
Non è difficile, dietro a queste spinte, individuare la regia di un radicalismo orfano del socialismo reale che si è buttato sulle battaglie ambientali, che fino a quel momento aveva sostanzialmente ignorato. A ciò ha con molta probabilità contribuito il fatto che l’ambiente è un bene per sua natura indivisibile, comunque non gestibile in modo privato: quindi, in linea di principio, si presta all’applicazione di dottrine politiche di tipo comunistico che invece in sede socio-economica risultano ormai obsolete e inapplicabili.
Non per niente un grande osservatore britannico, Charles Moore, così descriveva tempo fa questa comunistizzazione dell’ambientalismo: «Una volta l’inquinamento era qualcosa che la Sinistra fondamentalmente approvava. Nuove dighe e fabbriche e miniere davano più potere alla classe operaia organizzata, e dovevano essere portate avanti in fretta per rimpiazzare le società feudali rovesciate dal socialismo. Il controllo operaio dei mezzi di produzione era ritenuta cosa buona; perciò anche la produzione in sé era buona, e l’inquinamento era ignorato più o meno sulla base del principio che “non puoi fare una frittata senza rompere le uova”».

Negli anni Ottanta fu Margaret Thatcher ad essere attratta dalla teoria del riscaldamento globale, perché ci vedeva la giustificazione per lo sviluppo dell’energia nucleare. La sua esperienza con la crisi petrolifera degli anni Settanta e gli scioperi nelle miniere negli anni Settanta e Ottanta la rendevano entusiasta di un’alternativa ai combustibili fossili.
Ma con la fine della Guerra Fredda, e perciò con il collasso dell’industria pesante socialista, la Sinistra cominciò a trovare negli argomenti verdi un nuovo tema unificante. Se i lavoratori non potevano prendere possesso dei mezzi di produzione, la teoria doveva essere corretta. Adesso erano quei mezzi di produzione ad essere cattivi. Era deciso: l’avidità capitalistica, specialmente l’avidità americana, stava distruggendo il pianeta. Una volta che si era deciso su cosa fosse cattivo, il radicalismo nostrano poteva avanzare un’altra delle sue battaglie: la necessità per il governo di assumere il controllo del privato, e per l’internazionale di schiacciare il nazionale. E il bello di questo è che tutto passava e continua a passare sotto la voce “salvare il pianeta”! Che si parli di limiti di velocità o di pannolini usa e getta o di voli economici o di vecchi frigoriferi o di quanti figli avere, ti può essere terroristicamente detto di non fare ciò che stai facendo. E se ti lamenti, puoi essere bollato come un nemico dell’umanità. Per coloro che adorano l’idea di uno Stato che può controllare tutto, deve essere stata una costante fonte di irritazione il fatto che il tempo (meteorologico) non possa essere soggetto a piani quinquennali e a obiettivi di governo. Ma se tu accetti le teorie sui cambiamenti climatici, può esserlo: anzi, deve esserlo. Senza un’azione governativa globale – insegna la dottrina – tutti noi periremo.

A questo punto, l’impulso religioso forma una più che mai santa alleanza con la politica. In ogni età, le religioni hanno avuto la tendenza a collegare gli estremi del clima con il peccato. Dal momento che gli uomini erano cattivi Dio mandò il diluvio sulla terra, e fu perché Noè era un uomo giusto che gli fu permesso di costruire un’Arca e di accogliere a bordo i principali esponenti della Creazione. Oggi, i livelli del mare si innalzano per punire la nostra avidità e il nostro egoismo, ci dicono a muso duro gli ideologi verdi. Impauriti da questo genere di cose, uomini ricchi con coscienze poco pulite, che nel Medioevo avrebbero fatto cospicue donazioni ai monasteri, oggi spendono fortune in sacrifici alla Dea Gaia. Johan Eliasch, i cui successi nella vita (vendendo equipaggiamenti sportivi) sono dipesi dall’attività, dal movimento e dalla velocità, ha acquistato 400 mila acri di foresta pluviale con l’intenzione di non farne niente.
Equivalente moderno dell’Arca è la Conferenza di Kyoto, con tutto quel che ne è conseguito. Contrastare le degenerazioni dell’ambientalismo va dunque oltre le dispute scientifiche. È piuttosto una battaglia per la libertà che va combattuta prima che sia troppo tardi.
Per il nucleare - Contro il nucleare. La situazione è questa: dopo l’incidente di Chernobyl, l’Italia ha rinunciato al suo nucleare; chiuse le centrali di Caorso, Trino e Latina, stop a Montalto di Castro; oggi si dice che parteciperemo agli studi e alle ricerche per la quarta generazione di centrali, senza però che questo significhi un ritorno al nucleare.
La Francia ha attualmente in funzione ben 59 impianti nucleari; la produzione è pari a 428.700 Gw/h.
La Germania ha lasciato l’atomo nel 2000, ma ha ancora attivi, oggi, 17 impianti, dopo averne chiusi 19; tuttavia, il governo intende ristudiare il dossier.
Il Regno Unito ha in funzione 19 impianti nucleari, che coprono il 20 per cento della produzione; il governo intende incrementare al più presto l’uso dell’atomo.
In Italia, dibattito aperto. Di recente, confronto fra l’oncologo Umberto Veronesi e il Nobel per la Fisica Carlo Rubbia. Per il primo, il governo deve costruire dieci centrali nucleari nei prossimi dieci anni. Per l’altro, non è così che si troverà un equilibrio tra la produzione di energia e i mutamenti climatici.
Veronesi affronta il problema di petto: «Ho firmato una lettera dell’Associazione Galileo 2001 destinata al Capo dello Stato, con la quale una parte della comunità scientifica italiana si dichiara preoccupata per la decisione del Parlamento di ratificare il Protocollo di Kyoto... Credo che sia il momento di mettere da parte le posizioni preconcette, le paure e le emozioni. Dobbiamo aprire gli occhi. È vero, la fonte ottimale di energia in termini di produzione, efficienza, sostenibilità per l’ambiente e per l’uomo non l’abbiamo ancora trovata, ma oggi il nucleare va considerato concretamente e subito. In Francia c’è un gran numero di centrali, anche la Spagna ne ha 9, altri impianti sono ai nostri confini, in Svizzera in particolare. Si tratta di una fonte potente, per la quale già disponiamo della tecnologia di sfruttamento e che non comporta rischi per la salute e per l’ambiente. Purtroppo la parola “nucleare” spaventa più degli incidenti che potrebbe causare. Fobie popolari, timori irrazionali e retaggi storici fanno ancora di più dell’allarme cancro e i suoi morti causati dai derivati del petrolio. Allora io dico: basta con il panico da primitivi spaventati dal fuoco».
Sostiene Rubbia: «Anche se non c’è forma di energia senza pericoli, (basta pensare alla tragedia del Vajont), quelli associati a una diffusione planetaria del nucleare non sono da sottovalutare e vanno affrontati di concerto tra politica, scienza e opinione pubblica. Ecco il motivo per cui io sono prudente. Vedo una soluzione soltanto, si chiama ricerca e sviluppo. Il mondo sta lavorando. In Cina, in Corea c’è un grande fermento culturale e scientifico. In Europa la Germania, la Finlandia, la Svezia e anche l’Inghilterra stanno facendo molto bene sia dentro le università sia a livello politico. L’Italia non ha neppure un piano energetico e investe nello studio di nuove fonti di energia una quota irrisoria del Pil».
Veronesi: «La piaga della ricerca italiana è profonda perché nasce da una cultura scientifica temuta e dimenticata. Una cultura che si trasforma in atti di sfiducia della politica nella capacità degli scienziati di contribuire a risolvere i grandi problemi sociali».
Rubbia: «Ciò che inchioda questo Paese è l’immobilismo. Dovremmo domandare ai nostri figli che cosa vogliono per il loro futuro. Perché nessuno lo fa?... È un preciso dovere del mondo politico ed economico creare le premesse per dare alle giovani generazioni questa possibilità di esprimersi».
Veronesi: «Non dobbiamo entrare nella spirale dell’ansia da inquinamento. Altrimenti non dovremmo respirare all’aperto per le polveri sottili, non fiatare in casa per la formaldeide e l’inquinamento domestico, non coltivare la frutta per i pesticidi, non mangiare per le sostanze tossiche, non produrre beni di consumo per le sostanze chimiche, non telefonare con i cellulari per le radiazioni al cervello... Dobbiamo rinunciare a esistere? Credo sia inutile sparare ad alzo zero».
Rubbia: «Entro la fine di questo secolo la temperatura della terra non dovrà aumentare più di due gradi. Ci salveremo solo se cambieremo il nostro modo di produrre energia».

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2007