Dicembre 2007

Storie di (stra)ordinari sprechi

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L’armata
di “Sviluppo Italia”
M.B. - D.M.B.  
 
 

 

 

 

 

 

 

Un esercito
composto in gran parte di generali. Generali con
stipendi alti, amici influenti e la virtù dell’obbedienza. Ma i soldi
dove sono andati
a finire?

 

Una banca anomala, in cui i soldi si prendevano e non sempre venivano restituiti: lo ha sostenuto il nuovo amministratore delegato di “Sviluppo Italia”, Domenico Arcuri, secondo il quale bisognerebbe «restituire il maltolto ai contribuenti», perché di tutto si è occupata l’Agenzia pubblica del Tesoro, almeno fino alla scorsa primavera, tranne che dei compiti per i quali era stata creata, vale a dire per lo sviluppo, per gli investimenti, per la programmazione.
Tutto quello che Arcuri sa lo ha imparato alla Luiss di Roma, dove è stato dapprima studente e in seguito docente, fino a quando ha scalato le posizioni di vertice della Arthur Andersen e poi della Deloitte. Per “poi” si deve intendere all’indomani della scandalosa cantonata che la Andersen prese certificando i bilanci di Parmalat, di Cirio e della Giacomelli: un’autentica truffa con dramma per i risparmiatori, con il conseguente crollo di credibilità della stessa società di consulenza, che toccò proprio a lui fronteggiare, chiamato in fretta e furia al vertice per una missione che definì «memorabile turnaround». In quella circostanza l’inversione a 180 gradi gli riuscì. Da allora, lo accompagna la fama di professionista per le imprese impossibili, compresa quella di porre rimedio ai disastri di un’holding pubblica che nacque per attirare investimenti dall’estero e per far germogliare nuove aziende, ma che in soli cinque anni si è trasformata in un mostro con 17 società regionali, 15 controllate (che a loro volta hanno 25 subcontrollate) e 124 società partecipate.
Dentro le scatole societarie agiscono 339 uomini che avrebbero dovuto gestirle (168 consiglieri di amministrazione, 93 sindaci e 78 membri degli organismi di vigilanza, cui si aggiungono 153 consiglieri nominati da Sviluppo Italia nelle società partecipate). In totale, fanno 492 componenti, i quali hanno intascato sei milioni di euro ogni anno di soli compensi. Per fare che cosa? Sostiene Arcuri: «Per generare disordine e per disperdere valore. E potrei elencare decine di casi, a dimostrazione di quel che dico. Un dato su tutti: quando sono arrivato, il gruppo aveva 1.800 dipendenti, di cui il 63 per cento dedicato ai servizi di staff e il 37 per cento alle attività di line, cioè a produrre ricavi. Di più: la catena di comando è quantomeno bizzarra: un dirigente governa due quadri e tutti gestiscono cinque impiegati. E mi fermo qui, per carità di patria...».

Un esercito composto in gran parte di generali. Generali con stipendi alti, amici influenti e la virtù dell’obbedienza. Ma i soldi dove sono andati a finire? Il nuovo d.g. dà un indizio: «Su 230 milioni di ricavi 2006, il 55 per cento (circa 130 milioni) sono stati affidati all’esterno. E non sempre erano soldi legati a progetti. Curioso per una società di 1.800 persone! Ma ora abbiamo voltato pagina. La domanda che attualmente ci si deve porre però è un’altra: mentre accadeva tutto questo, dov’erano la politica, il sindacato, i mass media? Esclusa qualche rara eccezione, nessuno ha tentato di capire che cosa accadesse in una società che faceva acqua da tutte le parti, con i soldi dei contribuenti».
Ora si vuol fare sul serio, si è deciso che anche l’Italia, come tutti i Paesi del mondo civile, debba e possa avere un’agenzia pubblica al servizio dello sviluppo, che serva ad attrarre investimenti esteri, a sviluppare i territori, a creare imprese. Una struttura leggera, che sia anche il più possibile virtuosa.

Si riuscirà a disboscare le società regionali («tranne Calabria e Campania, nelle quali le resistenze all’azzeramento sono fortissime», mette le mani avanti Arcuri), a dimezzare gli organici (da circa 1.800 a 750), a ridisegnare l’architettura societaria facendo leva su tre società (impresa, territorio, investimenti esteri), ad impedire che i politici facciano pressioni per la riconferma di 500 tra consulenti e contrattisti a tempo che erano finanziati da Sviluppo Italia? Tra la liquidazione totale della holding e la vecchia elefantiasi, sembra esserci una terza via da seguire: quella di rimettere insieme i pezzi di questa macchina disastrata, che ha saputo soltanto perdere ogni appuntamento con la Storia.
«Il governo Zapatero, nel prologo del suo piano sul turismo, con scadenza 2020 – proprio così: 2020! – scrive testualmente: dobbiamo usare come benchmark l’Italia perché, nonostante le potenzialità infinite, ha fatto di tutto per non valorizzarle». Messaggio chiaro: il turismo è la grande occasione mancata di Sviluppo Italia.
Storia fin troppo semplice da raccontare: alla nascita della holding, furono raggruppate tutte le controllate della vecchia Insud, uno dei carrozzoni dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Dentro c’era di tutto: dalla proprietà di villaggi dati in gestione a terzi, alle quote di partecipazione in Valtur. Qualche anno dopo venne costituita una società, “Italia turismo”, alla quale vennero conferiti tutti questi asset. Allo stesso tempo, il capitale venne aperto a una cordata di imprenditori privati che – si stabilì – entro una certa data avrebbero dovuto acquisirne la maggioranza, (con il superpremio finale di 132 milioni a fondo perduto). Ma quello del turismo è un asset fondamentale dello sviluppo economico del nostro Paese: perché, allora, lo Stato deve rinunciare a giocare un ruolo di primo piano? Perché non si può prima costruire un progetto e poi condividerne la realizzazione con i privati? Così si decide di non cedere “Italia turismo”. Convocata la cordata di imprenditori, si comunica che allo Stato non interessano quote di partecipazione di minoranza. Perciò si può cominciare a collaborare partendo da questa premessa. Interessa? Sembra proprio di sì.

Ma intanto i nuovi vertici della holding pubblica stanno lavorando al censimento delle strutture alberghiere in carico e, nello stesso tempo, ai nuovi progetti di sviluppo. Ogni tanto si scopre che c’è un albergo in più: ultimo caso saltato fuori, a Pantelleria. Ma ci sono anche segnali molto positivi: l’impegno era stato subito apprezzato da Giscard d’Estaing, presidente del Club Med, che annunciò di voler investire 70 milioni di euro nel turismo italiano, mentre un buon numero di imprenditori italiani chiedeva di poter comprare qualcosa. Solo che, se lo Stato ha intenzione di vendere una società, non può farlo brevi manu: deve bandire una gara, coinvolgere un advisor, stabilire tempi, modalità e soprattutto il prezzo. È esattamente quello che si farà, se si deciderà di uscire da questo importante business.
Altro punto dolente, quello dei porti turistici. È noto che la Francia ha cinque volte le Marine italiane; che la Croazia è un modello di efficienza e di capillarità che con l’impianto societario messo a punto dall’Italia eguaglieremo esattamente tra un secolo. L’idea è stata quella di costituire una società ad hoc, “Italia Navigando”, ma chi rappresentava il Tesoro volle affidare a un privato il 12,5 per cento delle azioni, compreso il ruolo di amministratore delegato. Risultato: per cercare imprenditori disposti a investire in Italia, non si è pensato a Paesi come il Qatar o gli Emirati Arabi; si sono spesi 30 milioni di euro per viaggi negli Stati Uniti, in Canada e in tutti i Paesi europei. Decine e decine di delegazioni hanno fatto la spola fra aeroporti e grandi alberghi di mezzo mondo, senza che ci sia stato alcun investimento diretto nel nostro Paese. Un vero affare per le casse dello Stato! E un’altra occasione perduta per lo sfruttamento della miniera senza fondo che potrebbe diventare il turismo nel Paese che ha il 70 per cento delle opere d’arte realizzate dall’uomo!

 

   
   
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