Dicembre 2007

Il ruolo della puglia nel sud

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Frontiera dello sviluppo
Mabel  
 
 

 

 

 

 

 

 

 

I distretti della
manifattura
leggera oggi sono in crisi, partendo
dall’entroterra
barese e
spingendosi verso la Basilicata
e verso sud, in
provincia di Lecce.

 

È stato scritto che è piuttosto difficile scendere a Sud senza i pregiudizi alimentati da decenni di “questione meridionale”, anche nel momento in cui ha assunto centralità strategica nello sviluppo complessivo del Paese un’altra “questione”, quella settentrionale, strumentale e ingombrante, non sapremmo dire quanto realisticamente riconducibile a una rete di avanzamento economico e sociale nazionale, e non piuttosto a tattiche di egoismi territoriali alimentati e supportati rumorosamente da politici e da potenti mass media che sono stati storicamente disponibili a difendere evidenti interessi di parte.
Non a caso il Sud è stato quasi sempre raccontato come una sorta di “terra dell’indistinto”, cioè come un luogo caratterizzato soltanto da uno sviluppo difficile, precario, se non dispersivo o addirittura surreale, (fu il caso dell’espressione “cattedrali nel deserto” coniata da Montanelli in una sua inchiesta nel Mezzogiorno), mentre infuriava la polemica fra sostenitori e avversari dell’intervento statale straordinario nelle regioni meridionali e insulari della Penisola.

Fra l’altro, si parlava di “osso” e di “polpa”, riferendosi alla struttura fisica del territorio, alla presenza di aree altocollinari e montane che poco o per nulla si prestavano a insediamenti produttivi, accanto a brevi fasce pianeggianti dove, comunque, il settore agricolo aveva assicurato redditi, sia pure minimi o infimi, a popolazioni fittamente presenti sulla campagna: pressione demografica destinata poi a far esplodere la rivoluzione migratoria, il trasferimento in massa di intere comunità dapprima verso il Settentrione, e in seguito in alcuni Paesi dell’Europa, soprattutto in Svizzera, in Francia e nell’allora Repubblica Federale Tedesca.
In questo contesto generale, la regione pugliese fu, insieme con poche altre aree meridionali, un “luogo dello sviluppo”, una terra di frontiera che sperimentava gli strumenti economico-produttivi atti a crearvi una modernizzazione che fosse al passo con i tempi. Nacquero da questa spinta determinata da quella che era ritenuta la potenza fordista dei grandi insediamenti industriali ad opera delle Partecipazioni Statali le iniziative di Taranto (acciaio) e di Brindisi (raffinazione petrolio), punte di diamante di diffusi flussi di trasferimenti pubblici volti a incidere in profondità nelle strutture sociali, ambientali, e soprattutto sull’antropologia culturale delle genti pugliesi.
La crescita dei livelli di reddito creò ben presto nuclei di borghesia, terminali di una “classe operaia inventata”, che da una parte determinò – grazie anche alla versatilità e duttilità dei protagonisti – un avanzamento generale della società, mentre dall’altra diede luogo a quello che è stato poi definito a ragione «uno sviluppo senza autonomia».
Qualunque cosa abbiano detto o scritto i detrattori dell’intervento straordinario nel Sud, è certo che i primi dieci anni almeno di attività della Cassa per il Mezzogiorno nei settori delle bonifiche del territorio, della diffusione degli impianti irrigui, dell’energia rurale, delle strade di comunicazione, si rivelarono poi decisivi per l’avvio di una serie di attività produttive impensabili prima del 1950. Impensabili anche in Puglia, anche se già nell’immediato dopoguerra questa regione era stata interessata da interventi pubblici e privati con i quali si sperimentavano iniziative volte a trasformare, sia pure in tono minore, il volto della regione.

Solo con gli anni Settanta nacque il problema clientelare, degli interventi a pioggia, degli sprechi, che dapprima fece tramontare la progettualità ideale di sviluppo pensata con la creazione della Cassa da parte di De Gasperi e di Menichella, e in seguito portò alla conclusione dell’esperienza dell’intervento straordinario. Fu a questo punto che, falliti con gli anni Ottanta gli ipercelebrati “progetti integrati” che avrebbero dovuto riguardare gruppi di regioni del Sud, si creò un vuoto di flussi pubblici che riallargò pericolosamente la forbice tra Nord e Sud, senza che la vecchia “questione” venisse realmente affrontata, e meno che mai risolta, dall’Europa comunitaria, come avevano confidato i meridionalisti, messi e messisi ormai in disarmo.
Crollate le attività nel settore primario, anche se non in tutto il Sud, e alleggerita la pressione demografica sulla terra, fu giocoforza tentare di creare finestre di opportunità, che aprirono itinerari precisi nell’area adriatica innanzitutto, dall’Abruzzo al Molise, fino alla Puglia, dove in pochi anni proliferarono sistemi produttivi di piccola e in alcuni casi di media impresa, incentrati sulla manifattura leggera. Gli anni Novanta furono quelli della crescita del made in Italy maturo: fiorirono iniziative validissime nei settori Tac, (tessile, abbigliamento, calzature), mentre cominciò a crescere e ad imporsi a livello internazionale anche la produzione dei mobili imbottiti. Specularmente, si abbattevano le cifre degli addetti ai grandi impianti delle Partecipazioni Statali: tra il 1981 e il 1991, la provincia di Taranto perde 7.222 addetti, pari al 33,3 per cento, nel settore dell’acciaio; mentre in quella di Bari gli addetti al settore del mobile passano da 2.147 nel 1981 a 10.836 nel 2001, con un aumento di oltre il 404 per cento.
È stato scritto che dalle macerie delle Partecipazioni Statali e dalla crisi fiscale dello Stato sono emerse tracce di sviluppo diffuso della Terza Italia che si radica e prolifera dove il modello dello sviluppo dall’alto non era atterrato. Appartiene a quegli anni la diffusione del fenomeno dei patti territoriali dello sviluppo che, nei territori segnati dalla ritirata dello Stato, tentano di porre il problema di una crescita che parta dall’altro capo, cioè dal basso. Ma neanche questo è sufficiente. I dati economici segnano un rallentamento e un’affannosa difficoltà sia del modello Tac sia del mobile imbottito. È arrivata la globalizzazione. Sono arrivate la Cina e l’India. Sono arrivati i Paesi che lavorano a bassissimo costo. Da noi c’è chi resiste. In Puglia Natuzzi tiene, ma apre in territorio cinese.
Ci si chiede cosa rimanga dei distretti pugliesi, e soprattutto, «nell’impatto tra flussi e luoghi, che ne è della piattaforma ultima» che era identificata dalla dorsale adriatica. La regione ha una posizione di balcone mediterraneo affacciato sul “Mare Corto” che la separa dall’universo balcanico. L’analisi oggettiva è questa: arrivando dal Settentrione si incontra il sottosistema del Tavoliere segnato un giorno dalla grande proprietà agraria, e attualmente in cerca di una transizione verso un settore agroalimentare di qualità. Un territorio «ai margini dei flussi, che rischia di assumere contorni da comunità inerziale dove i cambiamenti non sono metabolizzati, ma vissuti al ribasso. Come dimostra l’uso al limite della parola schiavismo della forza lavoro immigrata denunciato dai sindacati». I distretti della manifattura leggera del made in Italy oggi sono in crisi, partendo dall’entroterra barese e spingendosi da una parte verso la Basilicata e dall’altra verso sud, in provincia di Lecce. Si producono e si esportano meno scarpe, meno tessile, meno mobili. E tuttavia cresce una subfornitura di qualità nella meccatronica, a Bari; oppure nell’aerospaziale, Brindisi, attorno alle tedesche Bosch e Getrag. Ma al di là di queste punte agganciate a filiere lunghe, i distretti pugliesi del made in Italy corrono il rischio di trasformarsi nel breve periodo in comunità in dissolvenza. Per la depressione che viene, da Est, al di là del mare e al di là dell’emisfero orientale. Per effetto di delocalizzazioni povere, che non lasciano nulla là dove partono per andare alla ricerca di lavoro a basso costo.
In movimento creativo, il Salento, dove alcuni sindaci e grandi operatori turistici tentano di partire dai beni pubblici della tradizione per aprirsi al globale. È ritenuto un territorio da “soft economy possibile”, anche se per uno sviluppo del settore gli attori dovranno necessariamente aggiustare il rapporto qualità-prezzo, oggi palesemente squilibrato, come dimostra il raffronto con altre regioni del Sud, soprattutto con la Basilicata, la Calabria e la Sicilia.
Infine, le comunità in divenire delle città delle reti logistiche e della conoscenza: Bari e il suo porto, Brindisi già strutturato, e Taranto (malgrado il crollo delle casse comunali) che attende i containers cinesi. La tenuta di questi quattro sottosistemi territoriali e il loro ridiventare piattaforme in grado di competere dipenderanno dall’intreccio con reti dell’innovazione socio-tecnica ed economica che siano capaci di svolgere il ruolo portante di locomotive.
Non va dimenticato che qui ci sono vere e proprie eccellenze. Il Politecnico barese o l’Istituto delle Nanotecnologie leccese sono strutture capaci di reti lunghe internazionali, di collaborazione con la Nasa, con centri tecnologici cinesi, indiani, giapponesi. Ma, simultaneamente, hanno difficoltà a dialogare con il capitalismo molecolare dei distretti. Un ridotto numero di aziende ha saputo riconvertirsi nella forma del capitalismo a grappolo dell’impresa a rete o dei gruppi. Non sono più di una sessantina le medie imprese in grado di fare globalizzazione a medio raggio verso l’Est europeo e non solo. Sono solamente 480 i gruppi di imprese in tutta la regione, e incidono soltanto per il 6 per cento degli addetti del territorio. Si tratta di isole in un oceano di microscopiche imprese individuali, che in Puglia alla fine del 2005 erano l’82 per cento del totale, contro il 76,5 per cento dell’intero Mezzogiorno e il 67,3 per cento nazionale. È obiettivamente debole il livello del capitalismo medio in grado di mettersi in mezzo tra i big players che giocano sulle reti lunghe e la nebulosa dei piccoli e piccolissimi.
Malgrado tutto, la Puglia può determinare un grande futuro. Ha risorse cospicue, per una regione che voglia diventare protagonista dei traffici nel Mare Corto e leader produttivo in questa fascia Nord-Sud del Mediterraneo. Per raggiungere questo obiettivo, è necessario affrontare prima o poi, (ma meglio prima possibile), i nodi strutturali della società pugliese, quelli che un po’ storicamente e un po’ ciclicamente ne comprimono le possibilità di progresso.

 

   
   
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