Dicembre 2007

Sulle tracce del lavoro nero

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L’Italia sommersa
Fulvio Casali - Ennio Sammartino
 
 

 

 

 

 

 

Evasione,
riciclaggio, lavoro nero, finanza
dei cartelli del
crimine: la mappa dell’Italia
sommersa è
servita.

 

È un vero e proprio fiume in piena. Un fiume di denaro: quasi un quinto del Prodotto interno lordo italiano. Tutti soldi che lo Stato italiano non riesce a intercettare, anche se passano ogni giorno sotto i suoi occhi. C’è l’operaio che, terminato il lavoro, nega la fattura con un sorriso. L’artigiano che, facendoti risparmiare l’Iva, la nega con un ghigno. Il ristoratore che dimentica lo scontrino, ma offre volentieri un digestivo. Il galoppino di Scampia o dell’hinterland petroniano, nullatenente, ma in grado di portare a casa 15 mila euro al mese spacciando pillole e polveri. E ci sono i finti contratti a progetto delle società telefoniche o i lavoratori invisibili dei cantieri edili, il money transfer in contanti e le triangolazioni finanziarie dei commercialisti “ingegnosi”, gli appalti truccati e le fatture gonfiate...
Proprio come quelle del Signore, le vie del sommerso in Italia sono infinite. E il loro impatto sui conti è devastante, come è stato sottolineato anche di recente: senza sommerso, o con una quota di sommerso fortemente ridotta, il nostro Paese cambierebbe volto; ci sarebbero alleggerimenti del carico fiscale per tutti i contribuenti, quote maggiori di investimenti, più sicurezza, più benessere sociale.

Discorso banale? Non proprio. Certo è che da noi la quota di “economia informale non osservabile” (questa, la definizione ufficiale coniata dall’Istat nel 1992, quando per la prima volta la contabilità nazionale ha unificato le stime di evasione, riciclaggio, lavoro nero e finanza criminale) ha superato da tempo i livelli di guardia: in meno di 15 anni il sommerso è quasi raddoppiato, passando da 123,5 a 230,2 miliardi, con progressione quasi geometrica. Unica eccezione il 2002, quando la quota di “nero” stimata si ridusse di oltre il 4 per cento, prima di tornare a crescere più veloce di prima negli anni successivi. Lo scorso anno, secondo dati non ancora definitivi, sarebbero sfuggiti alle rilevazioni del fisco e delle forze dell’ordine tra i 230 e i 245 miliardi, cioè non meno del 16,6 per cento del Prodotto interno lordo (1.340 miliardi nello stesso periodo): un valore che coincide perfettamente con la serie storica compilata dall’Istat. In questa particolare disciplina, l’Italia vanta un record assoluto tra i Paesi occidentali, battendo di molte lunghezze la Francia (8,5 per cento), la Germania (8 per cento), l’Inghilterra (6 per cento) e l’Olanda (4 per cento), e piazzandosi ben al di sopra della media mondiale.

Individuare i fattori che fanno del nostro Paese la Mecca del sommerso non è difficile: leggi e controlli sono più o meno gli stessi in tutto il mondo occidentale. Quel che cambia, in Italia, sono le condizioni ambientali. Da noi le aliquote sui redditi sono più alte della media europea. In più, la maggior parte del reddito fiscale italiano arriva dai lavoratori autonomi e dalle piccole imprese: soggetti strutturalmente deboli, che in caso di difficoltà sono più propensi a ridurre i costi, ricorrendo al lavoro nero e all’evasione.
Per quanto difficile da accettare, insomma, da noi il sommerso aziendale è vissuto dai suoi protagonisti quasi come una leva da azionare per restare competitivi: questo non significa che sia giustificabile, ma solo che la lotta all’evasione e al lavoro sommerso dovrebbe essere accompagnata da strumenti in grado di favorire la competitività, la flessibilità e l’accesso al credito delle nostre piccole e medie imprese.

Nel complesso evasione, capitali occulti e simili coprono quasi due terzi del sommerso tradizionale. Il resto, (40-45 miliardi l’anno), alimenta un altro primato italiano: il lavoro irregolare. Per comprendere la drammaticità di questo fenomeno basta scorrere il rapporto che l’Ispettorato del Lavoro ha reso noto a giugno: i dipendenti irregolari censiti nel primo semestre sono aumentati del 69 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E si presume che si tratti di dati sottostimati, soprattutto per il Nord-Est, territorio in cui il fuori-busta è diventato la nuova frontiera della flessibilità.
Secondo il Censis, il 12,9 per cento dei lavoratori dipendenti risulterebbe impiegato in realtà completamente sconosciute al fisco, senza contare le decine di migliaia di immigrati in settori come l’industria del falso, l’edilizia e l’agricoltura. Gli incentivi all’emersione, invece, segnano il passo: dal 2003 ad oggi sono state sanate appena 16 mila posizioni.
Per reagire in qualche modo, lo Stato punta a rafforzare le ispezioni. La Finanziaria 2007 ha deliberato l’assunzione di 300 nuovi ispettori del lavoro, mentre nel Dpef è previsto lo stanziamento di diversi milioni per coordinare i lavori di Ispettorato, Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate.
Negli ultimi tempi, la lotta all’evasione ha ottenuto più di un risultato tangibile. Ma perché si compia davvero il cambio di passo, è necessario agire anche sulla “zona Grigia”, quella dove il “nero” tradizionale incrocia l’economia criminale. Ecco un altro segno distintivo dell’Italia sommersa: oggi la Malavita SpA è l’azienda più grande e più dinamica del Paese. Quest’anno, infatti, per la prima volta i suoi ricavi potrebbero superare i 100 miliardi di euro (quasi cinque volte il fatturato della Fiat, tanto per intenderci), con un incremento compreso fra il 3 e il 5 per cento sul 2006 e con una progressione costante dal 1992. Se si trattasse di un’azienda vera e propria, i volti dei suoi capi meriterebbero di frequente la copertina di Fortune. Invece dobbiamo accontentarci delle loro foto segnaletiche, visto che i loro business sono droghe (giro d’affari da 26 a 30 miliardi di euro l’anno), prostituzione (12 miliardi), racket (14 miliardi). Soldi facili ed esentasse, che a loro volta alimentano nuovi guadagni.
A livello globale, il denaro controllato dalle mafie ha ormai raggiunto una cifra da fumetto disneyano: 3,78 trilioni di dollari, cioè il 9 per cento del Pil mondiale. E la criminalità italiana è tra le più brillanti nella gestione dei capitali: al netto di quanto speso per mantenere in vita le organizzazioni, i margini sono pari al 75 per cento. Poco più della metà vien fatta emergere, mentre il resto è reinvestito in nuove, lucrose attività illecite.
Evasione, riciclaggio, lavoro nero, finanza dei cartelli del crimine: la mappa dell’Italia sommersa è servita. Sulle possibili soluzioni il dibattito è aperto: stroncare il fenomeno è difficile – si sostiene – ma limitarlo il più possibile è doveroso, purché si usino gli strumenti giusti. Quali? Un buon antidoto potrebbe essere lo spostamento graduale della tassazione dai redditi ai consumi, secondo alcuni. Altri aggiungono che si dovrebbe consentire la detrazione parziale di tutte le spese certificate, come avviene negli Stati Uniti. Ne sarebbe colpita anche l’economia criminale, che dal “nero” quotidiano ricava una gran fetta di utili. Proposte che negli ultimi quindici anni, sebbene sempre presenti nel dizionario della retorica politichese, non hanno mai trovato spazio nelle politiche governative. Mentre il sommerso ha continuato a proliferare. Che sia proprio questo il vero miracolo italiano?

 

   
   
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