Dicembre 2007

fibrillazioni di piazza, strategie aggreganti, debolezze strutturali

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La galassia del disagio
Claudio Alemanno
 
 

 

 

 

Spiace registrare questi segnali
di malessere profondo in un Paese che ha
avuto illustri
precursori di
un umanesimo economico
di frontiera.

 

«...Ciao, adesso devo andare. Dove vai? Da nessuna parte. Ti dispiace se vengo anch’io?». Un messaggio graffitaro estrapolato dal repertorio dei vuoti moraviani, plastico brand dell’Azienda Italia. La transizione dal bipolarismo ingessato al bipartitismo eclettico, novità assoluta dell’era repubblicana, poteva essere una buona occasione per fare, dei problemi “di confino”, altrettanti problemi “di sistema”. Dimostrando sensibilità per la correzione delle spinte inerziali, coniugando solidarietà con legalità, annullando l’equazione flessibilità-precariato, approfondendo le tematiche delle crescenti diseguaglianze dell’economia della conoscenza, dell’integrazione, della coabitazione con le diversità. Coniugando democrazia con velocità e disegnando un modello di sviluppo in linea con la grammatica delle convenienze in era di globalizzazione.

Una nuova filigrana tematica richiede liturgie purificatrici, operazioni audaci con significativa valorizzazione delle potenzialità inespresse. Invece al cronista non resta che annotare altre esibizioni “di cascina”. È difficile che un ibrido abbia un’anima propria. Resta integro il fardello delle incrostazioni accumulate e un volenteroso solista del cambiamento (se c’è) non può vincere il ventre molle della conservazione, non può liberarci dall’equivoco new minimal in cui siamo da tempo impantanati. In tanti incontri febbrili non si è mai parlato di un chief innovation officer, una figura manageriale che lavora a stretto contatto con i “piani alti” per valorizzare il dialogo con la società e ottimizzare l’impiego delle risorse umane.
Il Paese resta diviso. Mancano i megaimprenditori unificanti, gli straricchi pronti a finanziare attività filantropiche di largo impatto sociale (ospedali, scuole, università, centri di cultura, editoria). Molto è pubblico, affidato al monopolio della gestione pubblica. Ma quando una squadra di governo adotta la linea del rigore efficientista trova sul territorio due mezzi Paesi: un Nord plaudente per l’attenzione alla sua vocazione mercantile, un Sud contrario per paura di compromettere gli equilibri concordati nella foresteria delle oligarchie dominanti. Così anime inquiete, sospese tra speranza e rassegnazione, assistono su versanti opposti ad atti di ragioneria privi di sorprese, mentre l’iniziativa legislativa ristagna lungo tortuosi percorsi per globetrotter. L’ingovernabilità è pratica di sistema dovuta alla polverizzazione dei poteri, al labirinto delle competenze, alla elefantiasi degli apparati, cioè ad una serie di circostanze non occasionali che paralizzano la responsabilità decisionale. Non ci sono i buoni e i cattivi, i capaci e gli inetti. C’è un difetto di metodo avallato dalla politica per creare controlli incrociati. Il resto è costume (o malcostume).
L’abitudine alla disciplina di cordata e ai rapporti di forza non fa crescere la cultura del potere unificante, la consapevolezza di un primato dell’interesse generale che crei la sensibilità e la flessibilità necessarie per “fare governo” con ogni risultato elettorale. Mancano i pre-requisiti per tracciare rotte con destinazione prospettica guidata da un unico “codice” di riferimento.
Perduta la forza attrattiva delle ideologie, il re nudo continua a fare esercizio di fantasie imperiali dando ordine ciclico alla mappa del potere. Le forme nuove di comunicazione, partecipazione, rappresentanza continuano ad occupare le liste d’attesa, quando non vanno nel cestino delle caste. Con 1’incubo di restare sempre prigionieri delle divisioni e delle nicchie in cui ci siamo rifugiati. Condannati a vivere il futuro nella sola dimensione che ci viene assegnata, l’incasellamento nelle sfide sociali e nelle battaglie politiche legittimato da un frazionismo virile e collaudato che permane dentro e fuori i tentativi unificanti.
Per creare modelli alternativi bisogna eliminare gli automatismi che producono divisione e anarchia. Partendo dalla necessità di capire come saremo domani, come sarà la futura identità italiana. Mettendo a frutto la mappa aggiornata delle presenze etniche, i frammenti umorali delle nuove generazioni, gli orientamenti delle imprese impegnate nell’innovazione, le opinioni di economisti ed esperti di scienze sociali (Sarkozy ha istituito in Francia il ministero dell’Immigrazione e dell’Identità nazionale, avendo consapevolezza di dover sperimentare nuove vie di contaminazione culturale).
Senza motivazioni etiche è difficile spegnere il brusio protezionista e ragionare di rinnovamento. Il nuovo implica novità di analisi incompatibili con la strategia del “turbare senza disturbare”. Nelle condizioni attuali si lascia spazio solo agli investigatori del passato mentre le aspettative sociali hanno subìto grandi mutamenti. Per dissodare il campo si deve lavorare sull’humus sociale, iniziando a rimuovere i sentimenti stratificati della cultura rural-chic, che con gli storici dualismi (pubblico-privato, laici-cattolici, Nord-Sud) rende difficile l’approdo a scelte univoche e ad ipotesi di continuità e stabilità istituzionali.
Esempi di divisione lasciati correre con indifferenza ne troviamo a iosa. È anacronistico che scuola e università debbano offrire ancora saperi di destra e di sinistra. Rafforzano la Siberia dell’adolescenza e predispongono agli eccessi del rigore e del garantismo con cui gli adulti devono convivere ogni giorno (una bolla dell’irrazionalità). Chi ha responsabilità specifiche – genitori, insegnanti, accademici – dovrebbe denunciare questo battesimo laico in fase di formazione. C’è scarsa attitudine a ragionare con i giovani di crescita civile, dei loro problemi, dei loro bisogni (organizzazione del lavoro, accesso al mercato e alle professioni), a responsabilizzarli verso l’istruzione di “eccellenza” in funzione selettiva, rendendo esplicita la differenza tra valore-sapere e valore-denaro. È come entrare in enoteca e confondere il Brunello con il Tavernello.

Per l’alta dirigenza il passaggio dal pubblico al privato e viceversa è fisiologico nelle democrazie mature, è una costante delle logiche di sistema in Gran Bretagna, nel Nord Europa, negli Stati Uniti. Da noi restano mondi separati, in perenne contrapposizione. Come lontani e separati restano i mondi degli affari e della ricerca. C’è un forte senso di competizione intra moenia che non permette di fare squadra nel sistema.
Tutto ciò non è casuale, è il risultato di un carrierismo programmato con logiche spartitorie che non consentono la reductio ad unum, la dissolvenza verso idee e interessi di pubblica utilità. E mentre si attendono nuove ordinanze per colonnelli e legionari, con moti sussultori per poltrone e poltroncine, la società operosa scopre che dietro gli old talents c’è un problema vistoso di talent shortage, di carenza di talenti lungo tutta la filiera delle medie e alte responsabilità. È il prezzo di una governabilità gestita a lungo con le dinastie, il nepotismo, la cooptazione (si pensi alla lobby degli enti locali – Regioni, Province, Comuni – e alla gestione “politica” del cospicuo capitale impegnato in circa 3.000 aziende controllate o partecipate). Criteri egemoni di selezione che hanno mortificato il fattore leadership nel pubblico e nel privato, compromettendo il normale dinamismo della crescita, del mercato del lavoro, dello sviluppo di moderne relazioni industriali (prevalgono ancora quelle di tipo conflittuale).

Se utilizziamo gli standard valutativi della comunità internazionale basati sulla comparazione dei risultati viene subito in evidenza un risk management dovuto alla rete di paletti che esalta le logiche di apparato e impedisce di coniugare la capacità creativa con la dignità del lavoro illuminato dalla conoscenza, dal merito, dalla professionalità (vige ancora la doppia morale, con il merito considerato tema di eleganti conversazioni da salotto mentre occupazione e carriera appartengono alla catena delle “solidarietà” – famiglia, partito, sindacato). Abbiamo il dovere di registrare un acuto malessere che indebolisce l’identità aziendale e la credibilità dei corpi dello Stato (si leggano i risultati di un’indagine Censis e di una poderosa ricerca – “Generare classe dirigente” – curata da Università Luiss e Il Sole 24 Ore).
Per migliorare la qualità del management non chiediamo pupilli di Oxford ma semplici istruzioni per superare il conformismo che divide, restituendo dignità alle mansioni, alle funzioni, alle professioni, alla formazione, ai risultati di gestione. Una raccomandazione che vale doppio in un sistema tenuto sotto rigida tutela politica e sindacale. Una raccomandazione che nel concreto sollecita reali sanzioni e reali incentivi per recuperare il senso dei ruoli, superando l’egalitarismo massificato sessantottino, la fabbrica della mediocrità e dell’orgoglio impoverito. Dando un senso alla vita prosciugata dal lavoro.
La gente rimuove le cattive notizie e le cattive abitudini. Cresce il distacco dalle politiche conventuali e dalla sindacalizzazione minuta e invasiva («la voglia di rappresentanza usura la scelta di verticalizzazione», dice Giuseppe De Rita). La comunicazione verticale è sostituita da quella orizzontale. Cresce la “cyberdemocrazia”, che dà voce via computer a volontà inespresse o inascoltate (s’innestano così le tentazioni dell’antipolitica).
Le regole sulla concorrenza e la libera circolazione di persone e capitali sono due pilastri dell’economia di mercato. Ma il primo pilastro può funzionare se non è condizionato dal secondo, da un clima insalubre di interferenze trasversali. Tutti i meccanismi di divisione e di confusione sono da tempo sotto scrutinio pubblico, essendosi affinato l’interesse collettivo verso una valutazione strategica dei bisogni durante i periodi di stress prolungato. Alimentano nutriti cahiers de doléances che non sono all’ordine del giorno in nessuna agenda della politica strutturata.

Temi di strada per svolte annunciate. La tutela del potere d’acquisto dev’essere affidata alla difesa dei sindacati o agli automatismi della concorrenza? Le nomine di governo (centro e periferia) devono seguire logiche di convenienza o regole e procedure istituzionali? Il decentramento deve dare funzionalità al sistema o serve solo per tirare a campare? Incentivando la permanenza nel limbo che corre tra le sponde dell’indulgenza e dell’emergenza, di istituzioni svogliate e controlli smagliati. Acqua sporca non fa specchio.
Mentre si fa un gran parlare di liberalizzazioni registriamo rigurgiti di economia pubblica e mista (un po’ di memoria storica non guasta: si legga lo scambio di opinioni Sturzo-Vanoni sulla nascita di Iri ed Eni: è salutare per chi cerca di usare, in un mercato già ampiamente protetto, vecchi ammortizzatori energizzanti). I riformisti restano confinati nelle soffitte dei Palazzi. Cenerentole con facce scure e sorriso raro, alle cui orecchie giungono di tanto in tanto ovattate espressioni di pelosa solidarietà. Come portatori di opinioni irrituali si rendono conto per primi della differenza siderale tra ciò che si fa e ciò che si dovrebbe fare. Tutti sanno tutto, ma continuano a pestare acqua nel mortaio.
Per uscire dall’immobilismo, cioè dall’area del disagio e dell’insoddisfazione, noi immaginiamo circostanze straordinarie, la metamorfosi del capitalismo bipolare in un capitalismo culturale autonomo, discretamente smarcato dalle stanze del potere, unificante e commestibile, capace di creare un nuovo lessico per la democrazia, immettendo nei circuiti d’opinione uno stock elevato di capitale sociale (coesione, legami orizzontali, dialogo con le istituzioni). Un’attività propedeutica di grande valenza formativa per allevare una classe dirigente affrancata dai pedigrée di apparato, per aprire una fase post-dinastica e promuovere generazioni e istituzioni post-ideologiche.
Un’operazione che dovrebbe avere nell’editoria il primo polo di riferimento. Resa necessaria dalla lunga fase di stallo politico e vuoto programmatico, dalle forti turbolenze di sistema aggravate da carenze formative combinate con l’alto tasso di invecchiamento della popolazione. Spiace registrare questi segnali di malessere profondo in un Paese che ha avuto in Olivetti, Senigallia, Mattei, Mattioli, Menichella, Saraceno illustri precursori di un umanesimo economico di frontiera, con marcati riflessi sistemici.
Se adesso compri un grattino all’edicola di Montecitorio non hai sorprese. Se gratti un riformista trovi un eretico, se gratti un immobilista trovi un nostalgico. Eloquente rappresentazione di radicate divisioni, di un opportunismo di trincea che vede l’istinto di sopravvivenza prevalere sulla volontà rigeneratrice (patologia dell’indifferenza). Restano in piedi tutti i grandi interrogativi del Paese. Come si disbosca una foresta pietrificata? Come si recupera lo spirito di frontiera in una società anoressica nell’anima? Come fa a liberarsi dal fatalismo lassista una società priva di pensiero alternativo? Come si aggancia il convoglio della globalizzazione custodendo i santini della conservazione?
Questione di leadership, ovviamente, di sano decisionismo à la carte, che si materializza nella capacità di comunicare convinzioni autonome e professionali lungo tutta la filiera delle responsabilità (cosa diversa dal dirigismo contrattato e bilanciato, compromissorio e pasticcione). Dunque uno “stil novo” nel pubblico e nel privato, un bisogno impellente di fly to quality, come nei periodi di maggiore tensione dei mercati. Ambizioni per intelligenze celesti o risvolti possibili di un marchio di qualità?
Siamo in crisi d’identità e di fiducia. Ma se il realismo non è una colpa da espiare, se non si confonde il nuovo con il nuovismo di bottega, se il quotidiano politico non esalta i poteri d’interdizione, se si esce dalla contrapposizione redistribuzione-sviluppo, se il riformismo ciarliero cede il passo alla grazia illuminante... Si può ancora sperare in una seconda stagione neorealista, in sussulti d’orgoglio, oltre le “cose” nuove, i convegni della domenica, le promesse del lunedì.

 

   
   
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