Dicembre 2007

Noi, l’america e l’economia globale

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I convitati di pietra
Mario Deaglio
Docente al Politecnico di Torino
 
 

 

 

 

 

 

Il mondo si è
capovolto: un buon numero di Paesi che stavano
sotto ora stanno sopra e cercano
di consolidare
questa posizione.

 

Immaginate di vivere in un villaggio situato ai piedi di una parete di roccia bella e compatta che immagazzina calore e difende dai venti freddi. Improvvisamente si scopre che la parete non è solida come si immaginava ma, anzi, è piena di crepe, e che potrebbe franare da un momento all’altro; su questa possibile frana, però, non c’è nulla di certo, potrebbe anche verificarsi fra cent’anni o non verificarsi mai. Che cosa faranno gli abitanti del villaggio? È possibile che si prendano una gran paura, che smettano di investire e pensino di trasferirsi altrove, e in questo caso l’economia andrà in crisi; è ugualmente possibile che, passato un primo momento di sconcerto, decidano di accettare il rischio, facciano l’abitudine a vivere all’ombra della frana, e che per conseguenza nell’economia del villaggio tutto continui più o meno come prima.
Ebbene, quel villaggio è l’economia globale, quella parete di roccia è il dollaro, quelle crepe sono i segnali di debolezza della moneta americana, derivanti, fin dal 2005, soprattutto dall’aumento del prezzo in dollari del petrolio e dalla riduzione del risparmio, privato e pubblico, negli Stati Uniti; a questi si sono aggiunti, nel 2007, sintomi preoccupanti per quanto riguarda i mutui fondiari e il settore edilizio. Per conseguenza, nei prossimi mesi l’economia mondiale sarà dominata dallo spettro del possibile sfaldamento di questa roccia, di un suo franare sul villaggio globale e dalle reazioni degli abitanti del villaggio per sottrarsi alle conseguenze negative della (eventuale) frana. Naturalmente, il problema non è solo economico, ma comprende importanti aspetti politico-strategici e gli economisti, non essendo degli indovini, non sanno come andrà a finire; si può però affermare con sufficiente sicurezza che la supremazia del dollaro, sempre dall’ultima guerra mondiale in poi, viene ormai chiaramente posta in discussione.

Il motivo di questa messa in discussione è sostanzialmente semplice: alla fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti detenevano più della metà delle riserve valutarie ufficiali (a quel tempo auree), e dagli Stati Uniti proveniva circa la metà della produzione del pianeta. Mezzo secolo di crescita globale ha eroso, com’è naturale, questa posizione dominante, e il loro peso sulla produzione mondiale è sceso a circa il 30 per cento. In più, gli Stati Uniti sono divenuti debitori netti per il peso della loro posizione politico-militare internazionale e per la propensione a un modello di vita basato su forti consumi privati, non importa se finanziati con prestiti all’estero.
Per molto tempo questa erosione non ha avuto alcun effetto pratico e quasi tutti i Paesi del mondo, compresi alcuni accaniti avversari politici degli Usa, hanno continuato, in un modo o nell’altro, a fare ampio uso del dollaro perché la qualità e la varietà dei servizi e dei prodotti finanziari degli Stati Uniti erano nettamente superiori a quelli di qualsiasi altro Paese o gruppo di Paesi al mondo: sui mercati finanziari americani tutto può essere rapidamente monetizzato, ossia reso liquido, le valutazioni tecniche dei rischi sono rapide e accurate, i rendimenti spesso più elevati a parità di rischio e i nuovi progetti industriali e le innovazioni tecnologiche sono finanziabili più facilmente che altrove. È questo il cosiddetto soft power, il “potere leggero” dell’America che ha continuato per decenni ad attirare sotto la Statua della Libertà tutti coloro che, da una parte all’altra del mondo, volevano sinceramente fare affari e diventare ricchi.
Nel giro di pochissimi anni è cambiato tutto, e questo cambiamento si è accentuato negli ultimi mesi: il costo della lotta al terrorismo e dell’attività bellica connesso a questa lotta – nonché la riduzione del carico fiscale nel tentativo di evitare a ogni costo una battuta d’arresto dell’economia – non solo ha mandato pesantemente in rosso il bilancio pubblico, ma ha anche colorato di un rosso ancora più pesante i bilanci familiari, per cui oggi la famiglia media americana spende più di quanto incassa e spera di far quadrare i conti con i guadagni di Borsa o l’aumento di valore degli immobili. Per conseguenza, la fine di questi guadagni e di questi aumenti potrebbe innescare effetti particolarmente devastanti sull’economia americana.
Va poi aggiunto che dallo scandalo Enron e dagli altri che l’hanno seguito è emerso un incredibile concentrato di leggerezza e malafede ai vertici del capitalismo americano che ha reso necessaria l’introduzione di leggi severe. Per conseguenza, le grandi transazioni finanziarie sono divenute più lente e costose negli Usa, al punto che sono le stesse Borse americane a cercare legami in altri Paesi e a trasferirvi parte della loro attività. In altre parole, gli Stati Uniti hanno puntato meno sul soft power e più sull’hard power, il “potere pesante” dell’esercito, e il dollaro ha fatto registrare una brutta scivolata: negli ultimi mesi il suo calo rispetto all’euro ha superato l’8 per cento, che si aggiunge a una storia ormai lunga di debolezza (una flessione di circa il 35 per cento sui massimi di nove anni fa).
L’euro si è rafforzato rispetto al dollaro non solo dal punto di vista quantitativo, per effetto di questa scivolata, ma anche e soprattutto da quello qualitativo, dal momento che dalla moneta europea passa ormai una parte ragguardevole delle transazioni finanziarie mondiali. Alle modificazioni dell’economia americana fanno così da contrappunto le variazioni dell’economia internazionale: nella classifica mondiale della produzione la Cina è salita al terzo posto dopo Stati Uniti e Unione europea, mentre in quella delle riserve valutarie si trova addirittura al primo, e il modo in cui impiega queste riserve determina di fatto il cambio dollaro-euro. La capacità dei principali Paesi asiatici di esprimere grandi progetti industriali, buone tecnologie, sofisticati strumenti finanziari, è cresciuta in maniera sorprendente in un tempo brevissimo, e abbiamo visto così multinazionali indiane comprarsi l’industria europea dell’acciaio e multinazionali cinesi acquistare grandi imprese elettroniche americane. Il mondo si è, per dir così, capovolto: un buon numero di Paesi che “stavano sotto” ora “stanno sopra” e cercano di consolidare questa posizione.
Le violente cadute della Borsa americana nel 2007 rappresentano uno degli aspetti più vistosi di questa transizione e pongono interrogativi di fondo sulla capacità dell’attuale sistema finanziario mondiale di riuscire ad assorbire tutte queste spinte, mantenendo invariata la propria struttura. A questo interrogativo nessuno può onestamente dire di avere una risposta, così come nessuno può onestamente negare che il problema esista: la soluzione scaturirà da milioni di decisioni economiche indipendenti di operatori, risparmiatori e mercati, ma soprattutto la scriveranno i due centri effettivi di controllo della finanza mondiale, ossia la Fed, la Banca centrale degli Stati Uniti, e la Bce, la Banca centrale europea.
Dalle finestre del loro quartier generale di Washington, i dirigenti della Fed possono vedere a poca distanza la Casa Bianca in cui il presidente Bush è divenuto – per usare il gergo politico americano – un’“anatra zoppa”, (il presidente non è più rieleggibile e si avvicina al termine del mandato) e la collina del Campidoglio dove siede un Congresso violentemente ostile al presidente. Dall’alto del suo grattacielo di Francoforte, la Bce non ha addirittura nulla da guardare; la mancata approvazione della Costituzione europea ha lasciato i guardiani dell’euro privi di interlocutori e per conseguenza essi agiscono esclusivamente in base a parametri finanziari senza alcun confronto dialettico con la dimensione politica, se si eccettuano alcune dure prese di posizione del presidente francese Nicolas Sarkozy.
La partita dell’economia mondiale sarà giocata quindi in prima linea da Fed e Bce. Al timone della Fed c’è Ben Bernanke, un accademico valente che spera di convincere i cinesi e gli altri asiatici a rivalutare le proprie monete e stimolare i consumi interni, realizzando così un “aggiustamento morbido” per il dollaro; gli fa difetto il carisma del suo predecessore, Alan Greenspan, in grado di orientare i mercati con poche battute, talora enigmatiche. Tra Bernanke e i mercati ci sono state in quest’ultimo periodo numerose incomprensioni, le più recenti delle quali riguardano le difficoltà del settore mutui fondiari: mentre Bernanke si mostrava rassicurante, il numero delle rate dei mutui non pagati saliva e per conseguenza il prezzo delle case scendeva e le Borse si mettevano a tremare. Il governatore americano avrà il compito difficilissimo di convincere sia i suoi concittadini sia gli operatori finanziari di tutto il mondo che l’economia americana ce la può fare.
Per il suo omologo europeo, il francese Jean-Claude Trichet, le cose si presentano solo apparentemente più facili: presto dovrà decidere se controbilanciare un eccesso interno di liquidità e conferire così all’euro un’ulteriore patente di stabilità, oppure se dare maggior peso all’economia reale e lasciare i tassi come stanno. L’eccessiva buona salute dell’euro frena le esportazioni e con esse la già risicata espansione europea; un’opinione diffusa, basata su studi affidabili, indica nel cambio di 1,40 dollari per euro una sorta di “linea del Piave” oltre la quale gli effetti di freno sarebbero molto difficilmente controllabili.
La manovra del cambio chiama in causa la Cina, altro Paese che da sempre controlla strettamente il valore internazionale della propria moneta e che, insieme ad altri Paesi asiatici, sta dando vita ad una sorta di sistema di cambi fissi. È l’inizio di un nuovo dollaro asiatico concordato tra Cina, Giappone, Corea del Sud e le altre “tigri”? È troppo presto per dirlo, ma gli osservatori avveduti dovrebbero guardare la scena con molta attenzione.

Dietro questo balletto delle monete c’è un altro convitato di pietra: il petrolio. Sull’entità delle riserve petrolifere sfruttabili sono state dette molte falsità, e di recente l’Agenzia internazionale per l’energia si è mostrata molto preoccupata. Pur con possibili alti e bassi, tutti scommettono sull’aumento del prezzo; che nel solo 2007 ha ridistribuito a favore dei produttori la bellezza di circa 500 miliardi di dollari, l’uno per cento del prodotto lordo mondiale.
Questo denaro è mobile, instabile, e potrebbe anch’esso giocare un ruolo decisivo nell’assetto economico mondiale. In particolare, i produttori arabi non sono più propriamente felici di investire direttamente queste somme negli Stati Uniti per paura di essere identificati con il discorso terrorista e di rischiare eventuali confische. Preferiscono utilizzare mediatori inglesi, il che spiega la crescente fortuna della piazza di Londra, e si stanno creando a Dubai un proprio centro finanziario internazionale.
Cari lettori, se, arrivati al fondo di questo articolo, vi sentite piccoli piccoli e un po’ sperduti in questo mondo dinamico e disordinato, qualche buona ragione sicuramente l’avete. L’economia europea nel suo complesso ha perso d’importanza nello scacchiere mondiale a seguito dell’ascesa asiatica, ma l’economia italiana ha perso di importanza anche all’interno dell’Europa perché poco presente nei settori veramente strategici e dinamici come l’elettronica, l’energia, le telecomunicazioni.
Abbiamo cominciato faticosamente a rendercene conto e abbiamo ripreso a crescere, e non mancano segni promettenti nelle banche e nelle grandi come nelle piccole imprese; questa crescita, però, è inferiore a quella media europea e per conseguenza continuiamo a perdere terreno, anche se più lentamente di prima; ci vorranno lustri, se non decenni, oltre a molta fortuna, per ribaltare una simile situazione.
Dobbiamo cominciare a renderci conto che una manovra dei tassi decisa a Francoforte può essere più importante di una Legge finanziaria decisa a Roma (la quale, a sua volta, deve avere l’approvazione di Bruxelles). Se il mondo eviterà passaggi bruschi, l’economia italiana continuerà lentamente a migliorare, ma nulla ci toglierà di dosso, per molto tempo ancora, un alone di precarietà. Di fronte a tutto ciò, sono naturalmente condizioni necessarie il miglioramento della situazione del debito pubblico e leggi migliori per le imprese.
Non si tratta però di condizioni sufficienti, in quanto siamo in balia di una congiuntura mondiale che nessuno più controlla: forse, con un gesto molto italiano, ci conviene incrociare le dita e sperare che le ondate non squassino troppo la barca, vecchiotta e bellissima, della nostra economia.

 

   
   
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