Dicembre 2007

fuori i luddisti dalla politica. O Fuori l’italia dal g7

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Gli anni del declino
Florestano Galante Rossini
 
 

 

 

 

Fuori i profeti
dell’antimodernismo dalla politica,
fermiamo il mondo, e invitiamo costoro a scendere.
Altrimenti, per
il bene di tutti,
scaraventiamoli giù.

 

John Maynard Keynes, il celebre economista britannico, avrebbe definito l’accordo sulle pensioni in Italia come una “vittoria cartaginese”. Utilizzò questa espressione nel suo saggio Le conseguenze della pace, che profeticamente illustrava come sarebbero state nefaste per il mondo le condizioni superpunitive del Trattato di Versailles e imposte alla Germania nel 1919. Il quartetto composto dai Primi ministri britannico, David Lloyd George, italiano, Vittorio Orlando, francese, Georges Clemenceau, e dal presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, concordò con miopia, dopo cinque mesi di accanite trattative, un accordo che cedeva ad un unico estremismo: quello francese. A dispetto della propaganda, il wilsonismo e i suoi 14 Punti, la base moderata per negoziare la resa che aveva convinto i tedeschi a deporre le armi, naufragarono per mancanza di leadership, di comprensione da parte dell’Europa e di contenuti.
La leadership, vale a dire la capacità di intuire gli eventi nel breve e nel medio-lungo periodo, di comunicare, di educare (dal latino educere) e di creare proseliti, è una delle tematiche più affascinanti e dibattute della recente pubblicistica, soprattutto in campo manageriale.
La storia si ripete. L’Italia, come molti Paesi occidentali caratterizzati da democrazie mature, soffre di un deficit cronico di leadership politica. Esistono, è vero, alcuni sparuti talenti, ma non esiste la massa critica che sappia interpretare il proprio ruolo al passo con i tempi e le esigenze del nuovo scenario complesso dell’economia e della società moderna.

 

Il “secolo breve”, il Ventesimo, si è concluso con una vittoria schiacciante: il trionfo del sistema capitalistico rispetto a qualsiasi altra forma di organizzazione economica, comunismo in primis. Ne è conseguita una nuova e travolgente fase di espansione economica e di integrazione delle economie, agevolate dalla rapidità ed efficienza del mercato dei capitali che, sfruttando l’omogeneizzazione delle tecnologie abilitanti, ha colto le opportunità fornite dalle liberalizzazioni e dalle privatizzazioni. In una parola: la globalizzazione. Il mondo, come affermava lo stesso Keynes, era altrettanto globalizzato nel 1914.
Quella che viviamo è però molto peculiare rispetto a qualsiasi altra epoca: l’integrazione delle economie è avvenuta grazie al “rule of low”, (secondo legge), opposto a quello delle armi, sulla base di un codice anglosassone condiviso per condurre gli affari in più di 200 nazioni indipendenti, contro le sole 50 del 1900.
Abbiamo vissuto l’era clintoniana (1993-2001) percependo il mondo come un mercato senza frontiere da conquistare attraverso un business plan. Durante lo stesso periodo, e incredibilmente, giudicavamo la politica come un costo da sopportare e le chiedevamo, principalmente, di legiferare in favore di un commercio, soprattutto elettronico, ancora più libero e fluido grazie a Internet. Da questa lunga bonanza nasce la prima asimmetria di questa fase della globalizzazione. Le aziende si regionalizzano e globalizzano, accumulando competenze e risorse tecniche e finanziarie, ma, soprattutto, di capitale umano, senza precedenti. La guerra per accaparrarsi i migliori talenti (ingegneri, economisti, matematici, fisici, chimici) è confinata ai grandi del settore privato.
E i risultati lo dimostrano. Le aziende non hanno mai prodotto tanti profitti come in questi ultimi anni. È una cifra colossale: più del 15 per cento del Prodotto interno lordo cumulato di Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Canada, cioè i Paesi del G7. Questo avviene in maniera concentrata e non distribuita. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’1 per cento dei più abbienti riceve il 16 per cento di tutti gli stipendi contro l’8 per cento del 1980.
Allo stesso tempo la politica si svuota, perde attrattiva per i giovani, smarrisce la sua missione e perde il contatto con questa fase frenetica, intensa e sempre più complessa dell’economia. La politica si localizza sempre più in virtù del meccanismo di ricerca del consenso democratico. La globalizzazione favorisce i progetti di delocalizzazione delle produzioni, esporta posti di lavoro verso le economie dove il costo del lavoro è più basso e alimenta nella popolazione occidentale sentimenti di insicurezza e di paura circa il futuro. La politica non intermedia, e quando lo fa è goffa, con politiche protezionistiche come negli Usa per l’acciaio o in Europa per il tessile.
Il baricentro del mondo si sposta verso Est con l’emergere di giganti quali l’India e la Cina. Nel 2005 il Pil della Cina, se misurato con potere di acquisto locale e non a tassi di cambio, è passato dal quarto al secondo posto nel mondo, dietro gli Stati Uniti. Secondo lo stesso metodo, l’India è già la quarta potenza mondiale. Le stime prevedono che nel 2040 la Cina sarà la prima economia al mondo, seguita a ruota dagli Usa e, quindi, dall’India.
A quella data l’Italia non sarà nel novero delle prime dieci economie planetarie. Questo avviene, tra gli altri motivi, perché India e Cina si riposizionano rapidamente su segmenti a più alto valore aggiunto scientifico e tecnologico, grazie alle università che oggi laureano più ingegneri di qualsiasi altra nazione a un ritmo, rispettivamente, di 700 mila e 500 mila l’anno.
Queste sono proiezioni economiche che vanno interpretate con giudizio e senso storico. Non contemplano probabili incidenti di percorso come, per esempio, l’avvento di un governo in India ancora più a sinistra piuttosto che l’ambizione della classe media cinese di diventare protagonista della politica creando scontri con il Partito comunista centrale. Rimangono in ogni caso delle potenze economiche che è bene non sottovalutare, perché non più solo low cost.

In questo stesso periodo, la politica crea ampi vuoti in termini di proposte e soluzioni che vengono colmati dalla società civile e organizzazioni non governative che danno voce al malcontento e all’insicurezza. Spesso questi movimenti sono populistici e cavalcano il malcontento, ma non ne sono leader.
I mass media, grazie al web, cambiano anch’essi in modo radicale. Il vecchio circuito centralizzato di costruzione dell’opinione basato sul potere delle televisioni di individuare, riportare e informare le popolazioni in tempi e metodi prestabiliti viene, incrementalmente, soppiantato dall’informazione à la carte: ogni navigatore accede al web, seleziona le sue fonti e si crea un palinsesto su misura. Con una piccola, grande variante: che le informazioni su Internet non sono controllate, nel bene e nel male, e le fonti non sono sempre attendibili.

Fin qui, l’analisi. Ma la soluzione? Nell’odierna globalizzazione esistono tre livelli. Nei primi due, quello geopolitico trans-nazionale e quello regionale, sono in corso lavori di profonda ristrutturazione per adeguare missione, strategia, processi e capitale umano alle nuove sfide. Nel primo livello, in particolare, tutte queste istituzioni sono state fondate tra il 1944 (Fondo monetario e Banca mondiale) e il 1975 (G5, poi diventato G7+Russia). Altra epoca, altre sfide. Entrambi i settori impiegheranno degli anni. La soluzione e l’opportunità devono partire dal locale, dove i leader hanno giurisdizione, potere rappresentativo e interesse a creare comunità il più possibile coese: operare all’interno della megacommunity, cioè la sfera dove convergono interessi economici, sociali e politici che, se non intermediati e ottimizzati, generano conflitti, favorendo tutti gli estremismi.
Lo scenario, quindi, è strutturalmente cambiato, mentre persistono ancora atteggiamenti da fine anni Ottanta, in quasi tutti i settori. È tempo che i leader dei tre settori-cardine del nostro convivere prendano seriamente in considerazione che le sfere di influenza e di competenza sono mutate e che sono necessari un nuovo contratto sociale e nuove competenze per continuare nell’attuale traiettoria di sviluppo. La globalizzazione è un processo positivo che va guidato e intermediato (non fermato) appunto dalla politica, e non può essere lasciato alle sole forze e leggi di mercato. Basti ricordare che il Pil pro-capite delle nazioni che hanno abbracciato la globalizzazione è cresciuto in media del 2 per cento all’anno negli ultimi vent’anni e che tale processo aiuta a mantenere bassa l’inflazione e quindi il relativo costo del denaro.
Continuare a sostenere con ottica da compartimenti stagni che alla politica spetta la creazione del consenso, e che la società civile sia entità trascurabile, non è più tollerabile. Dal canto loro, i leader delle aziende devono comprendere che la creazione del valore per l’azionista è possibile se, e solo se, ci siano supporto e adesione generale.
In Italia il movimento “anti-tutto”, alimentato da “scienziati” formatisi sui manuali del Bignami, rischia di tagliarci ancora fuori dal novero delle nazioni industrializzate ben prima del 2040. Oggi le istanze sociali devono diventare parte dell’agenda strategica del Consiglio di amministrazione e del top management, non per invadere la sfera della politica, ma per creare valore per l’azionista. Un tempo le imprese studiavano i militari e adottavano i loro schemi di comando per forgiare le organizzazioni aziendali. Oggi, la politica che ricomincia a comprendere il valore della formazione e della meritocrazia può e deve attingere al know how delle aziende per capirne le esigenze non solo domestiche, ma – soprattutto – internazionali.

La comprensione di ciò che accade sui mercati internazionali è fondamentale per riconquistare quel primato e quella leadership per intermediare e quindi forgiare politiche che rispondano alle esigenze del tessuto produttivo. L’unione di queste forze non può non includere la società civile, che è spesso lasciata in balia di demagoghi che fomentano paure, specialmente quando si tratta di materie complesse e tecnologicamente complesse. È necessario creare una cultura della convivenza con quei lati meno confortevoli dello sviluppo. In Italia ciò esiste, per esempio, nelle comunità che, nel silenzio mediatico generale, ospitano stoccaggi dell’ex patrimonio nucleare. Gli otto candidati alla Casa Bianca hanno affrontato sulla Cnn il pubblico del web attraverso il collegamento con YouTube, un sito il cui contenuto e il cui successo sono forniti dai clienti, che poi ne sono, virtualmente, i proprietari. Il primo spot di Hillary Clinton è andato su Internet.
E la par condicio? I telegiornali, i salotti di “Porta a porta”, “Anno zero”, “Ballarò” fanno opinione così come dieci anni or sono? Siamo ancora negli anni Ottanta. È abbastanza paradossale che, con fierezza, oggi affermiamo che negli anni Cinquanta la Rai ha aiutato a creare gli italiani repubblicani e a diffondere la nuova cultura, e negli anni Sessanta ha sviluppato un’informazione tra le migliori al mondo; e, allo stesso tempo, siamo scoraggiati, perché con più mezzi, oggi, tarpiamo il possibile nuovo concerto dei media.
Alta velocità, rigassificatori, riconversione a carbone pulito, nucleare, termovalorizzatori, autostrade, ponte sullo Stretto di Messina: negato da un pugno di luddisti e di demagoghi, e dagli appecoronati che li seguono, tutto ciò che è strumento di ingresso nella modernità; e poi mancato smantellamento delle corporazioni, enti inutili voraci e insopprimibili, caste e sottocaste, e poi ancora cartelli del crimine inestirpabili, il Sud per tanta parte alla deriva terzomondista, la questione morale che non si risolve anche per questioni ideologiche e settarie: tutto questo e altro ancora non ci procurerà neanche le “vittorie cartaginesi”, al modo di quelle del 1919.
Niente di tutto ciò ci porterà a una guerra, ma determinerà l’impoverimento del Paese, la fuga dei talenti e dei capitali, le gravi difficoltà che dovranno affrontare le nuove generazioni, le problematiche terrificanti che porrà un melting pot italo-afro-asiatico che rischia di trasformare il giardino dell’Europa in una promiscua e ingovernabile casa di accoglienza di diseredati che non può sfamare né curare, neanche in forza del più propenso relativismo civile e culturale.
Fuori gli statolatri e i profeti dell’antimodernismo dalla politica, dunque, perché il tempo è prezioso, le economie dinamiche corrono a velocità esponenziale, l’antropologia civile e culturale di tanti popoli, al contrario della nostra, è in forte evoluzione. Fermiamo il mondo, e invitiamo costoro a scendere. Altrimenti, per il bene di tutti, scaraventiamoli giù.

 

   
   
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