Dicembre 2007

rilancio dell’economia italiana

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I sentieri della ripresa
Richard Vietor Docente Harvard University
 
 

 

 

 

 

 

Per ridurre il
deficit, il ministro dell’Economia
ha ritenuto più semplice
aumentare le
tasse, sebbene
le tasse italiane siano tra le più elevate d’Europa.

 

L’Italia è un Paese straordinario: bella gente, un’incantevole campagna con un incredibile passato, cibi e vino straordinari e un’economia sofisticata, i cui prodotti sono conosciuti in tutto il mondo. Già nel 1986, l’economia italiana superava del 9 per cento quella del Regno Unito, ma dal 2000 la crescita economica in Italia ha subìto una fase di stagnazione e la sua tanto decantata competitività è diminuita così drasticamente che il surplus commerciale di 46 miliardi di euro di dieci anni fa è crollato fino a diventare un deficit di 9 miliardi nel 2006.
Ma che cosa è accaduto? Negli anni Novanta l’Italia si è battuta per adeguarsi alle inchieste di Mani Pulite e ai criteri imposti dal Trattato di Maastricht. Al 2 gennaio 1999, l’Italia ha notevolmente svalutato la lira e adeguato la sua politica di bilancio, dopo grandi privatizzazioni. In questo modo ha realizzato i criteri imposti da Maastricht (con il suo rapporto debito/Pil in calo verso il 109 per cento) ed è entrata a far parte dell’Unione monetaria insieme ad altri dieci Stati membri dell’Ue. In ogni caso, due fattori (spesa in disavanzo e svalutazione) hanno rappresentato una sorta di droga che ha incoraggiato la crescita in modo quasi patologico, ritardando l’applicazione di misure più efficaci per mantenere la competitività del Paese.
Ma quanto è grande il problema? Nel 2001 la crescita economica ha subìto un rallentamento, per poi entrare in una fase di stagnazione, con appena lo 0,9 per cento l’anno. La popolazione ha smesso di crescere, gli investimenti hanno smesso di crescere, e, cosa più importante, il capitale ha smesso di crescere. L’incremento della produttività del lavoro è stato -3 per cento per i sei anni successivi al 2000, pari al -5 per cento annuo. La produttività totale dei fattori era ancora peggiore. In altre parole, l’Italia sembrava essere in piena fase di involuzione.
Mentre la produttività registrava un andamento negativo, l’Italia è entrata a far parte dell’Uem. L’inflazione, almeno nel breve periodo, è aumentata quando si è passati dalla lira all’euro. I dettaglianti, non avendo dimestichezza con le monete dell’euro, hanno aumentato i prezzi. Se prendiamo gli aumenti salariali e detraiamo l’aumento della produttività, otteniamo la crescita in termini di costo unitario del lavoro – l’essenza della competitività. Mentre il costo unitario del lavoro in Italia è aumentato del 22 per cento nel 2006, quello in Europa è salito solo del 2,4 per cento. Ne è derivato un netto calo della quota italiana delle esportazioni a livello di commercio mondiale, passando dal 4,7 per cento del 1994 al 3,7 per cento del 2005. Il saldo della sua bilancia commerciale, una volta pari a 46 miliardi di euro, recentemente è diventato negativo, quando nel 2006 le importazioni sono aumentate del 14 per cento.

Ho avuto l’opportunità di esaminare attentamente la strategia di sviluppo nazionale italiano e di conoscere i problemi che contribuiscono al dilemma della competitività. Il primo riguarda la rigidità del mercato del lavoro, così come riguarda il divario ideologico incolmabile e il sistema politico frammentato. L’Italia è fortemente sindacalizzata. Ciò non rappresenta un problema di per sé, ma gli accordi negoziati nel corso degli ultimi trent’anni hanno dato luogo a un sistema non flessibile. La cosa peggiore sono le restrizioni sulle assunzioni e sui licenziamenti – situazioni che qualunque economia dinamica deve poter affrontare liberamente. Come mi ha raccontato più di un dirigente italiano, «il licenziamento non esiste sulla carta!». Un altro mi ha spiegato che «se licenzi un dipendente, anche per giusta causa, devi andare davanti a un giudice che solitamente ti fa riassumere il dipendente e ti chiede i danni». E alla messa in cassa integrazione, naturalmente, hanno fatto seguito lunghi periodi di pagamento dei sussidi di disoccupazione, accollando un peso intollerabile allo Stato.
Negli Stati Uniti, invece, il licenziamento a discrezione del datore di lavoro richiede appena due settimane, con il pagamento di sei mesi di disoccupazione. In parte come conseguenza, la disoccupazione in Italia negli ultimi 15 anni si è aggirata intorno al 9 per cento, con cifre molto più alte per il Sud e molto più basse per il Nord, mentre negli Usa si è aggirata intorno al 5 per cento.
Comunque, nel 2003 l’Italia ha iniziato a fare progressi con la Legge Biagi. Due dei tre sindacati nazionali dei lavoratori hanno accettato di provare ad abolire, almeno temporaneamente, le restrizioni sui licenziamenti per le aziende con un numero minore di dipendenti. Da quel momento l’assunzione dei lavoratori temporanei ha vissuto una grande espansione e il tasso di disoccupazione in Italia si calcola sceso al 6,5 medio per cento, nonostante la lenta crescita. Ciononostante, era rimasto ancora notevole margine per ritardare il pensionamento, per la flessibilità dell’orario di lavoro e forse per condizioni più convenienti per le ferie e le vacanze, per l’assistenza sanitaria e persino per condizioni più restrittive sulle variazioni di località o di livello di inquadramento.
Un secondo problema correlato è l’eccessiva regolamentazione dello Stato. Nel 2006 la Banca mondiale ha collocato l’Italia all’82° posto in classifica per la facilità di svolgere un’attività, al di sotto della Colombia (79°), del Kazachstan (63°) e della Mongolia (45°). Ciò che ha contribuito a questo triste primato sono stati i mercati fortemente regolamentati. Secondo lo studio della Banca mondiale, in Italia ci vogliono 284 giorni per acquisire una licenza per metter su un negozio, contro i 181 giorni dell’Irlanda, i 133 della Germania e i 69 degli Stati Uniti. Per far rispettare un contratto, gli italiani devono intraprendere 40 procedure, avendo così bisogno in media di circa 1.210 giorni. Ancora una volta ogni confronto è sfavorevole, se si pensa all’Irlanda (18/217), alla Germania (30/394) o agli Stati Uniti (17/300).

Il terzo problema è l’insufficiente competizione a livello di istruzione superiore. La competizione per le cattedre universitarie è bloccata da «patrocinii, amicizie e posti di ruolo garantiti», come lamentava di recente l’Economist, e anche la competizione tra le università per richiamare gli studenti è debole. L’Italia sembra avere troppe università (diluendo le risorse governative) che hanno accettato soprattutto candidati del luogo. La percentuale di laureati è la più bassa in Europa, e di questi solo pochi hanno conseguito una laurea tecnica.
Una scarsa competizione influisce sul business; certamente fa parte della struttura dell’industria in Italia. Il settore privato è più frammentato rispetto a qualunque altro Paese d’Europa. Cioè, la dimensione media di un’azienda industriale è di soli 9 dipendenti, se paragonata alla media all’interno dell’Unione europea, pari a 16; le aziende di servizio hanno una media di 3 dipendenti ciascuna, se paragonata alla media di 5 dipendenti dell’Ue.
La conseguenza di questa microrigidità e della lenta crescita economica sono stati i problemi di budget che hanno sommerso almeno gli ultimi tre governi. Mentre molti dei più grandi Paesi Ue hanno incontrato difficoltà nel raggiungere gli obiettivi fissati nel Patto di crescita e stabilità per ridurre il deficit di bilancio, quello dell’Italia è notevolmente cresciuto dal 2001, non raggiungendo gli obiettivi sin dal 2003. I motivi sono svariati. La lenta crescita economica ha rallentato le entrate, mentre la mancanza del consenso politico e i sempre più elevati obblighi verso una popolazione che invecchia hanno esercitato una pressione al rialzo sulle spese. Una seconda conseguenza a più lungo termine di questi deficit è che il debito, in termini percentuali del Pil, è passato nuovamente al 107 per cento e il pagamento degli interessi sul debito (anche se con tassi più bassi) assorbe il 9 per cento del bilancio statale.
Per ridurre il deficit, il ministro dell’Economia ha ritenuto più semplice aumentare le tasse, sebbene le tasse italiane siano tra le più elevate d’Europa. Diminuire le spese è quasi impossibile per via della frammentazione all’interno del sistema politico e per la convinzione ideologica molto diffusa nella società di poter “prendere dallo Stato”. Inoltre, sono in fase di crescita sia le pensioni sia i costi sanitari, date le maggiori aspettative di vita degli italiani.
Soltanto dopo il 2003-2004 le aziende italiane iniziarono a reagire. Gli adeguamenti implicano fusioni e migliori economie di scala, catene di fornitura più ampie e meno costose e un migliore finanziamento attraverso la deregulation delle banche italiane, e persino lo spostamento della produzione in Asia. In questi sforzi, l’Italia ha tratto beneficio dall’euro, che ha ridotto gli interessi pagati sul debito pubblico e privato. Solo negli ultimi dodici mesi questi adeguamenti hanno cominciato a dare buoni risultati. Nel 2006 l’export italiano è aumentato dell’11 per cento. E se non fosse stato per l’enorme importazione dell’Italia di petrolio e gas a caro prezzo, il suo saldo commerciale forse sarebbe tornato positivo. Come hanno precisato i responsabili dell’economia, nella prima metà di questo decennio ha avuto luogo una profonda ristrutturazione del settore manifatturiero, e l’attuale ripresa ne è il primo segnale.
Simultaneamente, però, tutti hanno riconosciuto la necessità di portare avanti le riforme: non l’anno prossimo, ma subito. Questo è il punto di vista del Fondo monetario internazionale. Altri Paesi europei si stanno adeguando. La Cina sta diventando più forte, l’India sta decollando ora, e i mercati mondiali continuano la loro globalizzazione. Gli elevati costi energetici non muteranno, e la Cina sarà un centro manifatturiero a basso costo per i decenni a venire. È decisamente più facile per un osservatore come me far notare problemi anziché formulare soluzioni. Mentre la politica italiana rende difficile la liberalizzazione, molti italiani sono frustrati dalle tasse elevate, da una debole istruzione superiore e da un’eccessiva regolamentazione governativa. Ecco da dove dovrebbero iniziare le riforme.
L’Italia deve crescere in produttività, in capitale di rischio e in ricerca. Deve avere più ingegneri e programmatori di pc, e mercati finanziari più efficienti. Deve ritardare l’età della pensione, soprattutto per gli impiegati della pubblica amministrazione, deve aumentare le ore lavorative e deve collaborare con i sindacati per incrementare la flessibilità. In via preliminare, deve chiarire proprio ai sindacati i costi della non-flessibilità, e far pressione sui lavoratori perché si assumano la responsabilità della crescita. Deve esercitare pressioni perché venga migliorata l’istruzione superiore, forse seguendo l’esempio americano, con maggiore privatizzazione, più concorrenza tra facoltà, e reindirizzando i finanziamenti governativi verso ingegneria, biotecnologia, scienze e management.
In sintesi, cercherei di trattare l’Italia come un’azienda che deve essere concorrenziale. Deve competere contro altri Paesi top, come il Giappone, gli Stati Uniti, la Germania. E deve competere contro produttori di massa a basso costo, come la Cina per le merci e l’India per i servizi. Dunque, pensiamo all’Italia come ad una SpA. Ma facciamolo adesso. Perché, se non adesso, quando?

 

   
   
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