Dicembre 2007

il futuro dell’america

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Frenata in vista
Joseph Stiglitz Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

 

Molta gente,
non è più in grado di ripagare
i propri debiti.
E non parlo
soltanto delle
classi meno
abbienti.

 

Non lancio anatemi. Avverto soltanto. I più sono convinti che una crisi non ci sarà soltanto perché negli ultimi anni non c’è stata. Sbagliano: l’economia americana è già alle corde. Perché il debito pubblico statunitense ha raggiunto livelli insostenibili, perché il biglietto verde è ai minimi storici, o quasi, e perché il mercato immobiliare è evidentemente in recessione.
È vero che qualche miglioramento c’è stato, a cominciare dal deficit, ma è altrettanto vero che c’è poco da festeggiare. Alla base di tutto c’è proprio la debolezza del dollaro che traina le esportazioni. È un’arma a doppio taglio. Nel senso che se continua così c’è il rischio che la valuta americana perda il proprio appeal sui mercati internazionali e non venga più percepita come bene-rifugio.
E mi riferisco all’eventualità che le banche centrali riducano in un futuro tutt’altro che lontano le proprie riserve in dollari. C’è già chi l’ha fatto. Optando, fra l’altro, per l’euro. Prendiamo la Russia, per esempio: la quota della moneta unica europea nei suoi forzieri è in netto aumento. E non si tratta certamente di un caso unico. Anche gli Emirati Arabi, la Cina e il Giappone hanno imboccato la stessa strada.
Per quel che riguarda lo studio recente della Banca centrale europea, secondo cui la crescita dell’euro nei depositi delle banche centrali è ancora limitata, devo ribadire che ho paura che si tratti soltanto di una questione di tempo. E oltre tutto, non ci sono solo le riserve valutarie. È da tempo, tanto per capirci, che i produttori di greggio si interrogano sulla possibilità o meno di farsi pagare in euro. E lo stesso potrebbe succedere per le altre materie prime.
Ricordiamo che per il petrolio c’è sempre il rischio di nuove impennate: da questo punto di vista, lo scenario non è rassicurante. È sufficiente che un solo Paese decida di tagliare la produzione dell’oro nero perché le quotazioni del barile schizzino in avanti. Penso a un Paese produttore su tutti: l’Iran.
Ovviamente, ne risentirebbe l’inflazione. E a quel punto le banche centrali sarebbero costrette a correre ai ripari: alzando, ancora una volta, i tassi. E dal momento che lo stesso governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha accennato al rischio che l’inflazione non scenda come previsto, ripeto che i fattori di instabilità ci sono tutti, e che vanno tenuti nella dovuta considerazione.

Per quel che riguarda poi il mercato immobiliare, sono in molti a puntare il dito su di esso. Perché sanno che è già in recessione. Città come Detroit, San Diego e Boston, per esempio, hanno da tempo innescato la retromarcia con un crollo delle quotazioni anche a doppia cifra. E le altre metropoli non sono certo al riparo da analoghi scivoloni. A risentirne sono soprattutto società costruttrici, banche e quant’altro. Dunque, non escludo effetti a catena sugli altri settori. Le prime avvisaglie ci sono già state con i tracolli, ai primi dell’anno, degli istituti di credito specializzati in mutui sub-prime, vale a dire concessi a clienti con caratteristiche di affidabilità finanziaria inferiore agli standard.
Ovviamente, la speculazione c’è, ed è un problema non da poco. Ma il mercato del sub-prime è vasto, e soprattutto coinvolge, direttamente o indirettamente, diversi pesi massimi della finanza internazionale. A cominciare dagli hedge fund. E questo non mi tranquillizza. Anche perché il loro portafoglio è di fatto ignoto e, dunque, è impossibile appurare se siano o meno sovraesposti su un determinato mercato, compreso quello dei mutui. E poi non possiamo far finta che il rischio insolvibilità non ci sia. La gente, molta gente, non è più in grado di ripagare i propri debiti. E non parlo soltanto delle classi meno abbienti.

Si può obiettare che, malgrado tutto, i consumi resistono. Ma non va dimenticato che nel 2006 il tasso di risparmio delle famiglie americane è scivolato per la prima volta sotto lo zero, attestandosi a meno l’un per cento. La teoria economica, invece, ci dice che il livello naturale sia il 4 per cento. Quindi, a conti fatti, scontiamo un gap del 5 per cento. Che, alla lunga, diventerà insostenibile.
In conclusione: nel breve-medio periodo parlerei di crescente rischio di rallentamento per gli Stati Uniti. Il che significa che la parola “recessione” non va per niente cancellata dal vocabolario americano.

 

   
   
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