Dicembre 2007

deficit americano

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Dollaro a rischio
Kenneth Rogoff Docente Harvard University
 
 

 

 

 

C’è da
scommettere che
il nuovo Presidente americano,
democratico
o repubblicano che sia, non esagererà con il ripristino della prudenza
fiscale.

 

C’è stato un momento in cui l’Amministrazione americana conteneva a stento la propria gioia nell’annunciare con toni trionfali un calo del deficit federale per l’esercizio 2007 a poco più di 200 miliardi di dollari (145 miliardi di euro), vale a dire l’1,5 per cento del Prodotto interno lordo statunitense. Sebbene il costante disavanzo non contribuisca certamente a dipingere degli Stati Uniti un ritratto esemplare di prudenza fiscale, il dollaro vale meno della metà rispetto al 2004.
Ufficialmente, alcuni democratici continuano a condannare la dissolutezza di Bush II, auspicando il ritorno al conservatorismo fiscale di Clinton I. Sotto sotto, tuttavia, molti iniziano a chiedersi perché un possibile Presidente democratico nel 2008 dovrebbe preoccuparsi di risanare il bilancio del governo, se il risultato finale potrebbe essere quello di consegnare nelle mani del prossimo Presidente repubblicano una fetta di torta maggiore da far regalare a questo o a quell’amico. Certamente, dal 2000 in poi, anche con una normalizzazione dei tassi di interesse a lungo termine, si è confutata la credenza che un considerevole disavanzo nei bilanci pubblici statunitensi condurrebbe automaticamente a maggiori tassi di interesse e a una minore crescita. Ma è davvero così?

Partiamo dalle buone notizie. La travolgente globalizzazione economica ha reso la politica di spesa statunitense molto meno determinante per i tassi di interesse reali internazionali. Anziché un’impennata di quei tassi, gli esigui livelli di risparmio pubblico e privato negli Stati Uniti hanno prodotto un pesante deficit di conto corrente. Il continuo apporto straniero contribuisce probabilmente a frenare la scalata dei tassi di interesse reali americani di almeno l’1,5 per cento, o forse anche più.
Ma diamo a Cesare quel che è di Cesare. La decisione dell’amministrazione Bush di ricorrere in modo drastico all’indebitamento, in un periodo in cui i tassi di interesse a lungo termine sono scesi in modo altrettanto drastico, non è stata una cattiva intuizione di mercato.
In un contesto caratterizzato dallo sviluppo asiatico, dalla disponibilità degli Stati del petrolio a fornire liquidità a basso costo e dalla bassa domanda di investimento globale, gli Stati Uniti sono riusciti a prendere a prestito cifre notevoli a tassi molto più vantaggiosi di quelli immaginabili solo sei o sette anni fa.
Potremmo stare a discutere se i tagli fiscali dell’attuale Amministrazione avrebbero dovuto avvantaggiare meno gli americani più benestanti, complicando il sistema contributivo. Ci si può lamentare di come sia stato sperperato tanto denaro per la catastrofica invasione dell’Iraq. Ma il deficit targato Bush non si è rivelato quel disastro di crescita immediato che alcuni presagivano.
Certamente, quando i rappresentanti di questa Amministrazione iniziavano a discutere di tagli fiscali, con ogni probabilità non immaginavano di doversi poi rivolgere alla Cina, all’Arabia Saudita e alla Russia per chiedere denaro. I politici americani erano invece sedotti dal falso convincimento che se il governo avesse tagliato l’aliquota marginale d’imposta, l’economia sarebbe cresciuta così tanto che gli introiti fiscali totali sarebbero, di fatto, aumentati.
Purtroppo, sebbene la famosa curva di Laffer dell’era Reagan abbia un suo fondamento di verità, l’effetto positivo non è stato sufficiente ad evitare che i conti federali dell’ultimo decennio precipitassero in rosso.
Non dimentichiamo che l’acclamata cifra di 200 miliardi di dollari citata dal Presidente si riferisce al deficit “unificato” che include l’attivo della Social Security. Senza questo escamotage contabile (peraltro non inventato dall’Amministrazione Bush), il debito 2007 ammonterebbe a più del doppio.

Sia l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico sia il Fondo monetario internazionale ritengono la politica del deficit statunitense molto più pericolosa di quanto in realtà non sembri. Gli Stati Uniti dovrebbero accumulare enormi utili in vista delle imminenti pensioni di anzianità e dei crescenti costi sanitari.
L’Ocse e il Fmi condividono le stesse preoccupazioni anche per gli altri Paesi ricchi. Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, chiosava in modo eloquente le ultime buone notizie in materia fiscale, parlando di «quiete prima della tempesta». Il Congressional Budget Office, ad esempio, prevede che la spesa pubblica statunitense su Medicare (programma di assicurazione medica), Medicaid (programma di sovvenzione medicinali) e Social Security (programma di previdenza sociale), attualmente a circa l’8,5 per cento del Prodotto interno lordo, salirà al 15 per cento entro il 2030 e al 20 per cento entro il 2050.
Ma che senso ha arrovellarsi cercando di immaginare scenari sicuri di spesa previdenziale e sanitaria, quando le politiche attuali sono così palesemente insostenibili? È chiaro che il sistema previdenziale di Social Security può essere sistemato adeguando l’età pensionabile alle aspettative di vita e aumentando moderatamente l’imposizione fiscale. L’assistenza medico-sanitaria implica invece problematiche ben più complesse per equilibrare la distribuzione e gli incentivi in materia di assistenza di qualità e di innovazione.
Una cosa è garantire a tutti lo stesso diritto di accesso all’assistenza medica quando le spese sanitarie ammontano al 5 per cento del Prodotto interno lordo, come si fece nei primi anni Cinquanta. Un’altra cosa è farlo quando la spesa sanitaria erode il 16 per cento di quel Prodotto, come avviene oggi, e sarà ancora più problematico se questa percentuale salisse al 30 per cento, come alcuni economisti di spicco, del calibro di David Cutler, Robert Hall e Charles Jones, prevedono. Con una spesa sanitaria al 30 per cento del Prodotto interno lordo, ogni sforzo volto a mantenere la parità di trattamento assomiglierebbe a una manovra di stampo prettamente marxista.
In verità, il problema delle enormi incongruenze derivanti da politiche insostenibili riguarda la maggior parte dei Paesi. Certamente, alcuni di loro non saranno in grado di risolvere le inevitabili frizioni intergenerazionali, provocando una paralisi con considerevoli implicazioni per i tassi di interesse, di inflazione e di crescita. Ma questo potrebbe anche non accadere e, nel caso degli Stati Uniti, è difficile dire quale sarà l’esito della politica di tagli fiscali del Presidente. Forse non sfoceranno in una catastrofe a catena, ma in semplici discussioni sulla spesa pensionistica e sanitaria. Naturalmente, la discussione potrebbe anche accendersi in un dibattito catastroficamente feroce.
Se volessimo indicare un tallone d’Achille che presto mostrerà il nervo scoperto nelle politiche del deficit americano, allora dobbiamo segnalare la forte dipendenza dal finanziamento estero. Il governo prende in prestito circa 800 miliardi di dollari all’anno, oltre il 6 per cento del Prodotto interno lordo. È incredibile, se si considera che l’indebitamento Usa riguarda approssimativamente i due terzi del risparmio netto totale di tutti i Paesi in attivo.
Sebbene un riequilibrio dell’economia mondiale potrebbe aiutare ad abbassare il deficit di conto corrente statunitense quest’anno, le economie globali e americana rimangono piuttosto vulnerabili di fronte a scenari che forzano verso riequilibri più rapidi. Una scossa geo-politica che imponesse agli Stati Uniti di tagliare, diciamo per metà, il suo deficit commerciale e di conto corrente risulterebbe piuttosto destabilizzante, facendo crollare il cambio medio ponderato del dollaro rispetto ad altre valute del 20-25 per cento.
C’è da scommettere che il nuovo Presidente americano, democratico o repubblicano che sia, non esagererà con il ripristino della prudenza fiscale. Purtroppo, mantenere questo approccio potrebbe condurre a un naufragio, soprattutto se i tassi di interesse reali globali dovessero crescere in misura sensibile.
La propensione del governo americano verso il rosso potrebbe anche essere stata fortuitamente tempestiva, ma alla resa dei conti quel che conta è il deficit.

 

   
   
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