Dicembre 2007

L’Europa utile

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La controffensiva
d’autunno
Mario Pinzauti  
 
 

 

 

 

Subito dopo
aver staccato gli ormeggi, il nuovo Trattato si trova in mezzo ad acque agitate che
potrebbero
presto diventare tempestose.

 

«Da Lisbona riparte la nave dell’UE?». Questa la domanda che la sera del 19 ottobre Pier Virgilio Dastoli rivolgeva a se stesso e ai lettori di “InEurop@”, newsletter quotidiana della rappresentanza italiana della Commissione europea. Era una domanda di stretta, anzi strettissima attualità, dato che poche ore prima nella capitale portoghese si era concluso un Consiglio europeo dedicato all’approvazione del nuovo Trattato dell’Unione. Era anche una domanda che veniva da fonte autorevole, dato che Pier Virgilio Dastoli è il direttore della Rappresentanza italiana della Commissione europea. Ed era, infine, una domanda che conteneva in se stessa una risposta.
L’interrogativo finale esprimeva infatti uno sgradevole dubbio. Metteva indirettamente ma chiaramente in forse che a Lisbona la nave dell’Unione europea fosse stata finalmente in grado di liberarsi dai paralizzanti ancoraggi che la tenevano bloccata da due anni, esattamente da quando, nel 2005, i risultati negativi dei referendum olandese e francese avevano tagliato le gambe al progetto di Trattato costituzionale, solennemente approvato e festeggiato a Roma il 29 ottobre del 2004 dai capi di Stato e di governo dei 27 Paesi già allora membri dell’Europa comunitaria o in procinto di entrare a farne parte.
Lo stesso dubbio, assieme a Dastoli, ha coinvolto tante persone che s’interessano d’Europa: tra gli altri noi, che nei risultati del Consiglio europeo di Lisbona del 18 e 19 ottobre 2007 abbiamo visto e vediamo sì una partenza ma con i motori al minimo e, quel che è peggio, con destinazione incerta. Infatti il cosiddetto snello testo di Trattato approvato nella capitale portoghese (occupa pur sempre 250 pagine!) evita ogni richiamo alla bandiera con le dodici stelle e all’Inno alla gioia, espressioni dei sentimenti europeisti di tante generazioni.
Inoltre: 1) riconosce valore vincolante alla “Carta dei diritti fondamentali”, ma esentando Gran Bretagna e Polonia dall’obbligo di applicarla; 2) risolve parzialmente il problema di un’adeguata presenza italiana nel Parlamento europeo (73 seggi, gli stessi della Gran Bretagna, ma uno in meno della Francia) pagando però il poco dignitoso prezzo dell’aumento di uno (da 750 a 751) del totale dei deputati dell’assemblea dell’Unione; 3) prima dell’ipotetica data dell’entrata in vigore (1° gennaio 2009) dovrà passare sotto le forche caudine di almeno un referendum (in Irlanda) e forse di altri tre (in Gran Bretagna, Danimarca e Finlandia).

C’è quanto basta, anche di più, perché suscitino solo moderate speranze perfino le più allettanti tra le promesse contenute nel Trattato (presidenza dell’Unione di due anni e mezzo anziché sei mesi, aumento dei poteri dell’Alto Rappresentante della Politica Estera, riduzione dei membri della Commissione da 27 a 18, cambiamento del sistema di voto al Consiglio dei Ministri con sensibile calo dei casi in cui è possibile ricorrere al potere di veto).
In definitiva, a Lisbona il 18 e il 19 ottobre un tentativo di rimettere in navigazione la nave dell’UE c’è stato e continua. Ma con strumenti di bordo ed equipaggi che garantiscono nel migliore dei casi risultati modesti, se non modestissimi. Tanto più perché i bastian contrari restano tanti e tengono le armi ben affilate. Il più rozzo, il polacco Jaroslav Kaczinsky, è stato messo in condizioni di non nuocere dai risultati delle elezioni politiche svoltesi nel suo Paese proprio pochi giorni dopo il vertice di Lisbona. Ma altri, i più grossi e i più pericolosi, sono più agguerriti che mai. Il premier inglese Brown ha lasciato Lisbona ammonendo i governi degli altri Paesi europei di non aspettarsi altre riforme istituzionali prima del 2017. Ancora Brown, assieme al francese Sarkozy e alla tedesca Angela Merkel, ha firmato un documento che formalizza l’esistenza di un direttorio a tre, dunque di un gruppo che pretende la leadership dell’Unione europea.

E così subito dopo aver staccato gli ormeggi il nuovo Trattato si trova in mezzo ad acque agitate che potrebbero presto diventare tempestose. E lo stesso potrebbe accadere per il tentativo – che per ora ha sede solo nelle speranze di un numero limitato di europeisti irriducibili – di rimettere in marcia il processo d’integrazione: con la conseguenza tra l’altro di rinviare o rendere addirittura impossibili altri allargamenti, da quello che riguarda la Turchia a quelli che coinvolgono i Paesi dell’ex Jugoslavia e l’Albania.
In attesa di riuscire a capire che cosa di buono e di cattivo ci verrà nei prossimi mesi e nei prossimi anni dalle tormentate vicende dell’Europa politica, nelle stanze dell’Europa utile, quelle dove si lavora per migliorare le condizioni di esistenza dei 483 milioni di cittadini dell’Unione, regna tuttavia – come ormai avviene da tempo – un complessivo ottimismo. Gli effetti degli scontri e dei bracci di ferro che dominano nei vertici di capi di Stato e di governo arrivano in questi luoghi molto attutiti. E non fermano, neppure rallentano i programmi più impegnativi. In certi momenti si direbbe anzi che per reazione alle crisi politiche l’Europa utile voglia fare di più e meglio che in passato. Avviene ad esempio con una serie di notizie positive che sono portate all’attenzione degli interessati, i cittadini, proprio mentre a cavallo tra l’autunno e l’inverno l’Europa politica sembra perdere più di un colpo. Potrebbe essere e forse almeno in parte è davvero una sorta di controffensiva psicologica: la controffensiva d’autunno-inverno, mediante la quale si creano nuovi interessi e anche consensi europei con cui si spera di rimpiazzare quelli scoloriti o addirittura cancellati a causa delle delusioni politiche. Soprattutto grazie all’Europa utile, in questo particolare momento l’Unione dunque non solo dimostra vitalità ma sembra trovare nuove certezze nel proprio avvenire.
Accade, ad esempio, quando il 24 settembre di quest’anno viene pubblicata la Relazione finanziaria dell’Unione europea per il 2006. Con il ricorso ai numeri, che non possono essere pura opinione, essa dimostra l’imponenza del lavoro che l’Europa comunitaria svolge per i suoi cittadini e l’indiscutibile successo che con questo lavoro ottiene. Vediamolo più chiaramente con qualche dettaglio. Tra il 2000 e il 2006, in sette anni, le spese sostenute dall’Unione per i fondi destinati alla crescita economica e alla lotta alla disoccupazione negli Stati membri sono aumentate di quasi il settanta per cento. Soltanto nel 2005 l’aumento è stato del 19 per cento e ritmi di crescita ancora maggiori si prevedono per il settennio 2007-2013. Particolarmente elevato è stato ed è l’impegno a favore dei Paesi della cosiddetta “UE 10”, cioè del gruppo (Europa centrorientale+Paesi baltici+Malta e Cipro) ammesso nell’Unione nel 2004: è passato da 2,4 a 11,5 miliardi di euro. Cioè si è quasi quadruplicato! Tutto questo senza che gli altri Paesi, quelli della cosiddetta “UE 15” (cioè del gruppo che già prima del maggio 2004 faceva parte dell’Unione ), sopportassero pesanti sacrifici. Al contrario. Tra i più grandi di questi Paesi, la Spagna ha ottenuto, nel periodo 2000-2006, 99,5 miliardi di euro, la Francia 89,6 miliardi di euro, la Germania 79,1 miliardi di euro, l’Italia 70,2 miliardi di euro, la Gran Bretagna 50,2 miliardi di euro.

Questi investimenti, che per dimensioni e significato non hanno forse precedenti nella storia d’Europa e di ogni altra parte del mondo, hanno dato risultati di grande, talvolta eccezionale peso e significato. L’Irlanda, che fino a pochi decenni fa era un angolo d’Europa in serie difficoltà economiche, è oggi uno dei Paesi più prosperi dell’Unione. Il suo PIL supera di oltre il 25 per cento la media comunitaria e assieme a quello dell’Olanda, della Danimarca e dell’Austria è considerato tra i più alti d’Europa. La Spagna, fino a pochi anni fa, aveva un tasso di disoccupazione tra i maggiori dell’Unione. Oggi quel tasso è tra i più bassi della Comunità, il Paese gode di una veloce crescita economica e il suo PIL finalmente supera, sia pure di poco, la media dei ventisette. La Slovenia, entrata solo tre anni fa nell’Unione, non ha ancora raggiunto un PIL pari almeno alla media comunitaria, ma la sua economia corre. Tanto è vero che, all’inizio di quest’anno, essendosi messa in regola con i criteri di Maastricht, la Slovenia ha potuto permettersi di entrare in Eurolandia.
Ancora: nel periodo 2000-2006 il PIL è aumentato del 2,8% in Grecia e del 2% in Portogallo, mentre stime recenti prevedono per il periodo 2007-2013, sempre grazie ai fondi europei, un considerevole aumento del PIL sia in Lettonia, Lituania e Repubblica Ceca (+8,5 per cento) sia in Polonia (+5,5%). Ancora: ai benefici che sono una diretta conseguenza dei fondi europei si aggiungono quelli provocati dall’effetto leva. Avviene con i fondi nazionali, pubblici e privati che, stimolati dall’esempio europeo, entrano in campo nei vari Paesi e hanno, spesso, dimensioni considerevoli. Secondo stime della Commissione europea, ogni euro speso dall’Unione genera investimenti nazionali da uno a tre euro. Dunque l’iniziativa comunitaria favorisce in campo nazionale il raddoppio e in qualche caso la moltiplicazione per tre dei mezzi finanziari europei impegnati per stimolare la crescita e combattere la disoccupazione. Si spera che effetti non meno positivi ottengano molte altre imprese che, con la sua controffensiva d’autunno-inverno, l’Europa utile sta portando avanti o prepara.
Fermiamo la nostra e la vostra attenzione su un’iniziativa che è di attualità in questa stagione in cui, concluse da parecchie settimane le vendemmie, sono arrivati sul mercato i “novelli” 2007. Si tratta della riforma dell’organizzazione del mercato comune vitivinicolo. Contiene una serie di proposte adottate dalla Commissione europea per portare competizione, ripresa e infine successo in un settore che ha un peso notevole nell’economia europea, ma che da qualche tempo sembra avere imboccato il tunnel della crisi. Vediamo il problema, cominciando dai dati essenziali.
Le aziende vitivinicole dell’Unione europea sono 2,4 milioni, occupano una superfice di 3,6 milioni di ettari, circa il 2 per cento dell’intera superficie agricola dell’Unione. Il vino da esse prodotto nel 2006 ha rappresentato il 5 per cento del valore dell’intera produzione agricola comunitaria. È tanto e sta diventando troppo. I consumi interni nell’Unione diminuiscono, le importazioni da Paesi extracomunitari invece aumentano, aumentano anche le esportazioni di vino europeo fuori dai confini dell’Unione ma di poco, pochissimo. Con la conseguenza che una notevole percentuale della produzione dei Paesi dell’Unione resta invenduta e un buon numero di aziende vitivinicole è in serie difficoltà. Per evitarle o ridurle finora l’Europa comunitaria ha profuso un’enorme quantità di soldi a fondo perduto, pagando con i suoi finanziamenti il vino che non si vendeva. Si è arrivati a spendere annualmente, meglio sarebbe dire a sprecare, 500 milioni di euro, oltre un terzo della somma – 1 miliardo e 300 milioni di euro – che rappresenta il totale dei fondi europei destinati ogni anno alla vitivinicoltura. E questo senza risolvere la crisi o soltanto rallentarla. È avvenuto il contrario. Stime recentissime hanno annunciato che se non si cambia rotta, e radicalmente, entro il 2010-2011, le eccedenze, cioè le quantità di vino invendute, raggiungeranno il 15% del totale della produzione.
Di fronte a queste prospettive, dopo oltre un anno di ricerche, di interventi di esperti, di contatti con i rappresentanti di aziende dell’intera Unione, è scattata, con le proposte adottate dalla Commissione europea, una vera e propria conversione a “U”. Come sta già avvenendo per l’intera PAC (la Politica Agricola Comune), di cui l’organizzazione comunitaria per il settore vitivinicolo fa parte, la strategia dell’assistenzialismo fine a se stesso è stata letteralmente gettata alle ortiche e si è inaugurata una nuova, rivoluzionaria linea che fa dell’impegno per la qualità, la promozione e l’imprenditorialità le basi per trovare l’uscita dal tunnel prima e avviarsi poi verso un successo internazionale.
In 200 mila ettari di terreno agricolo dove l’uva produce vino di bassa qualità le vigne verranno estirpate: non con l’intervento di gendarmi dotati di bulldozer, ma con il consenso e la collaborazione dei produttori cui verranno assicurati adeguati risarcimenti. Le aziende che producono vino di buona qualità verranno invece incoraggiate ad espandersi: anche in questo caso con aiuti europei. Saranno vietate tutte le pratiche cui si ricorre per arricchire artificialmente il tasso alcolico del vino, tra cui il cosiddetto “zuccheraggio”, cioè l’aggiunta di zucchero nei mosti. Sarà rivisto e migliorato il sistema di etichettatura delle bottiglie. Saranno incoraggiati, sempre con sostegni economici, la formazione professionale dei vitivinicoltori e l’insediamento di giovani agricoltori. E infine, ultimo ma non minore, si darà il via ad una grande operazione per la promozione del vino europeo.
Le ricerche, gli studi, le consultazioni che hanno preceduto l’intervento della Commissione europea hanno permesso di constatare che la crisi delle eccedenze non esisteva o era di proporzioni contenute dove la produzione era di buona qualità e dove più attiva e intelligente era la promozione dei vini. Erano rimedi locali, ma potevano trovare applicazione su tutto il territorio dell’Unione europea. Di qui l’impegno per un generale miglioramento della qualità da realizzare con gli indirizzi di cui prima abbiamo indicato i punti fondamentali. E di qui anche la decisione di far scendere in campo una promozione generalizzata e intelligente che prenda il posto dei rari interventi spontanei e occasionali finora attuati, batta e ribatta sulla qualità e i prezzi dei vini europei prima all’interno dei singoli Paesi dell’Unione, poi su tutto il territorio dell’Europa comunitaria, infine nel resto del mondo dove sono notevoli le possibilità di imporsi sulla produzione storicamente giovane, sostenuta più dalla buona volontà che dall’esperienza, spesso nemmeno economicamente attraente proveniente da altri Paesi. Tutto questo con un impegno economico elevato, investendo nella promozione 120 milioni di euro all’anno, dunque poco meno di un decimo dei fondi europei dedicati al settore vitivinicolo (1 miliardo e 300 milioni di euro) ma con la convinzione che siano soldi spesi bene.
Per merito dell’Europa utile, dunque, un futuro di trionfi e di successi economici per il vino dell’Unione, la possibilità che esso torni ad essere, come avveniva fino a poche decine d’anni fa, il più noto, il più amato, quindi il più bevuto del mondo? Forse. Ma già da ora, sicuramente, la prospettiva di una ripresa di questo settore. Grazie all’Europa utile, che con questi e tanti altri interventi ottiene dai cittadini amnistie, almeno indulgenze, nei casi peggiori disattenzione per le delusioni piccole, talvolta anche grandi che l’Europa politica infligge al suo popolo: e anche a se stessa.

 

   
   
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