Dicembre 2007

Il fascino intatto della ricchezza delle nazioni

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Rileggere Adam Smith
John Vickers  
 
 

 

 

 

La società
di Smith era
composta da esseri razionali che
cercano una
felicità terrena, edificata sul
costante progresso materiale e civile.

 

Corruptissima in republica plurimae leges.
Tacito


Il 1776 non è soltanto l’anno della Dichiarazione d’indipendenza americana del 4 luglio, ma anche l’anno in cui nelle librerie londinesi compare (il 9 marzo) An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, dello scozzese Adam Smith.
I due avvenimenti, in apparenza così lontani, sono invece strettamente correlati. I coloni americani ribelli stanno semplicemente realizzando ciò su cui un intero secolo filosofico, da Locke a Hume, ha speculato; ed è una lunga tradizione di pensiero che con l’opera di Smith trova il suo sbocco terminale. Il Boston tea party (nel 1773), la ribellione dei coloni americani di Boston alle condizioni inique del dispotismo fiscale imposto dalla madrepatria, trova nelle pagine di Smith sulla critica al mercantilismo una delle sue più alte celebrazioni.
Da Locke a Mandeville, a Hume, ad Hutcheson, la filosofia morale inglese aveva ragionato sulla possibilità di conciliare l’interesse individuale con il benessere sociale. La quadratura del cerchio la trova Smith con il concetto di mano invisibile. Nel capitolo II del Libro IV della Ricchezza, Smith propone la metafora della mano invisibile per sostenere che il benessere sociale si realizza più facilmente se vi è libertà di iniziativa privata. Se ciascun individuo «mira soltanto al proprio guadagno […], in questo, come in molti altri casi, egli è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni. Perseguendo il proprio interesse, egli spesso promuove quello della società in modo più efficace di quanto intenda realmente promuoverlo. Non ho mai visto che sia stato raggiunto molto da coloro i quali pretendono di trafficare per il bene pubblico».

Si tratta di un passaggio polemico in cui Smith si oppone alla pesante regolamentazione statale del commercio, o meglio, all’ingerenza dell’autorità politica negli affari commerciali. Più avanti, infatti, prosegue ricordando che «l’uomo di Stato che dovesse cercare di indirizzare i privati relativamente al modo in cui dovrebbero impiegare i loro capitali non solo si addosserebbe una cura non necessaria, ma assumerebbe un’autorità che non soltanto non si potrebbe affidare tranquillamente a nessuna persona singola, ma nemmeno a nessun Consiglio o Senato, e che in nessun luogo potrebbe essere più pericolosa che nelle mani di un uomo abbastanza folle e presuntuoso da ritenersi capace di esercitarla».
È la rivendicazione dell’autonomia dello spazio economico, e insieme è l’atto costitutivo di una nuova scienza, l’economia politica, che con Smith si stacca definitivamente dalla tradizione settecentesca della jurisprudence, un mix di etica, diritto, economia, con il quale si era cercato di dare una spiegazione in termini morali dell’interesse individuale. Con Smith divenne quindi legittimo il perseguimento del self interest nella sfera economica, ma non per questo l’homo oeconomicus smithiano è amorale o impolitico.
Si comprenderà a questo punto come sia immediato il legame tra le concezioni, smithiane, elaborate in anni di silenziosa riflessione, e gli schiamazzi rabbiosi dei coloni di Boston che gettano in mare balle di tè. Si può dire che le idee di Smith erano nell’aria nell’ultima parte del Settecento, e questo spiega lo straordinario successo di pubblico che accompagnò la pubblicazione della Inquiry.
A 230 anni dalla sua pubblicazione il fascino dell’opera resta ancora intatto. L’ottimismo razionale di Smith coinvolge il lettore moderno, così come ammaliò il pubblico colto di fine XVIII secolo. Anzi, forse, per il lettore moderno il fascino della Inquiry diventa ancora più irresistibile, dato che l’idea del libero mercato torna ad essere prepotentemente vincente dopo la sconfitta dei regimi ad economia collettivista.
Smith nei primi due Libri della Inquiry ha saputo delimitare il campo d’azione dell’interesse individuale, chiudendolo nella sfera dell’agire economico; e lo ha fatto seguendo per lo più un’argomentazione astratta che fornirà poi il metodo dell’economia ricardiana. Dal Libro III passa sul piano concreto dell’analisi dell’impatto dello sviluppo economico nei diversi Paesi europei in seguito alla caduta dell’Impero romano, soffermandosi soprattutto sul problema dei rapporti tra città e campagna. Nel Libro IV passa alla disputa tra i “sistemi” di economia politica: il mercantilismo e la fisiocrazia, per affrontare infine nell’ultimo Libro, il V, il tema per nulla neutrale delle «spese del sovrano o della repubblica».

Ma dell’intera opera è in particolare il Libro IV a mantenere intatti il vigore polemico e la lucidità analitica. È il Libro in cui Smith definisce «il sistema della perfetta libertà economica» come una cerniera tra la libertà individuale e il ruolo della sfera pubblica; contesta non soltanto il mercantilismo, ma anche l’astrattezza della fisiocrazia; è il Libro in cui si affronta il tema delicato delle colonie e del ruolo delle istituzioni nel favorire la crescita economica (come si sarebbe evoluta l’economia del Vecchio Continente se si fosse seguito un ordine naturale); è il Libro in cui vagheggia l’istituzione di una pacifica Grande Repubblica Mercantile, un nuovo ordine mondiale costruito sulle regole del grande gioco del commercio, sulle regole della competizione economica, nel quale nessuno può avere posizioni di predominio precostituite e permanenti.
Ma possiamo dire che l’utopia della Grande Repubblica Mercantile, così come la intendeva Smith, sia stata realizzata oggi? O questo mercato e questo ordine mondiale sono solo una tragica caricatura di quanto Smith aveva immaginato?
Se gli si chiedesse ora di riscrivere per il lettore moderno la sua Ricchezza delle Nazioni, egli si libererebbe subito del mito che lo ha considerato come il maggiore sostenitore dell’idea che il libero mercato sia l’unica condizione per conseguire risultati socialmente ottimali. Un mito che è stato creato nel XIX secolo più dai suoi seguaci francesi, come Say e Bastiat, che dai più problematici e diretti eredi anglosassoni, come Ricardo e Malthus. Un mito che si è tramutato di generazione in generazione, e che ha coinvolto gli accademici allo stesso modo dei non-specialisti, e con il quale oggi si suole giustificare il liberismo selvaggio, di fronte al quale lo stesso Smith resterebbe inorridito, così come lo fu nei riguardi dei privilegi feudali.
Ma alla fine del XVIII secolo l’opera di Smith veniva considerata con particolare favore nei circoli più progressisti della cultura europea. In Francia, soprattutto nei primi anni della Rivoluzione, la sua opera fu annotata da Condorcet, e in Inghilterra si riferirono ad essa esponenti del pensiero radicale come Thomas Paine. Nel campo opposto, quello conservatore, Smith, insieme a Hume, era considerato un autore addirittura sovversivo, ed era visto piuttosto come il difensore della libertà politica, più che l’apologeta del libero commercio.
Nella sua ipotetica riscrittura della Inquiry, Smith comincerebbe sicuramente col ricordare che è l’autore, come professore di filosofia morale a Glasgow, di un fortunato libro dedicato ai problemi etici, La teoria dei sentimenti morali, in cui si discute della legittimità morale dei sistemi economici e sociali e in cui i rapporti umani sono guidati dalla simpatia e dalla benevolenza. Richiamerebbe l’attenzione sull’importanza del rispetto delle regole alla base della convivenza civile, senza il quale nessun ordine spontaneo può costituirsi e durare. E porrebbe l’attenzione direttamente sul ruolo dello Stato, che oggi sembra essere solo una figura ingombrante da ridurre al minimo, ma che è centrale nel sistema di libertà economiche di Smith.
Nel capitolo IX del Libro IV, l’autore rivendica fortemente il ruolo dello Stato, ricordando che ha «tre compiti di grande importanza»: «il compito di proteggere la società dalla violenza e dall’invasione di altre società indipendenti», «il compito di proteggere per quanto possibile ogni membro della società dall’ingiustizia o oppressione di ogni altro membro, ossia il compito di instaurare un’equa amministrazione della giustizia», e «il compito di creare e mantenere certe opere pubbliche e certe istituzioni pubbliche, che non potranno mai essere create e mantenute dall’interesse di un individuo o di un piccolo numero di individui, perché il profitto non potrebbe mai ripagarli del costo, benché spesso questo costo possa essere ripagato abbondantemente a una grande società». Non si tratta di compiti secondari, ma essenziali per il buon funzionamento del meccanismo di accumulazione fondato sul libero mercato.
Il richiamo ai limiti dell’interesse individuale appare sorprendente in colui che ne è stato il maggior teorico. Eppure l’opera di Smith non è una semplice apologia dell’iniziativa privata, ma in modo molto più complesso in essa emerge marcatamente il legame tra etica, politica ed economia, che tutte si sintetizzano nell’idea del “libero commercio”. Se Smith riscrivesse l’opera, partirebbe dalla distruzione del mito che lo vuole padre degli apologeti del mercato e dello “Stato minimale” per ripristinare l’idea dello “Stato etico liberale”, e forse partirebbe proprio dal Libro IV. L’idea liberale di Smith non è poi così lontana dal modo in cui gli italiani della Destra Storica intesero il liberalismo dopo l’Unità, e per i quali la fondazione di un autorevole Stato unitario era la condizione per sviluppare un moderno mercato nazionale. Essi diedero libero spazio all’iniziativa privata, ma seppero sempre salvaguardare gli interessi generali.
Nel momento in cui la civiltà occidentale è impegnata in una riflessione sulle proprie radici ed è concentrata nel confronto con culture che la rifiutano apertamente, la rilettura del Libro IV può apparire come un contributo illuminante per meglio definire le caratteristiche ideali «del sistema della perfetta libertà economica» su cui si fonda la moderna economia di mercato.
Ma dobbiamo rileggere l’opera smithiana senza pregiudizi, così come la lesse il pubblico colto di fine Settecento; troveremo senza dubbio tutti gli elementi che fecero di Smith un filosofo morale più che un apologeta dell’idea di mercato autoregolato. Si comprenderà che la società che Smith intende costruire non era composta da monadi mosse dal puro interesse individuale, ma da esseri razionali che cercano una felicità terrena, edificata sul costante progresso materiale e civile. Di questo progresso la libertà diviene l’elemento essenziale, ma essa non può mai coincidere col sopruso e col privilegio. Il perseguimento dell’interesse personale garantisce esiti socialmente ottimali solo se avviene all’interno di un quadro di regole morali e giuridiche, che possano fungere da contrappeso al libero dispiegarsi delle passioni egoistiche.
Senza pregiudizi, la Ricchezza apparirà come un prodotto dell’Illuminismo europeo, e il programma scientifico di Smith come una componente importante di un unico grande progetto, diretto a considerare il funzionamento della società come il risultato di fattori etici, giuridici ed economici, considerati come elementi complementari, e non contraddittori.

 

   
   
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