Dicembre 2007

I silenzi della storia

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Cronache
della grande disfatta
Aldo Bello  
 
 

Se la memoria ha un nome, Caporetto oggi è, oltre l’antico confine, in una terra che fu italiana e che è in mano ai nemici di allora, e si chiama Kobarid.

 

Sono passati novant’anni, ma la ferita di Caporetto sanguina ancora. Anche se la ricorrenza è passata sotto silenzio. Nel nostro Paese, dilaniato dalle ideologie in ritardo, è così. Facile profezia: si parlerà a proposito e a sproposito del quarantennale del Sessantotto, e se ne parlerà in lungo e in largo, interverranno politici, sindacalisti, sociologi, storici di tutte le scuole e di tutte le parrocchie, saccenti di tutte le estrazioni, relativisti di tutte le compromissioni culturali, reduci e superstiti; e nella gran confusione che sarà creata non emergerà nulla di nuovo: la consueta kermesse all’italiana vedrà sfilare nani e ballerine in televisione, nei salotti cosiddetti buoni (a nulla!), negli inutili e balbettanti circoli letterari, nelle noiosissime e antiquate tavole più o meno rotonde, e ci proporrà dotti elzeviri sui giornali e frettolose inchieste negli instant books; ci ricorderanno che il “Maggio francese” fu preceduto di un anno da quello – ruspante – dell’università di Trento, dove Renato Curcio e compagni inaugurarono i giorni della rivolta, culminati nell’idea armata di quella “Brigata rossa” che poi fu volta al plurale e diede origine alla sanguinosa stagione del terrorismo nostrano; e qualcun altro ci rammenterà che lo stesso Maggio francese era stato anticipato di parecchi mesi a Berlino, e che già nell’autunno ‘67 Rudi Dutschke aveva fondato una contro-università, che si proponeva il fine di appropriarsi collettivamente della cultura e di rovesciare la società di massa dal suo interno, condannando la meritocrazia, e dandoci come esito finale il crollo delle intelligenze di élite, quali sono invece attive oggi, per favorire la crescita della cultura e della scienza europea.

 

Ma nulla sul Primo conflitto mondiale, visto dalla parte della Penisola. Esattamente come è accaduto nel 2007 per l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, celebrata – si fa per dire – in Parlamento da un solo deputato marxista, il quale, fedele alla tradizione della sua parte politica, secondo la quale la verità è l’ultima delle cose che deve essere resa nota al mondo, ha sostenuto senza un minimo sussulto di pudore che all’epoca si abbatté la tirannide zarista, mentre in realtà fu fatta fuori la democrazia che era sorta nella Russia dopo la caduta dello Zar; e ha condannato i lager nazisti, e questi soltanto, dimenticando di citare, non certo per distrazione, le centinaia di migliaia di vittime dei primi mesi di governo dei Soviet, lasciando in un cono d’ombra anche i gulag (della Siberia, dell’Uzbekistan...) nei quali morirono di lavoro forzato, di malattia e di stenti altre centinaia di migliaia di esseri umani, e guardandosi bene dal citare le deportazioni di interi popoli, con altri milioni di morti. Mutismo imposto dal servilismo ideologico, questo.
Vicenda da non rivangare per coscienza molto sporca, l’altra, quella che riguarda l’anniversario della più grande disfatta subita dall’esercito italiano, che si concluse col tragico bilancio di 11 mila 600 morti, 30 mila feriti, 350 mila sbandati e 265 mila prigionieri, 400 mila profughi civili, oltre 800 mila abitanti della regione friulana consegnati per un anno al ferreo regime di occupazione, quantità enormi di materiale abbandonate nelle mani nemiche, su cui è sceso un silenzio assordante.
Eppure, proprio in quei giorni tremendi venne fuori il meglio e il peggio dell’Italia, emersero il temperamento anarchico che faceva capo alle culture etniche mai superate dall’esigenza collettiva di sentirsi un solo popolo, (e per questo sbandamenti, fughe, diserzioni in massa, violenze d’ogni tipo), e l’abnegazione di chi nella sventura trovò la forza di affermare un principio nuovo di dignità nazionale scevra dagli egoismi localistici e individuali, (e per questo imposizione di autodisciplina, ritorno d’orgoglio italiano, eroismi sconosciuti, rinnovata consapevolezza di battersi per una causa nobile e giusta).
Sicché da una parte il silenzio sta bene alle forze politiche (per ogni altro verso contrapposte) che interpretarono il Primo conflitto mondiale come esito di una spoliazione avvenuta con la conquista degli Stati Pontifici e con la presa di Roma, e dall’altra si manifesta come evento incompiuto, o concluso ad opera di lobby verticistiche, con una rivoluzione senza popolo che ha condannato l’Italia alla sudditanza a forze economico-politiche coalizzate in nome dell’alta borghesia produttiva e alla conseguente perenne decadenza morale e civile. (E in proiezione diretta nel tempo: da una parte il compimento di una “redenzione” di città e regioni che rientravano non soltanto nei confini naturali, ma anche in contesti culturali, storici, linguistici, antropologici della Penisola, come destino di un’Italia unificata dallo spirito d’iniziativa tipico dei Paesi avanzati; e dall’altra terre al traino, presunti paradisi in realtà abitati da diavoli, aree della illegalità diffusa, terre dell’assistenzialismo non redimibili e perciò da abbandonare alla deriva mediterranea e terzomondista).

La carenza di fonti ufficiali, d’altra parte, non ha consentito di approfondire l’analisi dei fatti che si verificarono prima, durante e dopo lo sfondamento delle linee nella Valle dell’Isonzo, il 24 ottobre 1917, e le conseguenze di lungo periodo che si sarebbero verificate. Ma documenti esistono, erano stati scritti da alti ufficiali che furono coinvolti in quella vicenda, e tuttavia sono rimasti in ombra, o sono stati del tutto ignorati da chi ha portato avanti analisi storiche parziali, e da chi ha strumentalmente messo in scena processi sommari. E ci sono molte ragioni per le quali questo è accaduto, prime fra tutte quelle di chi scampò miracolosamente alla condanna, scalando addirittura i gradini del potere nelle fasi successive, fascista e post-fascista, come il generale Badoglio, oppure, su un livello appena inferiore, come alcuni altri alti e medi gradi del Regio Esercito Italiano coinvolti nel disastro provocato dalla mancanza di strategia, di sistemi efficienti d’intelligence, di visione predittiva e di comportamento all’altezza della situazione che si registrò in quei drammatici giorni.
Tra gli scritti mai compulsati, e ovviamente sprofondati nell’oblio, una serie di carte inedite originali: sono, ad esempio, le relazioni firmate dal generale Emanuele Pugliese, all’epoca comandante della brigata “Ravenna”. Il primo è un dattiloscritto di trenta pagine, redatto nel gennaio 1919 per la Commissione d’inchiesta su Caporetto. A questo è allegato un testo manoscritto, che raccoglie il brogliaccio quotidiano delle azioni compiute dalla “Ravenna” durante il ripiegamento verso i corsi del Tagliamento e del Piave.
Il dossier emerge dall’archivio dello storico Gianfranco Bianchi, scomparso quindici anni fa, nel 1992. La ragione per la quale queste carte sono rimaste per un così lungo tempo sepolte probabilmente è da attribuire, fra l’altro, al fatto che l’autore del brogliaccio e dell’inchiesta non esita a indicare le cause reali del crollo del fronte italiano. Facendo nomi e cognomi, lusso proibito nell’Italia dei misteri antichi e nuovi.
Per la memoria storica. Tra giugno e settembre del 1917, le truppe italiane avevano combattuto la decima e l’undicesima battaglia dell’Isonzo, riportando solo modesti successi, al costo di immense perdite umane. Sembrava che l’inverno alle porte non potesse dar luogo ad ulteriori combattimenti, tanto che ai primi di ottobre vennero concesse ai soldati più di 120 mila licenze: le voci di un’offensiva nemica, di cui il ministro degli Interni Orlando aveva chiesto conferma il 9 ottobre, non furono ritenute credibili da Cadorna.
Invece, nella notte del 24 ottobre ebbe inizio l’attacco nemico. La XIV armata mista (sette divisioni tedesche e otto austriache), al comando del generale tedesco von Below, dopo un violento attacco preceduto dal lancio di gas fosgene, annientò i difensori della parte sinistra del fronte (quattro divisioni, più una al comando di Badoglio, che poi fu accusato di aver gestito l’artiglieria con scarsa oculatezza), mentre la II armata comandata dal generale Capello, forte di 25 divisioni, con 3.500 bocche da fuoco, fu costretta a ritirarsi.
L’esercito nemico riuscì a impossessarsi delle posizioni italiane nella Conca di Plezzo, sulle pendici del Vodhil e sulla sponda destra dell’Isonzo, spingendosi nel fondovalle fino a Caporetto. L’avanzata (nel corso della quale fece le sue prime esperienze di guerra un giovane capitano, Erwin Rommel) fu bloccata soltanto il 9 novembre sulla linea Asiago-Montegrappa-Piave, presidiata da 35 divisioni di fanteria e 4 di cavalleria, più 600 aerei, oltre a 4 divisioni inglesi, 6 francesi, un’americana, contro le quali si infransero (nella cosiddetta “battaglia d’arresto”, inizialmente, e “di contenimento” preliminare alla controffensiva, in seguito) gli attacchi di 55 divisioni austro-germaniche.
La battaglia del Piave, detta anche “del solstizio”, si concluse con 8.000 morti, 29.000 feriti e 25.000 prigionieri, aggiunti ai 300 mila già in mano austriaca dall’inizio della guerra e ai 280 mila della disfatta di Caporetto. Triste storia, quella dei prigionieri italiani: in 100 mila morirono nei campi di concentramento per fame, paradossalmente per colpa del nostro governo. L’Italia, infatti, non aveva voluto aderire alla convenzione tra i Paesi belligeranti, che assicurava periodici invii di vitto per i prigionieri, nella cinica convinzione che fosse difficile distinguere tra prigionieri e disertori, (disertori in maggioranza di bassa estrazione sociale, piccoli artigiani, uomini di generica fatica, zappatori, guardiani di bestiame, primogeniti strappati alle campagne e alle famiglie con redditi da corte dei miracoli…), e che quanto più drammatiche fossero le condizioni di chi cadeva in mano al nemico, tanto più impegno veniva profuso in combattimento.

Al centro della requisitoria di Pugliese c’è – e non solo in filigrana – la memoria dell’inettitudine di tanti comandi, i quali, ad esempio, senza l’impiego preliminare di esplosivi per far saltare i reticolati, avevano imposto assalti frontali a trincee inespugnabili che, oltre che cruenti, si erano rivelati del tutto inutili; e per converso, c’è la denuncia del vuoto di comando che si verificò in conseguenza del panico, prima, e del terrore poi, dilagati tra i nostri soldati colti di sorpresa dall’attacco nemico. Il collasso fu immediato. All’annientamento del fragile schieramento difensivo sull’ala sinistra del nostro schieramento seguì la disarticolazione dell’intera macchina da guerra approntata da Cadorna, poi sostituito da Diaz.
La fiumana di soldati nemici, rotti gli argini, precipitava «come un masso nel vuoto»: così scrive il comandante della “Ravenna”, una delle poche unità che cercò di opporsi all’avanzata nemica. Lo smottamento, da piccolo che era, divenne una valanga che travolse ogni cosa, dal momento che «molti ufficiali furono impari al loro dovere». Il quadro degli eventi è nitido: dappertutto era uno sventolare di fazzoletti bianchi, le truppe si facevano disarmare dagli austro-tedeschi, torme di militari erano allo sbando «con un fagottino sul braccio, ridenti e scherzanti. Appresi che erano stati disarmati da pattuglie austriache con mitragliatrici…».
La rotta caotica di intere divisioni, se rappresentò un fattore di cedimento dell’intero fronte, si trasformò in catastrofe a causa dello spettacolo di artiglierie e di carriaggi abbandonati intatti sulle vie di transito. I militari che si ritiravano, oltre a cozzare contro questi ostacoli, procedevano spesso su direttrici perpendicolari, incrociandosi fino a dar luogo a giganteschi grovigli umani.
Fu una pagina vergognosa, della quale ci hanno lasciato memoria, fra gli altri, i libri di Emilio Lussu (“Un anno sull’altipiano”) ed Ernst Hemingway (“Addio alle armi”), oltre al celebre film di Rosi, del 1970 (“Uomini contro”), ispirato al racconto di Lussu: masse di sbandati si abbandonavano a saccheggi e violenze, mentre cominciavano le decimazioni ordinate dai comandi superiori.
«Io sono convinto», scrive Pugliese, «che, nei giorni 25 e 26 ottobre e seguenti, se una volontà decisa di comando superiore avesse imposto la decisione di fermarsi, facendo trovare riserve intatte sulla linea del Tagliamento, e fucilando, mitragliando, se occorresse, i primi datisi alla fuga, la grande massa delle nostre truppe si sarebbe arrestata, lieta di arrestarsi, e avrebbe resistito vittoriosamente. Credo che parecchi, se non molti ufficiali inferiori, in molti reparti siano stati i primi a ritirarsi. E il soldato naturalmente seguì il doloroso esempio. Purtroppo per noi, la concezione, a mio parere esagerata, delle condizioni morali delle nostre truppe non ci ha consentito di riprenderci che al Piave». Parole pesanti come macigni. Se tutti i capi militari avessero agito con questo spirito, probabilmente non ci sarebbe stata Caporetto.
Che le radici profonde del male che affliggeva l’esercito italiano fossero la burocratizzazione e il carrierismo, Pugliese lo afferma apertamente, indicando che la «regola del signorsì a tutti i costi» impediva ai livelli superiori di conoscere le condizioni reali della truppa. Obiettare a un ordine, prospettando difficoltà e limiti tecnici, era considerato grave sintomo d’insubordinazione. Conclusione ovvia: norma autoconservativa di ogni superiore era di scaricare «nei momenti gravi le proprie responsabilità sugli inferiori, in modo tale che, nel caso di insuccesso, la sua responsabilità fosse salvaguardata».
Ultime considerazioni in brogliaccio: per i primi due anni del conflitto l’esercito italiano non soltanto si trovò in condizioni di inferiorità, dal punto di vista dei mezzi bellici, ma proiettili d’artiglieria e mitragliatrici non furono adeguatamente impiegati per gli attacchi a sorpresa, nei quali invece il nemico eccelleva. Ancora: la piaga maggiore, nel governo delle truppe, consisteva nella mancata ed equilibrata concessione delle licenze. Le fanterie in particolare erano lasciate per mesi nel fango algido delle trincee. Infine, l’impeto delle truppe risultava frenato da fattori materiali che influivano sul livello morale generale. Il comando supremo frustrava le aspettative dei quadri superiori, i quali a loro volta prolungavano verso il basso la catena della sopraffazione. Anche per tutto questo ci fu Caporetto.
E Caporetto suona come una maledizione. Fin dal 1859 Friedrick Engels, autore con Marx del “Manifesto del Partito Comunista”, aveva indicato questo paese come punto di sfondamento del fronte italiano da parte degli austriaci. Terribile profezia, che, una volta avveratasi, diede luogo a una serie di contraccolpi. Due particolarmente rilevanti: mentre gli italiani arretravano sulla destra del Piave, il presidente del Consiglio, Paolo Boselli, venne sostituito con Vittorio Emanuele Orlando; pressato dagli alleati, il nuovo Gabinetto defenestrò Cadorna e nominò Diaz, con Badoglio vice.
L’8 settembre, a Peschiera, Vittorio Emanuele III aveva assicurato che l’Italia avrebbe reagito. Così avvenne. Il Paese si risollevò, e un anno dopo vinse a Vittorio Veneto. Ma durante la riscossa, politici e militari si fecero tutto il male possibile. Per avere l’appoggio di giolittiani, socialisti e cattolici, era necessario farla pagare ai comandanti, a cominciare da Cadorna, che nel bollettino di guerra aveva tacciato i soldati di viltà. Perciò il 12 gennaio 1918 venne istituita una commissione amministrativa d’inchiesta “sul ripiegamento dall’Isonzo al Piave”, detta “su Caporetto”, (quattro militari e tre politici, tra i quali il socialista interventista e massone Orazio Raimondo): fu presieduta dall’ammiraglio Carlo Caneva, a suo tempo rimosso da Giolitti perché scarsamente incisivo in Libia. Tra il 15 febbraio ‘18 e il 25 giugno ‘19, la commissione raccolse 1.000 testimonianze e relazioni sintetizzate in tre volumi. Vi accusò Cadorna di «applicare esecuzioni sommarie non sempre giustificate», oltre che di gravi arbitrii, e denunciò Luigi Capello, comandante della II armata, quella che aveva ceduto, per «prodigalità di sangue sproporzionata ai risultati»: un macello, insomma. Insinuò che papa Benedetto XV, quello dell’«inutile strage» avesse sabotato la resistenza dell’Italia con un comportamento apertamente filo-austriaco, (ma in pieno XX secolo si è ipotizzato che la Grande Guerra fu voluta dalle potenze politiche anglo-sassoni e protestanti per portare un ultimo, decisivo attacco al blocco cattolico europeo che faceva perno sull’Austria-Ungheria). Mise alla gogna gli alti comandi, scaricando sui militari l’ira di neutralisti e interventisti delusi.
Conclusione? I generali Cadorna, Capello, Porro e Cavaciocchi furono messi a riposo, altri tre furono dichiarati “a disposizione”. Se la cavò Badoglio, non perché massone, come è stato detto troppe volte senza prove, ma perché colpire lui significava attaccare Diaz e giungere fino al re.
L’Italia, che si era angosciosamente interrogata nel dopoguerra sull’offensiva austro-germanica, (ma le truppe impiegate erano solo in parte austriache e tedesche, per lo più essendo composte da croati e sloveni), non si risollevò dall’inchiesta su Caporetto. Subito dopo la sua pubblicazione (anticipata da indiscrezioni sui quotidiani), D’Annunzio intraprese la marcia di Ronchi su Fiume: rivolta militare che precorse la marcia su Roma. Nella speranza di essere riabilitati, generali silurati come Capello si unirono a Mussolini, il quale ebbe il controllo delle forze armate fino alla catastrofe successiva, quella dell’estate ‘43.
Si dice che Vittorio Veneto abbia concluso il Risorgimento. E sarà certamente così. Solo che non esisteva una località con quel nome, che fu inventato sul tamburo e attribuito ad un’area nella quale la sconfitta del nemico si era trasformata in rotta. Segni drammaticamente visibili del sipario calato sulle guerre d’Indipendenza furono – subito – oltre un milione e 200 mila feriti, metà dei quali invalidi; e sono le centinaia di Monumenti ai Caduti che svettano nei centri cittadini di tutta Italia, ma soprattutto del Sud, terra che pagò il maggior tributo di giovane sangue alla redenzione della Patria. Se la memoria ha un nome, Caporetto oggi è, oltre l’antico confine, in una terra che fu italiana e che è in mano ai nemici di allora, e si chiama Kobarid. Il sacrario che raccolse i soldati caduti (e vilipesi) adesso è in stato di abbandono. Così l’Italia, rinnegando lo scialle nero della sua Storia, ripaga i soli incolpevoli uomini che sacrificarono la vita, perché non fosse del tutto svenduto l’onore.

 

 

   
   
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