Settembre 2007

UNA STORIA CONCLUSA?

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I nomi delle derive
Lello Boda
 
 

Non è sensato
ritenere che
possano più
scoppiare guerre tra popoli europei, tra Stati europei. Dunque, è
impensabile che nuovi confini
possano tornare
a separare terre
e popoli.

 

È difficile dimenticare quel che certe terre – regioni, province, territori di piccola o media dimensione – hanno rappresentato nella storia di una civiltà nazionale, di una cultura letteraria e artistica, persino di una tradizione popolare. Così è accaduto, e continua ad accadere, ad esempio, per l’area istriana e per quella dalmata, nelle quali le impronte di Roma e di Venezia sono prevalenti su quelle di altre presenze registrate nel tempo, e che oggi sono ancora oggetto di nostalgia, di rimpianto per quelle che vengono considerate le perfidie (e i tradimenti) della storia del secolo scorso.
Ma non si tratta di casi unici nel Vecchio Continente. Così, sommariamente, si deve ricordare che la Slesia e la Pomerania erano storicamente territori polacchi, feudi dei principi di Piast, rami secondari della prima dinastia regnante polacca. Quelle terre sono ricchissime di vestigia slave e la loro intensa germanizzazione avvenne, con i metodi tipici dei tedeschi, nel XVIII e nel XIX secolo. Nessuno si sogna di negare la forte presenza germanica in quelle regioni, ma come nessun polacco esprime del revanscismo nei riguardi dei territori orientali, così certi circoli tedeschi dovrebbero smettere di guardare alla Polonia occidentale come a un territorio tedesco. Quando si ha a che fare con esponenti di questi circoli, si può persino provocarli ricordando che Berlin significa, in slavo antico, la lingua dei suoi primi abitanti, “luogo degli stagni”. Forse la Polonia dovrebbe pretendere la restituzione di questa città slava?

Altri esempi emblematici. La capitale della Lituania ha un nome lituano (Vilnius), ma anche uno polacco (Wilna) e uno russo (Vil’no). Non ci si deve sorprendere. Gli italiani parlano di Fiume e di Ragusa, anziché di Rjeka e di Dubrovnik. Molti tedeschi dicono Breslau anziché Wroclaw. Molti austriaci, per parecchi anni, hanno chiamato Bratislava, Marianské Làznê, Leopoli, Lubiana e Zagabria, con i loro nomi tedeschi (Pressburg, Marienbad, Lemberg, Laibach, Agram).
In questo modo è fatta l’Europa. Moltissime città contengono nelle loro diverse denominazioni la storia delle loro traversie. Viviamo in un continente nel quale i confini sono stati frequentemente spostati e le popolazioni, sfortunatamente, spesso hanno subìto la stessa sorte. Negli ultimi sessantacinque anni il fenomeno ha assunto proporzioni letteralmente gigantesche. Forti minoranze russe si sono insediate nelle repubbliche baltiche della Lettonia, dell’Estonia e della Lituania. I tatari furono costretti da Stalin ad abbandonare la Crimea. I ceceni vennero deportati. Gli armeni furono deportati e (in Turchia) massacrati. Alcuni milioni di polacchi hanno abbandonato i territori occidentali dell’Ucraina e della Bielorussia per trasferirsi nelle regioni della Germania orientale ceduta alla Polonia a conclusione del Secondo conflitto mondiale. Dodici milioni di tedeschi sono partiti dalla Germania orientale e altri tre milioni si sono trasferiti dal Sudetenland boemo.
Veniamo alle cose di casa nostra. Gli istriani e i dalmati (più di trecentomila) furono costretti ad abbandonare gli antichi comuni veneziani della costa, nei quali avevano vissuto per diversi secoli. Ma anche i sassoni poterono andarsene dalla Romania soltanto quando la Repubblica federale tedesca pagò al regime di Ceausescu, per ciascuno di essi, ottocento dollari. Alcuni milioni di ebrei dell’Europa centrale e orientale sono partiti per la Palestina, (altri vi sono giunti persino dall’Etiopia), e per l’Europa occidentale o per le Americhe. A Mosca, nella seconda metà degli anni Ottanta, si vedevano di frequente lunghissime code di fronte all’ambasciata della Germania: erano i tedeschi del Volga, “importati” in Russia da Caterina la Grande, e ansiosi di fare ritorno nell’antica patria. Quando finalmente vi giunsero, scoprirono che il loro tedesco, gelosamente conservato per alcuni secoli, era, per i loro nuovi connazionali, una lingua pressoché incomprensibile.

Derive della storia, che non riguardano esclusivamente le vicende dell’Europa. Infatti, potremmo continuare ricordando gli esodi asiatici dell’ultimo mezzo secolo: gli indù e i musulmani al momento della spartizione dell’India, o gli afghani dopo l’invasione sovietica del dicembre 1979. E potremmo andare più indietro nel tempo: i serbi verso nord quando Vienna li chiamò a difendere i confini meridionali dell’Impero austro-ungarico, gli scozzesi verso l’America dopo la recinzione delle terre sugli Altopiani, gli irlandesi nella stessa direzione dopo la carestia delle patate nel 1848, e poi l’impetuoso fiume delle grandi migrazioni sociali o politiche tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento: italiani (questi, anche dopo la metà del XX secolo), ebrei, polacchi, baschi, armeni scampati alla loro tragica decimazione, e attualmente altri italiani dal Sud verso il Nord e verso il resto d’Europa e del mondo, e infine i popoli del Terzo e del Quarto Mondo verso le aree ritenute ricche, comunque in grado di garantir loro un qualche salario, un lavoro, un boccone di pane...
E chissà quanti altri popoli abbiamo dimenticato. Ma il senso di un’elencazione del genere è comunque e semplicemente quello di ricordare che moltissimi territori, non soltanto europei, possono essere rivendicati da popolazioni che li hanno abitati in passato. Per quel che riguarda specificamente il Vecchio Continente, ora che è in massima parte Unione europea, la domanda è d’obbligo: si tratta di una storia conclusa? Certamente, non è sensato ritenere che possano più scoppiare guerre tra popoli europei, tra Stati europei. Dunque, è impensabile che nuovi confini possano tornare a separare terre e popoli.
Certo, la memoria della storia e delle storie del passato è ingombrante ancora oggi, perché i sentimenti si nutrono di essa, e non muoiono mai. Forse sarà la stessa Unione europea ad assorbire rivendicazioni, nostalgie, anche prepotenti desideri di ritorni, concertandoli pacificamente nella cornice di un’armonia continentale, cioè di una patria comune e come tale sentita da tutti, con libero movimento, libera cittadinanza, libera residenza, libera formazione culturale.
Tempi lunghi, ovviamente, sono prevedibili per un progetto del genere. Antichi, reciproci rancori, spesse ruggini, contrapposte resistenze non si superano nel breve spazio di un mattino. Eppure, il futuro può essere soltanto questo: al di fuori di un concertismo condiviso c’è solamente il rischio reale di un ritorno al passato, con un’Europa non più generatrice di pacifica civiltà, ma sprofondata in un Medioevo di ritorno, molto meno grande e molto più tragico di quello che il Vecchio Continente ha vissuto al di là e al di qua della fine del primo Millennio.

 

   
   
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