Giugno 2007

 

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le giravolte
AA.VV.
 
 

 

 

Papa Galeazzo
è l’anonimo eroe
popolare che crede ancora in se stesso, che è comunque
capace di sognare
e ride soltanto
per nascondere nel profondo un pianto che dura dalla notte dei tempi.

 

La stangata

Ora che tutti quanti stiamo facendo i conti di metà anno, con tutte le scadenze che ci piovono addosso (la seconda ondata, puntuale come la morte, a dicembre) emerge la verità: abbiamo subìto una clamorosa stangata, più elevata rispetto all’aumento di circa due punti della pressione fiscale registrata nel 2006.
Per una sintetica analisi: partiamo da quello che era già contemplato nella Finanziaria (che pure era stata presentata come una “manovra zero a zero”), e cioè l’impennata delle addizionali Irpef da parte dei Comuni. Un sindaco su tre (praticamente tutti quelli delle grandi città, e una buona parte delle medie) ha aumentato il prelievo con una crescita media del 118 per cento che colpisce circa 22 milioni di contribuenti: una bella scoppola. Per quel che riguarda l’Ici, resta del tutto isolata la voce di coloro i quali ne chiedono l’abolizione sulla prima casa: una tabellina spedita dal ministero dell’Economia sostiene che un provvedimento del genere significherebbe la cancellazione di 2,3 miliardi di euro di gettito locale: un buco insostenibile per le finanze degli enti locali, specie di quelli nei quali impera la finanza allegra e che ignorano gli appelli alla moderazione della spesa pubblica e al ricorso soltanto in caso di evidente necessità a costose consulenze, a futili spese di rappresentanza, a misteriose elefantiasi del personale con altrettanto misteriose competenze e funzioni.

La stangata si è poi abbattuta con virulenza sull’area nella quale si anniderebbe la quota più alta dell’evasione fiscale: le dichiarazioni dei liberi professionisti. Il viceministro dell’Economia ha fatto scattare unilateralmente la revisione di ben 206 studi di settore. Gli aumenti medi viaggiano su percentuali vicine al 30 per cento, e alcune categorie invitano i propri iscritti a non adeguarsi ai nuovi parametri. Come dire: prove tecniche di ribellione fiscale, che intrigano in modo particolare le regioni settentrionali, dove lavorano 330 mila professionisti e circa tre milioni di titolari di imprese.
Infine, alcuni dettagli, piccoli ma non meno odiosi: l’aumento dei contributi per gli apprendisti, la minaccia di revisione degli estimi catastali, l’appesantimento delle documentazioni, il ripristino della tassa di successione. Altro che sportello unico per mettere su un’azienda, o sfoltimento della burocrazia, e quant’altro. Le tasse volano, e il contribuente-cittadino fa i conti anche con l’aumento delle bollette e dei trasporti, mentre il ministro dell’Economia ripete che «le tasse diminuiranno». Già, ma quando? E per chi? Intanto, girano cifre da vertigine per l’evasione (ma chi la persegue concretamente?), e si riconosce che il cittadino onesto paga, per questo, il 10 per cento almeno di tasse in più.
Forse pochi sanno che il 25 maggio l’Italia ha subìto l’ennesimo sorpasso: il Parlamento tedesco, con un lieve anticipo sulla tabella di marcia promessa dal governo Merkel, ha approvato il taglio delle aliquote sugli utili aziendali delle imprese, con un ribasso dal 38,7 per cento attuale al 29,8 per cento, che dovrà essere versato a partire dall’esercizio 2008. Tutto come promesso: il che, oltre le Alpi, non suscita alcuno stupore. Si pensi a quel che accade in Estonia: oggi si paga il 21 per cento, ma è già in calendario una riduzione progressiva fino al 19 per cento in tre anni. Senza sorprese per nessuno, imprenditori e consumatori. Insieme a questa decisione, vantaggiosa per le imprese, il Bundestag ne ha presa un’altra, indirizzata ai privati: le aliquote sulle rendite finanziarie vengono unificate al 25 per cento. Tutto come previsto. Al contrario, in Italia la politica di armonizzazione fiscale è stata messa precipitosamente nel cassetto, perché ci voleva (pensate un po’!) «una riflessione politica». Nel senso: cerchiamo una soluzione che ci porti qualche voto, visto che la barca fa acqua.
La novità che l’Italia, dopo la riforma tedesca, oggi detiene l’infausto primato della tassazione più pesante sui profitti d’impresa (in Irlanda si paga un terzo...) dovrebbe meritare la prima pagina dei quotidiani. Ma non è così. Il fatto è che i numeri fanno sorridere (cioè piangere) gli imprenditori in lotta quotidiana con uno Stato che scarica i propri costi vergognosi e le proprie contraddizioni sulle imprese e sui cittadini onesti: l’esatto opposto di quanto fanno gli altri, i quali hanno capito da tempo che oggi i governi devono essere un fattore essenziale per competere e creare ricchezza per tutti, imprenditori e operai, professionisti e impiegati, lavoratori temporanei e pensionati, attraendo capitali e lavoro.

E non parliamo dell’assurdo balletto di disposizioni prima approvate, subito dopo modificate oppure abolite, che ha accompagnato l’ultima fase del 2006 e la primavera di quest’anno, rovente sul piano fiscale, quella in cui si è accumulato il cosiddetto “Tesoretto”, ultimo schiaffo all’Italia che lavora. È la prova del nove di un atteggiamento pinocchiesco: se ci fosse l’effettiva volontà di abbassare in futuro le tasse, infatti, il governo dovrebbe destinare quel gruzzolo a ridurre la manovra per il 2008, proclamando che non sarà chiesto un solo euro in più ai contribuenti e promettendo che, questa volta, i sacrifici si faranno solo sul versante delle uscite, tagliando le spese. Invece i ministri e i partiti, specie quelli nemici del mercato, della meritocrazia, della produttività, si accapigliano fra di loro per buttar via quei soldi dalla finestra. Eppure, ci dice l’Ocse, le maggiori entrate finiranno presto, anche perché dipendono quasi esclusivamente dalla crescita dell’export delle piccole e medie imprese: proprio quelle che, con questa politica economica e fiscale, si rischia di strozzare.

luca ferrario

 

Impara l’arte e…

La disponibilità ad ospitare questa mostra trae origine dalla nostra consolidata convinzione della complementarietà tra architettura e arte, creando fin dalla fase progettuale i presupposti di una proficua collaborazione tra i diversi soggetti impegnati in un processo creativo. Abbiamo avuto la fortuna di poter verificare questo spirito di collaborazione con molti artisti, tra cui alcuni di chiara fama, come Giacomo Manzù, Armando Marrocco e Fernando De Filippi, realizzando insieme ad essi opere di notevole rilievo.
La mostra perciò è un augurio e uno stimolo ai giovani partecipanti perché la loro ricerca trovi come referenti privilegiati gli architetti, creando così un rapporto tra Arte e Architettura che nell’attualità ricopra la capacità di ristabilire un dialogo creativo così fecondo nel passato.


rosario scrimieri - maurizio caproni
Architetti

 

Ancora una volta l’Accademia di Belle Arti di Roma si trova a collaborare con istituzioni pubbliche e strutture private che cercano di integrare l’intervento artistico con quello didattico. L’occasione è stata offerta dallo Studio degli Architetti Scrimieri e Caproni, che insieme alla cattedra di Scultura dei professori Donato Bianco e Oriana Impei ha organizzato la mostra “Impara l’arte e...”. Gli allievi prescelti si sono confrontati sul tema del rapporto Arte e Architettura, tema sempre più presente nel dibattito artistico contemporaneo: negli ultimi anni molteplici sono state le iniziative per mettere a punto i confini e le potenzialità espressive di interventi artistici all’interno di progetti architettonici in relazione alla “public art”. Per gli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Roma, quindi, è stata un’occasione straordinaria proprio per riflettere su tematiche ancora esterne alla programmazione didattica e suscettibili di ulteriori sviluppi.


gaetano castelli
Direttore Accademia BB.AA.


Sempre più affascinati e coinvolti dal concetto di trasversalità, non fosse altro che per il moltiplicarsi della comunicazione legata all’arte nell’evoluzione stessa di quello “spiazzamento” così caro a Marcel Duchamp, e convinti che molteplici siano i luoghi dell’arte, ci piace che gli architetti Scrimieri e Caproni abbiano offerto ai giovani scultori dell’Accademia di Belle Arti di Roma del corso di Scultura dei docenti D. Bianco e O. Impei l’occasione di situare le loro opere all’interno dello Studio di Architettura, facendo sì che le stesse possano interloquire fuori dalla dimensione puramente estetica che individua e caratterizza la galleria o il museo.
E ci chiediamo per quale strana alchimia ci ritorni alla mente quanto scritto da Rudi Fuchs nel suo testo di presentazione di “Standing Sculpture”, la mostra tenutasi nel Castello di Rivoli dal dicembre 1987 all’aprile dell’anno successivo con opere, tra gli altri, di G. Baselitz, E. Chillida, L. Fontana, A. Masson, M. Pistoletto, R. Serra, F. Melotti, e più precisamente quella frase che afferma: «... e le sculture erano come gente in piedi in una stanza», sollecitando riflessioni sul loro essere, sul loro relazionarsi e sul loro interloquire.
Nell’assoluto protagonismo dello “spazio” e in quel suo essere architettura nell’architettura, e arte nell’arte, fino a consentire all’idea, in quanto tale, di concretarsi superando ogni possibile limite e ogni imprevedibile confine. Riprovando quella stessa sensazione avuta nel ritrovarsi nel ventre di una delle “Nanas” di Niki o nel cuore del Fishdance di Frank O. Gehry.


toti carpentieri
Critico d’arte


La natura come maestra di “color che fanno”: questa fu convinzione diffusa tra gli architetti di tutte le epoche. Lo hanno affermato Vitruvio, Leon Battista Alberti e Palladio, ma anche Borromini, Laugier, Milizia, e, avvicinandoci al nostro tempo, Le Corbusier, Wright, Renzo Piano, Emilio Ambasz e altri ancora. Mai come oggi, del resto, la lezione della natura indica agli architetti, ma anche ai designer e agli ingegneri, la strada da percorrere per evitare sciagure, cataclismi, sprechi, devastazioni. Vitruvio, nello splendido proemio al secondo libro del suo trattato, attribuisce al contatto con la natura l’invenzione umana della società, del linguaggio e dell’architettura, nati insieme come effetto della scoperta del fuoco e del piacere provato dagli uomini primitivi di stare insieme attorno al tepore della fiamma.
Alberti e Palladio pongono l’accento sulla necessità che nell’architettura si seguano le armonie proporzionali del corpo umano creato a somiglianza di Dio, come mezzo per introdurre in ciò che l’uomo fabbrica per se stesso una scintilla di divinità. Le Corbusier, rivolgendosi nel 1936 a un gruppo di architetti di Johannesburg, si chiede come sia possibile arricchire le proprie capacità creative, e dà alla domanda una risposta di straordinaria attualità: «Non abbandonandosi alle riviste di architettura, ma partendo dalla scoperta del dominio insondabile delle ricchezze della natura: la grazia, anzitutto! Sì, questa leggerezza, questa esattezza, questa indiscutibile realtà delle combinazioni, delle generazioni armoniose di cui la natura offre lo spettacolo in ogni cosa [...]. Vorrei che gli architetti, non solo gli studenti, prendessero la loro matita per disegnare una pianta, una foglia, per esprimere lo spirito di un albero, l’armonia di una conchiglia, la formazione delle nuvole, il gioco così ricco delle onde che si estendono sulla sabbia e per scoprire le espressioni cicliche di un’intima forza».
La natura come maestra di economia e di semplicità: raramente studiando una forma vivente si individuano parti inutili, purché si tenga conto del fatto che molti dei suoi aspetti hanno come ragion d’essere la necessità di comunicare, e di farlo obbedendo all’istinto della bellezza. L’architetto, quindi, imparerà dal perfetto dimensionamento delle parti di un albero o di una foglia a quantificare la materia necessaria a sopportare una certa sollecitazione, ma imparerà anche dalla forma dei fiori, dalla livrea degli uccelli e dai profili del tronco e dei rami di un albero a comunicare attraverso segni e simboli i significati che possono trovare risonanza nell’anima di coloro i quali osservano le sue opere. Eccolo, dunque, il segreto aurorale: osservare i processi con cui la natura raggiunge le sue forme così affascinanti e metterle in relazione con immagini architettoniche. Non per nulla, come ha osservato Portoghesi, «passeggiare in un bosco corrisponde per me a vedere negli infiniti aspetti della vita altrettante possibili ipotesi di un’architettura che sia, nello stesso tempo, lode della creazione e premessa di una città più vivibile».

***

 

La polvere del Salento è ormai lontana

Anche l’epoca in cui scrivere romanzi è ormai lontana: tuttavia continuo a rivolgermi a coloro che non salutai come avrei dovuto, quando sparii improvvisamente.
Questa volta, mi fermo dove sono, ovvero dove sto benissimo. Non ho che da descrivere l’ambiente che mi circonda: fra gli oggetti che più amo, la chiave di San Francisco. Me la donò quel sindaco, che mi aveva invitato, vista la popolarità di cui godevo, per aver scritto anni e anni articoli dedicati agli italo-americani della California su un giornale che si chiamava Italia, letto con passione dai nostri connazionali emigrati.
Detta chiave era in semplice legno compensato e, in inglese, vi si poteva leggere: “Per piacere ritorna”. Per me il suo valore era altissimo.
Nella cameretta tra il verde c’era un altro oggetto prezioso: una chiave d’ora africana assai pesante, detta “Croce di Agades”. Questa volta, il ricordo prezioso era africano: Agades è un villaggio della Mauritania sul quale risplende a picco la Stella del Sud, con tutti i suoi prodigiosi significati.
Per questo, tralascio il verbo all’imperfetto, e decido di restare. Altri oggetti cari mi circondano. Grazie, Cristiana.
Per esempio, il manifesto-programma di un’opera lirica, che non era stata mai rappresentata in Africa e che feci conoscere, chiamando gli artisti della Scala di Milano. Mi limito al semplice elenco dei cimeli del passato, ormai nostalgicamente affissi alle pareti del mio rifugio: il diploma di un’onorificenza francese, il diploma di un’altra italiana, il dipinto a olio di una Madonna portata in Versilia dall’indimenticabile Salento ormai lontano; un mio articolo incorniciato su Perla, il fedelissimo Terranova che dorme proprio con me, nella mia angusta camera, e una bella targa di socio fondatore dell’Associazione Lucchesi nel Mondo, con placca d’oro.
È incredibile, appunto, che in così poco spazio possa stare tutta la lunga vicenda di una vita, spesa a caccia del nuovo, del bello, del vero. Per questo, mai mi sentirò come un esule prigioniero: prima di dormire, guardo le pareti intorno e viaggio ancora...
Fuori, un’erbetta selvaggia profuma il mio sonno. Cos’altro potrei desiderare di più?
Per darmi l’importanza dell’invalido, avevo inserito tra queste pagine sincere una foto del sottoscritto in carrozzina a rotelle. Ora, sono immerso da lettere di amici che non vogliono vedermi in quel modo. Cosicché questa parte del mio strampalato diario continuerà senza pagine illustrate.
La gente mitizza volentieri: lo sta dimostrando. Ma ciò che non è mito (confesso) è il terribile mal di schiena, forse dovuto agli altrettanto noti “fori” nei reni, che mi costringe presto ad una pausa forzata.
Non crediate che io riposi: devo trovare sempre nuovi spunti narrativi, e non è facile. Meno male che ho ricominciato a ricevere posta e tutti voi sapete che da sempre vivo attendendo con ansia l’unico uomo che amo, il postino. Non esagero, mettetevi nei miei panni e vedrete che aprire una busta, giunta da chissà dove, è una grande soddisfazione.
Nel frattempo, tanto perché si sappia, fui ricoverato una seconda volta in ospedale, per il lavaggio del catetere, in verità trascurato assai. Quando si sono formati coaguli nel tempo, la pulizia diviene una vera e propria dolorosissima operazione. Continuo così ad alternare momenti di gioia e momenti di crudele sofferenza.
Del resto, la mia vita fu sempre un’alternanza di fasi opposte e, forse, questa dialettica dell’essere produsse la mia vivacità essistenziale, nemica dell’inedia.
Con questa parte seconda, infatti,inizio la doverosa corrispondenza preannunziata. Non so a chi scrivere, so che scriverò. Questo basta a sentirmi ancora vivo e pensante. Al solito, non è poco.
Non si tratta, però, di semplice corrispondenza in partenza, ma anche in arrivo. Per esempio, l’altro giorno, un vecchio amico dei tempi in cui mi occupavo di politica cittadina mi ha scritto testualmente: «È necessario un forte impegno anche economico degli enti e del Comune. Per realizzare questo progetto, sarà quindi utile partire da quei paesi e frazioni più densamente abitati, come l’Oltreserchio». E ha concluso senza complimenti: «Acqua e fognature per tutti i paesi di Lucca». Il suddetto candidato sindaco aggiunge: «Parcheggi gratis in periferia e posti-auto riservati a ogni famiglia del centro storico».
La frase propagandista che più mi piacque rimane la seguente: «I giovani sono il futuro: a Lucca li renderò protagonisti».
Vi chiederete perché ho inserito questi passi non certo a carattere letterario in questo mio autobiografico sproloquio. L’ho fatto per dimostrare che sono concretamente rimpatriato. Cosicché, riprendo a scrivere di cose personali con tutto il pentito entusiasmo del figliol prodigo! Non è vero che vivo lontano dalla città dove nacqui; anzi, la porto ancora nel vecchio cuore, allarmato come sono dai suoi battiti, sempre più sporadicamente irregolari. Il mio segreto si chiama “resistenza”.
Non doveva essere una lettera di saluti “ritardati”? D’accordo, ma il ritardo, a mio avviso, rende più intenso il legame sentimentale.
A proposito di ritardo e delle conseguenti emozioni che ne derivano, nel fare ordine tra il mare di carte che vado accumulando, ho trovato una commovente lettera di quella dolce Lydie, che io chiamavo Siou-Wan, ovvero Piccola Nuvola, suo nome asiatico. È stata una grossa botta alla mia capacità di non piangere. Direte che, come al solito, inserisco “pezzi” non pertinenti al testo. Invece lo faccio, traducendo dal francese il più fedelmente possibile:
“Voglio che tu conservi il ricordo del bel tempo che abbiamo trascorso insieme. Continuo a pensare alla vita che vivemmo in Senegal, in Kenya, in Indonesia e a Casamassella.
Ora, sto continuando a battermi, ma non sarà mai più la stessa cosa...
Penso anche ai nostri cani, che abbandonammo al canile. L’idea mi fa soffrire.
Addio, ti amo e ti amerò per sempre...”.
Mi fermo qui, è una citazione pericolosa e fa un male terribile. Il prodigio è avvenuto, Lydie parla!
Dico soltanto che quel sentimento è perfettamente reciproco, non aggiungo simmetrico.
Lydie, l’ho inserito perché voglio che, un giorno o l’altro, tu possa leggermi.
A questo punto, delle mie cose, del presente, rimane soltanto il verde della selva che mi circonda. Credetemi.
Per finire, è uno stato d’animo sufficiente, oltre che immeritato; intendo spremerlo, per cacciare ogni amarezza.
Lydie, hai visto? Non volevo scrivere a te, poi... lentamente il tuo improvviso ricordo (quella lettera) ha forzato la mia bussola di vecchio. Si è fatto largo con un ultimo scossone. Perdonami anche questa volta.
Guardo fuori. Le Apuane e il Tirreno sono ancora lì, a mia disposizione; proprio come l’indelebile immagine che io conservo e conserverò di Piccola Nuvola.
La schiena mi fa un male terribile, perciò chiudo definitivamente.

florio santini

Quel pauroso sentimento del tempo

Chiedo scusa al lettore e all’autore se per queste righe su Nel mistero del tempo, il libro poetico che Giovanni Bernardini pubblica con Piero Manni, comincio citando la dedica personale che dice: “Sarà questa la mia ultima caccia?”, con un riferimento al mio piccolo romanzo sull’ultima caccia di Federico II, dello stesso editore, ma soprattutto con un’allusione alla caccia del tempo sull’uomo, dell’uomo sul tempo.
Ma il motivo della citazione consiste nel rilevare come – al di là dell’umile riferimento – la dimensione poetica profonda e implicita di Bernardini sia la stessa di ogni grande scrittore. Perché ogni grande scrittore – e grande vuol dire colui che crede nelle parole tanto quanto crede nella vita dentro i giorni (o di più?) – pensa sempre – sospetta, forse segretamente, che ogni libro (anzi: ogni pagina, ogni parola) siano sempre l’ultimo libro, l’ultima pagina, l’ultima parola, limiti definitivi, invalicabili, assoluti.
E allora ogni grande scrittore pensa che in ogni pagina, in ogni parola, sia indispensabile, inevitabile, metterci tutta la vita, tutta l’esperienza, tutta la possibilità e l’impossibilità dell’esistere, ogni felicità e ogni dolore, tutte le illusioni e le delusioni, le stanchezze e i vigori, tutti i sogni e le occasioni, le sconfitte e le vittorie, le conquiste e le rinunce, le coerenze e le contraddizioni. Pensa che debba mettercele così, nelle pagine, nelle parole, come sono venute, ordinate o confuse, attese o improvvise. Così fa Giovanni Bernardini, in questo libro. Fa come ogni grande scrittore, indipendentemente dall’età che conta nel tempo in cui scrive.
Bernardini è della classe ‘23. È – anche – per questo motivo che provo per lui un grande affetto. Come provavo un grande affetto per Aldo De Jaco, che era del ‘23. Mio padre era del ‘23.
In questo libro di Bernardini trovo una delle più belle poesie che abbia mai letto (e qualcuna l’ho letta). S’intitola “Sulla soglia”: una lettera al padre; un tentativo innocente di cancellare la distanza tra i luoghi della precarietà e i luoghi dell’eterno; un atto di consegna fiduciosa al mistero dell’oltre, all’enigma dell’altrove.
Poi trovo una poesia dedicata al grande amico Salvatore Toma, il ricordo della neve di quel marzo dell’ottantasette.
Dice Giovanni Invitto, nella bella e affettuosa postfazione, che questo libro è il canzoniere di una vita, «uno specchio nel quale il poeta si guarda non per trarre consuntivi ma per interpretare il mistero del tempo».
Ha fatto bene davvero Giovanni Bernardini ad affidare ad un filosofo come Invitto l’interpretazione del suo mistero del tempo: che è nella memoria, nel sogno, nella ferita del giorno che passa impietoso sul cuore, sulle ossa, sul volto; è nel rimpianto di tutto quello che è andato perduto, degli amici che a un certo punto hanno salutato; è nel disappunto di tutto quello che si sarebbe potuto fare e non s’è fatto, nella nostalgia di quello che si è compiuto, nella speranza per quello che resta da compiere.
«Si perde così / nel mistero del tempo / l’umana esistenza», scrive: versi che stringono le teorie di Agostino e le ultime parole di Albert Einstein, il Qohèlet e le concrete e brucianti filosofie di chiunque si soffermi un istante a pensare a se stesso.
Poi, in fondo e dentro l’umana esistenza, e forse anche dopo (perché questa è l’inconfessata aspirazione di chiunque si ostini a martoriare fogli), c’è la scrittura: a volte nella forma di una prosa, a volte nell’andare frequentemente a capo della poesia, anche se – inevitabilmente – restano pagine bianche, anche se si affievolisce la volontà di costruire ponti sulle parole per andare incontro agli altri (o solo a qualcuno), anche se si rimane da soli con se stessi e il rumore del mondo diventa nient’altro che uno sciabordio senza significato.
In fondo e dentro resta la scrittura, come resoconto e progetto, come specchio e cruna dell’ago, come annotazione al margine del tempo, come consolazione per se stesso, lascito di memoria, intimo testamento, come vizio incallito, come sollievo e tormento.
Anche se la scrittura è solitudine deserta. Inutile rimedio o medicamento per un malessere viscerale. Chiosa al testo del tempo che genera soltanto taedium vitae, spossatezza, mentre cresce il vento pestilente della vecchiaia.
La vecchiaia per Bernardini non è solo un segmento dell’esistenza; è soprattutto una ferita provocata dalla consapevolezza delle assenze, delle perdite continue e irrimediabili, del vuoto che si allarga e inghiotte ogni affetto, ogni antico e nuovo appassionamento. È la somma delle perdite e delle assenze. È un ritrovarsi tra la cenere di tutto.
Rimane la memoria, che però non riesce a consolare. Anzi, costringendo a stabilire paragoni, esaspera la solitudine, la rende disperata. Fa da risonanza, da pietra dentro il pozzo che coinvolge in centri concentrici tutti gli spazi del vissuto.
La scrittura si fa sempre più netta, più decisa, più lucida.
Ora per Bernardini la poesia è concretezza concettuale, che sul piano del linguaggio si traduce in una forma e in un lessico che rifiutano ogni ambiguità, ogni artificio, finanche qualsiasi condizione di polisemia. Le parole hanno significati precisi, inequivocabili, e la sintassi assume l’andamento di un monologo lirico, sì, ma lineare e incalzante.
D’altra parte la solitudine non è né ambigua né artificiale, per cui non possono esserlo le parole che la esprimono. Se poi la poesia è tramata da simboli e metafore, è proprio perché la solitudine è simbolo e metafora. Della morte.
Questo, per Bernardini, è la scrittura, adesso; questo è diventata con lo stratificarsi degli anni: un gesto naturale come uno sguardo, un movimento delle mani, un battito di cuore, un soprassalto del pensiero, un trasalimento improvviso, un confronto sereno, un sonno quieto, l’ansia di un’insonnia, il bisbiglio di una preghiera. Una fede umana. Troppo umana. E, per questo, fragile e poderosa, innocente e assoluta.

antonio errico

 

   
   
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