Giugno 2007

le sue origini, il suo travisamento

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Pìcaro “Papa” Galeazzo
Ezio Sanapo
 
 

 

 

Papa Galeazzo
è l’anonimo eroe
popolare che crede ancora in se stesso, che è comunque
capace di sognare
e ride soltanto
per nascondere nel profondo un pianto che dura dalla notte dei tempi.

 

Difficile dire quanto i periodi felici della storia abbiano riguardato le popolazioni del Sud, e in particolare di Terra d’Otranto. Ma l’epoca che sta tra il Cinquecento e il Settecento ha rappresentato la notte più fonda, l’autentica “notte della taranta” per gli abitanti di quest’area. Al morso dell’aracnide e della fame si aggiungeva quello della paura e della disperazione per il clima inquisitorio messo in atto dal regime spagnolo, coadiuvato dal clero, per scongiurare il dissenso che nasceva dentro e fuori della Chiesa.
Vengono in mente immagini di paesaggi torbidi, senza aurore né tramonti, com’è descritto dai versi di un’antica filastrocca salentina: ...Cquai nu canta gallu / e nnu sse vite luna. / Nuddhru fiju te mamma / camina mai a quist’ura...

Ma il Sud, che aveva risorse proprie, sopravvisse a tutto ciò, esorcizzando il proprio disagio con la superstizione e con la magia. E, in situazioni estreme, anche con l’ironia. Così, al simbolo pagano della taranta si aggiunse un altro, anche questo in opposizione alla Chiesa, tanto da far pensare a una presa di distanza dalla fede: nacque in un contesto ostile e come rimedio a tutti i mali il personaggio di “Papa Galeazzo”, del paese di Lucugnano e paludi limitrofe, a sud del Regno di Napoli, nell’area marginale soprannominata le “Indie d’Italia”.
Papa Galeazzo, che non ha alcuna certificazione anagrafica comprovante la sua reale esistenza, era la trasposizione in chiave ironica di un anonimo cittadino in un prete malizioso e bonario, metafora popolare di quello che nella realtà era un inquisitore temuto e potente. Il quale poteva essere ridimensionato, e la sua opera negativa vanificata, anche da una singola persona che, fortemente consapevole della propria identità, tenesse nella dovuta considerazione la caducità e la transitorietà di ogni vicenda umana. La commiserazione, la tolleranza o l’ironia erano risorse che, nelle circostanze, non lasciavano spazio ad alcuna forma di violenza.
L’idea del personaggio di Lucugnano era nata, probabilmente, a danno di un omonimo parroco coevo realmente esistito. È da presumere che non fosse ben visto dalla povera gente del luogo, tanto da essere sbeffeggiato con l’appellativo di “Papa”: un Papa che però si atteggiava, ragionava e viveva come un qualunque paesano. Sta di fatto che molti preti, a quel tempo, oltre alle loro funzioni liturgiche, aiutavano il potere temporale, svolgendo compiti “polizieschi” che potevano culminare a volte anche nella persecuzione di persone innocue e innocenti. Proprio per queste ragioni la gente comune avvertiva la necessità di far valere in qualche modo le proprie ragioni; e, non potendo farlo liberamente, diede delega a Papa Galeazzo, maschera tragicomica creata ad imitazione di un prete non al servizio di Dio, ma dei potenti: personaggio nel quale si incarnavano e diventavano un’unica cosa l’anima di un “cafone” e quella di un “picaro”, che, forti della loro carica trasgressiva, mettevano in atto una rappresentazione a scena aperta delle reali condizioni di vita della comunità.
Nella storia anonima, mai scritta, della gente del luogo, questo tipo di “ribellione” in apparenza puerile e insignificante era tutt’altro che nuovo. Basti considerare, per esempio, che il turpiloquio, con espressioni oscene ed esplicitamente impudiche usato nel dialetto salentino era motivato da una repressione sessuale premeditata e sistematicamente perseguita per secoli dalle stesse autorità, con tutte le sottomissioni, le frustrazioni e le devianze che ne derivavano. La stessa abitudine di bestemmiare Dio, la Madonna e i Santi è da ritenersi una forma di disobbedienza blasfema che si diffuse proprio in quegli anni; e le stesse autorità se ne preoccuparono, tanto da far ricorso a torture esemplari, quali quella della mordacchia *, e persino a leggi speciali.

Di analoghe “ribellioni liberatorie”, molti anni più tardi, fu vittima l’Arma dei carabinieri. Questi, quando giunsero per la prima volta in Salento, non furono visti di buon occhio. I salentini, che tradizionalmente lavoravano la terracotta, riprodussero in serie la loro figura, facendone dei pupazzi in miniatura con tanto di pennacchio e baffoni, e con un curioso fischietto attaccato al fondoschiena: rappresentati sugli attenti, per il controllo di un popolo notoriamente scettico e prevenuto contro i cambiamenti, erano la riprova che tutto ciò che veniva imposto dall’alto creava inquietudine e poi rigetto.
Oggi, che viviamo in tempi di relativa libertà di pensiero e di parola, possiamo comprendere meglio il disagio di tante generazioni, dalle quali emersero anonimi autori controcorrente, i quali, nel clima di caccia alle streghe dell’epoca, seppero “inventare” per ogni male rimedi irriverenti, irriguardosi, rischiando (almeno per i fatti di conclamata gravità) l’accusa di eresia e la conseguente condanna al rogo, come capitò al nolano Giordano Bruno o – più vicino a noi – al taurisanese Giulio Cesare Vanini, l’uno e l’altro contemporanei.
Papa Galeazzo, dunque, più che interprete di una volgare comicità demenziale, come si è voluto sempre far credere, si è distinto come un autorevole personaggio salentino del XVI secolo, nato col diffondersi della letteratura picaresca spagnola, che per la prima volta raccontava la realtà nuda e cruda della gente comune, e che poi riecheggiò, per merito di autori spesso non a caso anonimi, in tutta Europa, con le figure di Lazarillo de Tormes, Justine, Moll Flanders, Tom Jones, Gil Blas, e molti altri, noti e meno noti.
Nella premessa a La letteratura picaresca: cultura e società nella Spagna del 1600, di José A. Maravall, si narra di una società spagnola divisa in tre classi fondamentali: quella privilegiata dei nobili e del clero; l’altra, costituita dal ceto medio, che condivideva parte di quei privilegi, ma con posizione critica e con richiesta di riforme; e la terza, dei dissenzienti, ossia la moltitudine dei ceti più poveri: un sottogruppo di questi, ancora più emarginato, era – appunto – quello dei picari, ai quali indubbiamente si ispiravano, per parallelo dissenso o per scrupolo, intellettuali del ceto medio o elementi illuminati del popolo stesso, per dar vita a personaggi immaginari, resi messaggeri di una denuncia che diversamente sarebbe stato impossibile fare. Nacquero da un contesto sociale così ingiusto i comportamenti del picaro, creatura libera e senza regole, individualista e senza padroni, con comportamenti che erano al limite della legalità: un protagonista abituato a vivere ai margini di una società iberica che, nell’estrema periferia imperiale, includeva anche il paese di Lucugnano, in provincia di Lecce.
Dal punto di vista del periodo storico, la figura di Papa Galeazzo è collocata sotto il regime spagnolo di Filippo II, quando ormai, tramontati i fasti del Rinascimento, tutta l’Europa attraversava una fase di difficoltà economiche, con i singoli Stati tesi a trovare una via d’uscita investendo nelle attività mercantili. In Italia un’azione del genere non fu possibile per l’influenza dello Stato Pontificio, che impediva ogni tentativo di unificazione della Penisola. Divisa in tanti Stati, piccoli e contrapposti tra loro, l’Italia non fu in grado di far fronte alla concorrenza degli altri Paesi continentali. Ciò comportò un ulteriore impoverimento.
In una realtà così difficile, le precarie condizioni di vita furono giustificate con la teoria dell’esistenza terrena come tempo di transizione e di espiazione: una realtà, però, che per essere accettata così com’era, aveva bisogno di essere mitigata da un tocco di virtualità. Per ingannare l’occhio, si sovrappose ad essa una visione architettonica ricca, imponente, solenne. Come per miracolo, chiese e palazzi gentilizi mutarono forme e si arricchirono di fregi e di elementi decorativi eccessivi, allo scopo di ostentare maggior prestigio e, conseguentemente, di pretendere e ottenere maggior rispetto. Nacque in questo modo il Barocco, che ebbe tra i suoi epicentri la Spagna e anche la Terra d’Otranto. In questo rimarcato conflitto tra il reale e l’irreale, e tra il vero e il falso, poteva accadere allora che persino nel più piccolo e sperduto angolo del Reame, come Lucugnano, un picaro o un qualunque cafone dotato di innata ironia potesse diventare Papa. Un Papa che per descrivere le reali condizioni della gente comune doveva necessariamente farsi interprete della storia del borgo, con comportamenti eccentrici e con racconti di vita maliziosi, allusivi, come sfogo alle paure, alle inibizioni e all’impotenza. Vicende e racconti di vita non più censurati realizzavano il sogno del picaro: riscattarsi dal proprio destino, imporsi diventando qualcuno, conquistare un gradino più alto nella scala sociale, e – come mai era accaduto – essere preso in considerazione dalla storia.
Un sogno che non poteva durare a lungo. Perciò il risveglio fu tragico e amaro. Dopo il Concilio di Trento, in piena età di restaurazione, tutto rientrò negli schemi dell’ordine costituito. All’oblio ci pensò lo scorrere del tempo. La taranta, simbolo del disagio sociale espresso con un rito pagano, perdette significato e autonomia e passò sotto la tutela di San Paolo protettore. Su Papa Galeazzo calò il sipario e della sua carica trasgressiva non si seppe più nulla. Solo trecento anni dopo, ad Italia unificata, la figura del prete lucugnanese riemerse, ma lobotomizzata, senza più alcuna motivazione storica e senza parrocchia. Da allora gli sono stati attribuiti cunti e culacchi, cioè volgari racconti da osteria, e come un ridicolo, patetico buffone è stato consegnato ai giorni nostri.
Papa Galeazzo è invece l’anonimo eroe popolare che crede ancora in se stesso, che è comunque capace di sognare, e che vive da sempre in noi, sospeso tra la fantasia e la realtà. Forse, anche sotto le sue mentite spoglie di figura barocca continua a celarsi un cuore tenero di umile contadino, che sa di essere destinato a soccombere, e che ride soltanto per nascondere nel profondo un pianto che dura dalla notte dei tempi.

 

   
   
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