Giugno 2007

commedia all’improvviso, o dell’arte

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La passione di Isabella
Anita Chemin Palma
 
 

 

 

Come desiderava,
Isabella è riuscita a
sopravvivere: nella maschera che da lei prende il nome, e che la grande
famiglia del teatro riporta alla luce sulle tavole
del palcoscenico.

 

La commedia all’improvviso, più conosciuta con la definizione di commedia dell’arte, fu uno straordinario fenomeno culturale e di costume che dall’Italia si diffuse in Europa e modificò il modo di recitare, il ruolo sociale degli attori, la stessa struttura dei canovacci e dei testi che costituiscono la tradizione del teatro europeo. Come esempio, si pensi soltanto all’influenza determinante che ebbero vari teatranti italiani – famosi già allora, come Biancolelli, Cicognini o Fiorilli, o sconosciuti di cui ci resta solo qualche citazione – nel tramutare il greve personaggio del nobile prepotente e libertino, già presente nella tradizione scenica, in quella figura audace e quasi metafisica che è il Don Giovanni di Molière e poi di Mozart. Compagnie teatrali e singoli attori attivi nella penisola, scrittori che avvertivano la debolezza della commedia erudita del tempo, famiglie nobili che si facevano promotrici di spazi teatrali aperti al pubblico: dall’incontro di questi elementi nacque una fecondissima contaminazione fra l’energia vitale del teatro di strada da una parte, e la finezza di elaborazione dei letterati di professione e di attori via via sempre più eruditi.
Una figura del tutto particolare, in questo contesto, è quella della padovana Isabella Andreini. Notevole, innanzitutto, la sua eredità nella tradizione teatrale: il personaggio della donna amorosa, determinata nel perseguire i suoi scopi anche contro le macchinazioni di chi li vuole ostacolare – solitamente il suo stesso vecchio e arcigno padre, oppure un qualche pretendente di analoga meschinità – questo personaggio, dunque, interpretato dalle più giovani e dotate attrici delle compagnie all’improvviso. Dopo di lei e da lei prese il nome di “Isabella”. E a giudicare da quello che fece nella sua esistenza, pur così breve, e dalla perfetta consapevolezza delle intenzioni che emergono dai suoi scritti, determinata Isabella lo fu davvero. Nacque a Padova nel 1562, da genitori originari del Veneziano. La famiglia non era benestante, ma Isabella ricevette un’ottima educazione, e fame di cultura le rimase addosso per tutta la vita.
In quell’epoca, l’ambiente culturale padovano era vivace anche per le donne. Gaspara Stampa scriveva le sue Rime, Elena Cornaro Piscopia si laureava in filosofia e medicina, prima, in Italia, a raggiungere simile risultato. Ugualmente vitale era la situazione delle compagnie teatrali: il primo esempio conosciuto di un gruppo di attori che si riuniscono professionalmente con un regolamento e un riconoscimento legale è del 1545, quando a Padova la Compagnia di Ser Maphio del Re stese un contratto alla presenza di un notaio per la costituzione di una “fraternal compagnia” di comici. Della compagnia – come appare dal contratto stesso e come usava in tutta Europa – non faceva parte nessuna donna. Di lì a poco, tuttavia, le cose sarebbero cambiate.

Nel 1578 Isabella Andreini entrò a far parte della compagnia teatrale dei Gelosi: aveva solo sedici anni, ma era già sposata con Francesco de’ Cerrachi, e due anni prima gli aveva dato un figlio. Francesco aveva trent’anni: soldato nell’armata navale veneziana, poi prigioniero dei turchi per otto anni, al ritorno in patria aveva scelto la via del teatro, ma per non disonorare il proprio nome con un mestiere tanto spesso mal visto lo aveva cambiato in quello di Andreini. Questo timore della cattiva reputazione, e la preoccupazione di distinguere la professione di attrice da quella di meretrice, saranno una costante della compagnia dei Gelosi, e soprattutto di Isabella. Nei suoi scritti, spesso viene ribadita la differenza tra i ruoli da lei interpretati in scena e quello di moglie fedele e di madre amorosa vissuto nella realtà. Non è dato sapere se da parte sua prevalesse lo sforzo di opporsi alle riserve di tipo morale che da sempre le autorità religiose avevano nei confronti del teatro – e che non di rado finivano per ostacolare concretamente la messa in scena dei lavori – oppure la volontà di farsi riconoscere come un’intellettuale e una scrittrice di talento al di là della presenza scenica e della bellezza fisica che, stando ai racconti coevi, la natura le aveva regalato generosamente. Di fatto, nei suoi lavori i due temi compaiono con la stessa frequenza, come se per lei la serenità dell’amore coniugale fosse una salvaguardia dalle insidie del mondo, e permettesse all’intelletto di espandersi in tutte le sue potenzialità. Ed è quasi commovente ascoltare l’encomio del valore della cultura nelle parole di una donna che, per l’epoca in cui è vissuta e per le sue vicende personali (dopo il primo figlio, concepito in un’età che per noi oggi è assurda, ne vennero altri sei, e un ultimo che le fu fatale), deve aver superato non poche fatiche per affermare il suo diritto alla conoscenza. «…Essendo per avventura questo desiderio di sapere nato in me più ardente che in molt’altre donne dell’età nostra, le quali come che scuoprano in virtù degli studi molte, e molte esser divenute celebri, e immortali, nondimeno vogliono solamente attendere (e ciò sia detto con pace di quelle, che a’ più alti, e a’ più gloriosi pensieri hano la mente rivolta) all’ago, alla conocchia, e all’arcolaio… hò voluto à tutta la mia possanza alimentarlo; e benché nel mio nascimento la Fortuna mi sia stata avara di quelle comodità, che si convenivano per ciò fare, e benché sempre sia stata lontanissima da ogni quiete… tuttavia perché il viver mio non si potesse chiamare un continuo dormire… a pena sapea leggere (per dir così) che io al meglio che seppi, mi diedi a comporre la mia Mirtilla favola boschereccia, che se ne uscì per le porte della stampa…».
Per Isabella recitare è un modo per sfuggire a un destino angusto, ma soprattutto per ottenere una gloria perenne, dato che «intenzion mia dunque fu di schermirmi quanto più i’ potevo dalla morte». In ogni caso, non è il suo unico talento. Isabella suona e canta con molta abilità, riferiscono le cronache. E, soprattutto, scrive: la Mirtilla, appunto, per il teatro; le Rime; 31 dialoghi drammatici e le Lettere, postumi. Il suo valore come scrittrice le apre le porte dell’Accademia letteraria degli Intenti; le sue qualità musicali, vocali e sceniche le procurano una fama sempre più vasta come attrice. Interpreta personaggi femminili, ma anche il pastore Aminta nella omonima favola del Tasso. Con “La Pazzia d’Isabella” – spettacolo tenutosi a Firenze nel 1589 in occasione delle nozze tra Ferdinando de’ Medici e Cristina di Lorena – crea il suo cavallo di battaglia. Sull’esile trama di un contrasto amoroso – Isabella s’innamora di un giovanotto sgradito a suo padre, decide di fuggire con lui, in seguito a molti equivoci i due non riescono ad incontrarsi, Isabella impazzisce, farnetica, e solo una provvidenziale bevanda magica, alla fine, la fa rinsavire – la Andreini costruisce un pezzo di bravura che mette in luce tutte le sue abilità interpretative.
«…Come pazza se n’andava scorrendo per la Cittade… parlando hora in Spagnolo, hora in Greco, hora in Italiano, e molti altri linguaggi, ma tutti fuor di proposito: e fra le altre cose si mise a parlar Francese, e a cantar certe canzonette pure alla Francese, che diedero tanto diletto alla Sereniss. Sposa… Si mise poi ad imitare li linguaggi di tutti li suoi Comici, come del Pantalone, del Gratiano, del Zanni, del Pedrolino, del Francatrippe, del Burattino, del Capitan Cardone, e della Franceschina…». (G. Pavoni, Diario, descritto da Giuseppe Pavoni delle feste celebrate nelle solenissime Nozze delli Serenissimi Sposi, il Sig. Don Ferdinando Medici e la Sig. Donna Christina di Loreno Gran Duchi di Toscana, Bologna, 1589).
La commedia dell’arte si fondava sulla standardizzazione dei personaggi, derivati, a loro volta, dai caratteri comici di antica tradizione. Ogni attore ne impersonava stabilmente uno, assimilandone frasi, gesti, espressioni, quasi fosse una seconda natura. Durante le rappresentazioni, basate generalmente su un intreccio delle più immediate pulsioni umane – fame, avidità, desiderio, paura e così via – e spesso orientate dall’estro di chi era in scena, o dalle reazioni del pubblico, ciascun attore traeva, a seconda della necessità, gesti e battute dal serbatoio del proprio personaggio abituale. Tanto più impressionante, quindi, dev’essere apparsa l’esibizione di Isabella, capace di passare non solo da una lingua ad un’altra – il gramelot, del resto, faceva parte del bagaglio normale dell’attore – ma anche da una tipizzazione ad un’altra. Negli anni seguenti Isabella è attiva presso le più importanti corti della penisola, con varie compagnie o, sempre più spesso, con quella dei Gelosi. Infine, probabilmente nei primi mesi del 1603, il viaggio a Parigi su invito della corte reale. Le rappresentazioni si tengono nel teatro del Petit Bourbon, restaurato apposta per i Gelosi, e il successo che la compagnia e in particolare Isabella riscuotono è davvero notevole, come anche il riscontro economico che ne deriva. La permanenza in Francia dura più o meno un anno. Durante il viaggio di ritorno in Italia, tuttavia, le cose precipitano: a Lione, nel giugno 1604, «per una sconciatura», come riportano le cronache del tempo, ossia per l’aborto del suo ottavo figlio, Isabella muore. Tutta la città partecipa alle esequie dell’attrice, e probabilmente su commissione degli stessi sovrani viene coniata una medaglia commemorativa con la sua immagine. Poco dopo il marito Francesco scioglie la compagnia dei Gelosi, dedicandosi da quel momento alla cura editoriale degli scritti della moglie, e a perpetuarne l’eccezionale fama ottenuta in vita. Dei figli di Isabella solo uno, Giovan Battista, seguirà le sue orme e diventerà a sua volta capocomico e drammaturgo.
A quarantadue anni Isabella se ne va con una morte tutta al femminile, proprio lei che con tanta caparbietà e intelligenza aveva cercato di allargare i limiti di un destino predeterminato dall’appartenenza al suo sesso. Tuttavia, come desiderava, è riuscita a sopravvivere: nella maschera – appassionata e decisa a conquistare, forse più che l’amoroso di turno, il mondo e le sue meraviglie – che da lei prende il nome, e che la grande famiglia del teatro, generazione dopo generazione, riporta alla luce sulle tavole del palcoscenico.

 

   
   
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