Giugno 2007

il deserto, il sud, l’acqua

Indietro
Il cuore arido della Terra
Monica Marano - Lanfranco Caselli - Giulio La Spina
 
 

 

 

Se le guerre del Novecento sono state combattute per il petrolio, quelle del futuro avranno come
oggetto
del contendere
l’acqua.

 

L’inverno che non si manifesta è necessariamente attribuibile all’effetto serra, oppure può trattarsi di una contingente situazione meteorologica e, dunque, di un’espressione del tempo atmosferico anziché del clima? La differenza tra tempo e clima sta nella dimensione temporale alla quale essi si rapportano: il primo è ritmato da respiri brevi (giorni, settimane, mesi, qualche anno); il secondo è modulato da periodi lunghi millenni o secoli, o, nella migliore delle ipotesi, venticinque anni. Tuttavia, la stranezza della stagione – che si ripete sempre più spesso, ed è questo, semmai, che induce a proiettare il ragionamento su tempi più lunghi, climatici – contribuisce alla riflessione sul mutamento del clima.
Questa normale espressione – “cambiamento climatico” – incredibilmente censurata per anni negli Stati Uniti, in Europa è “consentita” e ritenuta vera, ma rischia comunque la disattenzione dei più. Nonostante la coscienza critica degli ambientalisti – sebbene siano forse un po’ ossessivi nell’affrontare il problema –, l’unica possibilità di acquisire rilievo per la questione è il trattamento “terroristico”. Il che non fa che aumentare l’indifferenza e l’inerzia, perché la reazione corrente delle persone comuni (che costituiscono l’opinione pubblica), dei politici (che legiferano) o degli imprenditori (che dovrebbero essere convinti a entrare in un mercato virtuoso per un clima sostenibile) è spesso: – Che cosa posso fare per cambiare tutto ciò? – .

Dagli Stati Uniti è arrivata di recente un’affermazione scientifica che, se confermata, potrebbe almeno darci sollievo. Il fatto che il clima del Nord dell’Europa sia ben più mite rispetto a quello dell’America del Nord, di pari latitudine, non è dovuto tanto alla Corrente del Golfo (definita «un mito da sfatare» da Richard Seager, della Columbia University), quanto piuttosto all’influenza benefica delle acque che circondano le terre emerse europee, le cui coste sono molto più estese di quelle lineari del Canada o degli Stati Uniti, caratterizzate da clima “continentale”, cioè più incline agli estremi. Ciò smentirebbe un’ipotesi più volte paventata dai climatologi, che l’effetto serra possa bloccare la Corrente del Golfo, precipitando il Vecchio Continente in una nuova era glaciale.
In realtà, afferma Seager, il rallentamento della corrente determinerebbe un raffreddamento benefico, in grado di contrastare il riscaldamento atmosferico. Il problema non si sposta. Ma, ecco, anziché il “terrorismo” (nel caso della Corrente del Golfo imputabile agli stessi scienziati), è preferibile qualche ragionamento in più e, nello stesso tempo, la determinazione ad agire, anziché la paura.
Trattandosi di una questione economica e, ancor più, legata alla salute e alla vita, occorre allontanare il pensiero sbagliato che il clima peggiorerà domani (o mai, come qualcuno insiste a sostenere), ma convincersi invece che cambierà un poco alla volta (anche se non linearmente, ma accelerando). Un argomento significativo è legato al livello dei mari. Sottolineare che verranno sommerse isole, coste e città fa pensare all’ineluttabilità e all’impossibilità di agire. Ricordare che tutto avverrà per gradi, anno dopo anno, consente la progettazione di opere di difesa e il ricorso crescente (ma immediato) a fonti energetiche alternative.
È pur vero che anche la prospettiva della gradualità può indurre all’inerzia, ma, a questo punto, il problema è storicamente uscito da una dimensione soltanto scientifica per entrare, se non insisteremo con uno sciagurato “terrorismo”, nelle coscienze di ogni abitante del Pianeta.
Il deserto avanza, si dice, e si teme che, a forza di conquistare sempre nuove aree, possa raggiungere dimensioni ragguardevoli nella Penisola. Ed è il Mezzogiorno d’Italia la zona geografica minacciata più direttamente da un tipo di desertificazione che in buona parte è determinata dalle mutazioni cicliche del tempo e del clima, ma che in parte sono anche frutto dell’attività dell’uomo, e più esattamente dell’uso indiscriminato e irrazionale delle risorse disponibili.
Un esempio inquietante di quest’ultimo aspetto negativo è dato dal livello di sfruttamento intensivo delle acque che si trovano nelle falde freatiche. È noto che gli strati di acque carsiche sono di tre tipi, a volte coesistenti insieme, altre volte accoppiati variamente. Al limite più basso, data la loro pesantezza, ci sono le acque salate. A livello intermedio ci sono le acque salmastre. Più in alto di tutte si rilevano le acque dolci. Ebbene: le strutture irrigue che interessano le campagne meridionali, e le produzioni colturali che ne dipendono, fanno letteralmente scempio di questi sistemi sotterranei, nel senso che, sfruttate del tutto le acque dolci, là dove ci sono, si procede con le irrigazioni con acque salmastre, individuabili dal sottile strato di polvere bianca che si deposita sulla superficie della terra, che altro non è che sale marino: è questo che, nel giro di pochi anni, determina la sterilità delle campagne delle regioni meridionali, con prospettive di recupero che richiedono tempi lunghi e riconquista di terreni da strappare all’aridità colpevolmente prodotta dall’egoismo e dall’imprevidenza dell’uomo.
A tutto questo, il Sud deve sommare i fenomeni naturali, come il bradisismo, che interessa in particolare alcune fasce costiere campane, o l’erosione, che invece si va manifestando con ritmi crescenti in ampie aree delle marine calabresi, lucane, pugliesi e molisane. Quest’ultima, in particolare, sta letteralmente trasformando il tradizionale aspetto, la consueta conformazione delle coste interessate.
Così, la desertificazione coinvolge le attività agricole del Sud, così come, insieme con queste, l’erosione preoccupa gli imprenditori turistici delle regioni meridionali, condizionando l’intera economia territoriale e nazionale, e prospettando immagini di arretramento socio-economico che riportano il Sud e le sue componenti produttive più vivaci su posizioni contigue al Terzo mondo, e riaprendo una secolare e tutt’altro che superata “questione” del Mezzogiorno. Che andrebbe ad aggiungersi, appunto, ai problemi terrificanti che riguardano milioni di persone nei Paesi arretrati del Pianeta.
(La celebre vecchia battuta sul tempo – tutti ne parlano, nessuno fa qualcosa – oggi sembra non rispondere più al vero. Molte persone, allarmate dalla minaccia di riscaldamento del pianeta, starebbero attivamente tentando di cambiare i comportamenti degli esseri umani al fine di trasformare il clima. La Commissione europea ha calcolato di recente che nel Sud del Vecchio Continente, compreso dunque il Mezzogiorno d’Italia, l’effetto serra provocherà da qui al 2070 da 36 a 86 mila vittime. Ha stabilito che l’incremento della temperatura sulla superficie del globo nel solo 2006 è stato pari a 0,42 gradi, e ha previsto che il costo totale dei danni che sarebbe provocato, sempre dall’effetto serra e sempre in Europa entro il 2020 dovrebbe essere pari a 4,4 miliardi di euro).
Che cos’è un deserto? Incantati da un miraggio tuareg, è facile dimenticare che il deserto non è un oceano. Che le sue linee mobili non sono le zone erogene che fanno da sfondo ai naufragi dei sensi raccontati da Paul Bowles nel Tè nel deserto o da Michael Ondaatje in Il paziente inglese. Che navigare è certo più facile che non percorrere piste lontane, guidati non da sirene berbere, ma da guide opportuniste, circondati non da dromedari, ma da fuoristrada scassati come vascelli fantasma. E all’orizzonte mai un’isola deserta, ma sempre un’oasi che funziona ad aria condizionata.
Stregati da un sogno sahariano, è facile dimenticare che la parola araba “erg” che traduciamo “mare” significa, in realtà, “vena”. E quella che noi chiamiamo “cresta” non è veramente un’ “onda”: “seif” in arabo significa “serpente”. Perché le leggi che governano questo luogo senza meta non sono quelle caotiche dell’acqua: «Nella sabbia pensiamo di trovare disordine, e invece siamo stupiti dalla geometria», scriveva nel 1941 l’ufficiale inglese Ralph Bagnold nel saggio La fisica della sabbia e delle dune. «Cumuli pesanti milioni di tonnellate si muovono inesorabilmente, in formazioni regolari, crescendo ma mantenendo la loro forma e riproducendosi in una grottesca imitazione della vita che offende l’immaginazione».
A differenza del mare, il deserto si allarga, e quasi ci viene incontro: copre già il 20 per cento del Pianeta, ma ogni anno divora altri 70 mila chilometri quadrati di terra fertile. Grazie ai cicli tempo/clima e ad umane maldestrie, minaccia in tutto il mondo 100 milioni di uomini: tanti, quanti, secondo le Nazioni Unite, saranno costretti ad emigrare nei prossimi anni, inseguiti dalla sabbia che li rincorre in 110 Paesi. Già ora le dune hanno scacciato 12 milioni di esseri umani dalla regione del Sertao, in Brasile, mentre circa un milione hanno abbandonato il centro arido del Messico in direzione della costa. Si calcola che più di 100 mila miliardi delle nostre vecchie lire vengano persi ogni anno in questa guerra impossibile.
Come tutte le malattie endemiche, anche la desertificazione all’inizio può essere scambiata per una sindrome benigna: pochi granelli di sabbia che sbattono sulla porta di casa, o piovono con lo scirocco sui tetti delle nostre automobili. «Pensi che il vento cambi, ma poi continua a soffiare nella stessa direzione, e spalare sembra non bastare mai: un giorno alzi gli occhi da terra e capisci che le dune si sono avvicinate», raccontano i vecchi di El Oued, una città algerina di quelle di cui si fa presto a dimenticare il nome, perché un giorno c’era, e il giorno seguente è sparita sotto dune che avanzavano di 8 centimetri al giorno. Lo stesso nell’Atacama, in Cile, e sull’altopiano del Quingai, in Tibet, dove una volta l’erba era tanto alta che le mucche ci si nascondevano.
Mojave, Chihuahua, Sonora nelle Americhe. Sahara e Kalahari in Africa. Gobi e Takamaklan in Asia, l’area centrale dell’Australia, che possiede la metà delle risorse nutritive del Sahara, ma che è abitato dal più gran numero di lucertole al mondo (quarantasette specie) e di eucalipti (770 varietà, con foglie velenose che soltanto i koala riescono a mangiare).
E ora all’elenco dei deserti occorre aggiungere il più paradossale di tutti, il Lago Aral, creato in meno di un secolo dalla stupidità criminale dei burocrati sovietici. Era il 1918 quando decisero che l’Asia centrale era il luogo ideale per coltivare il cotone, mai visto prima da quelle parti, e che per farlo bastava togliere acqua al lago. Entro il 1960 erano irrigati così 6 milioni di ettari. Ora sono 10 milioni: anche terre remote, al confine con la Cina e con l’Afghanistan. Ma intanto l’Aral non c’è più, al 90 per cento è scomparso, e quel che rimane ha una concentrazione salina così alta, da avervi estinto 24 specie di pesci. I villaggi dei pescatori che un giorno costellavano le rive del lago ora si trovano a decine di chilometri dall’acqua. Vecchi navigli da pesca marciscono in pieno entroterra. Attorno, un nuovo deserto, immenso, attraversato da tempeste di sabbia pregna di pesticidi. In sintesi: fino a quattro decenni fa copriva un’area grande quanto il Belgio e i Paesi Bassi messi insieme, con oltre 1.000 chilometri cubi di acqua. Poi le acque dei due fiumi che lo alimentavano vennero deviate. Oggi l’Onu definisce quel che è successo all’Aral «la più grave catastrofe ambientale del XX secolo».
E non si tratta di un caso isolato. Un altro grande specchio d’acqua, l’africano Lago Ciad, era un giorno non lontano un mare interno ai margini del Sahara. Le dighe per deviare le acque dei suoi affluenti lo hanno ridotto a una pozzanghera: a fine anni Novanta aveva perso il 95 per cento della superficie, e nel 2004 si è ritirato fino a 523 chilometri quadrati.
Fiumi un tempo maestosi oggi sono ridotti a rigagnoli. Rio Grande (nome messicano), o Rio Bravo (nome americano): ex fiume gonfio di acque, oggi un fiumiciattolo lento e marrone, spesso secco d’estate. Il suo declino parte dal 1915, quando con bacini artificiali si iniziò a prelevare acqua per rifornire città e coltivazioni, ma con sprechi tali che solo il 40 per cento arriva ai campi. Fiume Indo, Pakistan: nei guai fino al collo. Nei primi anni del XXI secolo è in gran parte asciutto nelle ultime centinaia di chilometri del suo corso. La sola perdita di pesci ammonta a 20 milioni di dollari l’anno. Fiume Mekong, Cambogia: nel 2003, sulle sponde del grosso corso d’acqua regnava lo sgomento. Le piene erano state le più misere della storia. Motivo? Da mezzo secolo la grande arteria liquida del Sud-Est asiatico è nel mirino degli esperti di energia idroelettrica, e otto nuove dighe si stanno costruendo lungo il suo ramo principale. Fiume Giallo, Cina: il quinto fiume più lungo del pianeta è sempre più esiguo, dalla sorgente fino al mare. I canali di irrigazione si prosciugano, i campi sono abbandonati, la desertificazione genera enormi tempeste di sabbia.
La richiesta di acqua oggi è cresciuta di sette volte rispetto agli inizi del XX secolo. Così la scarsità di risorse idriche penalizza una fetta enorme di popolazioni: un miliardo e mezzo di persone non dispone di acqua potabile, due miliardi e 400 milioni vivono in situazioni di “stress idrico”, (diventeranno più del doppio nei prossimi 25 anni), otto milioni di persone muoiono per malattie legate ad acqua stagnante o inquinata. Per fare degli esempi sui consumi: occorrono 10 litri d’acqua per produrre un litro di benzina, 30 litri per un litro di birra, 100 litri per un chilo di carta o di lana, da 2 a 5 mila litri per coltivare un chilo di riso, 11 mila litri per ottenere un hamburger da 200 grammi, 20 mila litri per un chilo di caffè…

Consumo quotidiano di acqua per abitante: Europa e America del Nord, da 300 a 600 litri; Asia e America Latina, da 50 a 100 litri; Africa, da 10 a 40 litri.
Gli analisti della Cia e gli esperti della Banca Mondiale non nutrono alcun dubbio: se le guerre del Novecento sono state combattute per il petrolio, quelle del futuro avranno come oggetto del contendere l’acqua. Non tutti sono d’accordo. Ma è certo che i tre quinti dei 263 bacini idrici internazionali sono privi di trattati che ne regolino la gestione. E l’inesorabile prosciugamento delle falde è destinato ad esacerbare le tensioni tra gli Stati.
Le zone in cui lo stress idrico minaccia di trasformarsi in conflitto armato sono quelle con scarse riserve, come nel Vicino Oriente, e le altre, dove laghi e fiumi sono condivisi da due o più Paesi: i bacini del Nilo, del Niger, dello Zambesi, del Tigri e dell’Eufrate, dell’Indo, del Gange, del Mekong. I contenziosi in corso sono già una cinquantina, e in un paio di occasioni sono sfociati in azioni di guerriglia, nello Sri Lanka (per una diga nel distretto di Trincomalee) e in Libano (per i canali che dal fiume Litani portano acqua nella Valle della Bekaa). E non va dimenticato che la guerra dei Sei Giorni, tra Israele e mondo arabo, scoppiò per le sorgenti del Giordano.
Ma la situazione se possibile ancora più grave è quella del Nilo, vera e propria vena giugulare dell’economia e dell’agricoltura, contesa da dieci Paesi con 250 milioni di africani affacciati sulle sponde: 84 miliardi di metri cubi d’acqua annui, con 55 miliardi catturati dalla diga egiziana di Assuan e distribuiti lungo il tratto egiziano, mentre Khartoum e Addis Abeba contestano il vecchio sistema di quote del 1959, ritenuto ormai obsoleto. L’acqua di questo fiume sono decisive per l’energia idroelettrica e i faraonici progetti del Cairo: dopo il “Canale della pace” nel Sinai, è la volta del Canale di Toshka, che rischia di infliggere un altro colpo alla portata del fiume, compromessa dalla decisione dell’Etiopia di irrigare 3 milioni di ettari di campi sulle rive del Nilo Azzurro e dall’abbassamento (3 per cento nel 2003, pari a 75 chilometri cubi) del livello del Lago Vittoria, sorgente del Nilo Bianco. Il lago, cruciale per 30 milioni di africani, non decresce solo per siccità o variazioni climatiche: le dighe costruite dall’Uganda sull’unico emissario hanno permesso al governo di Kampala di incamerare un gettito idrico superiore del 55 per cento al limite consentito dai trattati firmati in epoca coloniale.
E ancora: un conflitto strisciante è in atto anche in area mesopotamica, dove da secoli i fellahin e gli allevatori di Siria e Iraq dipendono dai fiumi padri della storia, il Tigri e l’Eufrate. Ma è la Turchia, dove sgorgano, a determinare il flusso grazie a dighe colossali, (la sola Diga Atatürk può strozzare d’un colpo l’Iraq). Ankara, dunque, è in grado di condizionare le economie dei Paesi della Mezzaluna Fertile, dove la maggior parte della popolazione vive di agricoltura.
Più ad est, altri focolai di tensione: sono in rotta di collisione i maggiori consumatori e i Paesi che controllano le fonti idriche. In Asia centrale, l’Uzbekistan e il Kazakhstan fagocitano i due terzi delle risorse, ma i due corsi principali, il Syr Darya e l’Amu Darya, hanno origine nel Kyrghizistan e nel Tajikistan. E i cinque Stati che si affacciano sul Mar Caspio non trovano un accordo sullo sfruttamento del bacino.
L’Indo, uno dei maggiori sistemi fluviali del pianeta, è al centro del contenzioso fra due potenze nucleari, l’India e il Pakistan: il fiume, che abbevera 150 milioni di pakistani e ne irriga le colture, attraversa un tratto del Kashmir indiano. Qui gli ingegneri di New Delhi hanno innalzato dighe che, secondo Islamabad, violano gli accordi e minacciano la sicurezza del Paese. Analoga disputa tra India e Bangladesh sul Gange. Un’altra tra India e Cina per il Brahmaputra. Altre tra Pechino e i Paesi rivieraschi del Mekong. Scoppierà nell’Oriente Estremo la prima guerra dell’acqua del XXI secolo? La crescita demografica e la fame di energia delle economie asiatiche non promettono nulla di buono.
Intanto, assediati dalla sabbia e dai dubbi, i geografi si interrogano su che cosa sia un deserto: non lo facevano dagli anni Settanta, quando si cominciò a parlare di desertificazione. Se il metro è l’aridità della terra, ci si qualifica sotto i 250 millimetri di pioggia l’anno, o qualcosa di più? Meglio guardare al tasso di evaporazione dell’acqua o a un’unità di misura biologica che tenga conto di quali specie animali riescono a vivere in quegli inferni, e quali no? I climatologi sembrano avere più certezze su che cosa cambi ogni volta che un pezzo di terra diventa deserto: sole e calore vengono riflessi, aumentando la temperatura del pianeta. Il vento porta la sabbia ben oltre i confini naturali del deserto: gli astronauti dello Shuttle hanno individuato una striscia gialla lunga 300 chilometri allungarsi dal Sahara verso la costa della Florida. Perché è vero che il deserto non è acqua, ma può uccidere anche la più remota barriera corallina. E anche di più. Secondo alcuni paleontologi, l’ultima volta che l’aumento della temperatura provocò siccità e incendi come quelli che portano ora all’intensificarsi della desertificazione fu 4 mila anni fa: quando cioè la storia si interruppe con la scomparsa delle grandi civiltà dell’Età del Bronzo, da quella mesopotamica a quelle del Regno Antico in Egitto.
Cosa accade all’uomo che nel deserto abita e vive, all’affilato peul o al misterioso tuareg, lo racconta come nessun altro lo scrittore William Langewiesche nel suo saggio Sahara unveiled. Nel più grande deserto del mondo, spiega, i fisiologi specializzati nello studio della sete guardano che cosa succede all’organismo quando la temperatura si alza oltre i 50 gradi (il record venne registrato nel 1922 a El Azizia, in Libia, con 57,78 gradi). Spiegano che immaginare l’acqua è la prima naturale reazione in un ambiente dipsogenico, che cioè provoca voglia di bere, assalendo i sensi e prosciugando 14 litri di sudore al giorno. Se i liquidi non vengono presto rimpiazzati, si passa dall’eudipsia (la sete normale) ad attacchi di iperdipsia (sete intensa), fino ad arrivare alla polidipsia (lo stadio in cui bevi qualsiasi cosa).
Per Langewiesche, il deserto è un viaggio nel passato, in un’era minerale, fatta di silenzio e di immobilità. Nell’anno Mille, quando Timbuktu divenne la capitale del Sahara, ad arrivarci era una sola pista sterrata. Nel 1824 la Società Geografica Francese promise una ricompensa ai primi europei in grado di tornare vivi dal viaggio. Ancora adesso gli aerei sono sporadici e le strade impossibili: certa è solo la navigazione sul fiume Niger, quando non è in piena. Chi alla fine arriva, trova un mercato ormai moribondo, tre moschee decrepite, beduini e dromedari immobili, e nell’aria il presagio di un futuro magro.
Splendeva il sole sul Canale della Manica, appena increspato dalla brezza favorevole che sospingeva la flotta normanna. Era il 28 settembre 1066. Guglielmo il Bastardo stava per cambiare il proprio soprannome con quello di Conquistatore. La temperatura era mite, il mare tranquillo, la buona visibilità offriva condizioni ideali per lo sbarco di fanti e cavalieri. Dalla tolda della nave ammiraglia, Guglielmo osservava la costa del Sussex orientale. Quello del quale stava per prendere possesso si rivelava Paese verde, fertile, coltivato con le tecniche più avanzate: aratro a vomere, rotazioni triennali, uso del cavallo da tiro.
Una volta sbarcato a Pevencey e inoltratosi nella grande isola, Guglielmo si accorse, forse con sorpresa, certamente con piacere, che il clima mite consentiva, almeno fino alla latitudine di Canterbury, la diffusione della vite. Il frutto di Bacco era stato introdotto in Inghilterra probabilmente da monaci viticoltori desiderosi di assicurarsi il necessario per la messa, un paio di secoli prima dell’arrivo del Bastardo-Conquistatore.
Nell’XI secolo il vino era ormai diffuso come genere di consumo di lusso tra classi superiori (le intemperanze dilagarono e si fecero tanto scandalose che, nel 1215, Innocenzo III sentì il dovere di condannare l’ubriachezza come grave delitto).
I nobili normanni che accompagnavano Guglielmo non facevano eccezione, e sicuramente apprezzarono l’abbondanza di vino offerta dal Paese nel quale stavano insediandosi. Consolidato il possesso della Gran Bretagna, espropriati i signori sassoni, rafforzate le strutture feudali, assegnato a proprio dominio personale circa un terzo dell’intero territorio, Guglielmo volle conoscere in dettaglio il valore della conquista.
E il volere del re si tradusse nello straordinario Libro del Giudizio (Domesday book) compilato nel 1085-86: un censimento dettagliato degli uomini, degli animali, delle terre, delle coltivazioni. Esso documenta la diffusione della vite e di altre colture, tipiche di climi caratterizzati da prolungati periodi estivi e da inverni miti.
La cosiddetta “Epoca tiepida medioevale” era iniziata almeno un paio di secoli prima che Guglielmo portasse a termine l’impresa sognata poi senza successo da Napoleone e da Hitler. E fu un’epoca che non produsse solo vitigni a latitudini inusitate.
C’è chi si chiede se i Vichinghi, dal cui ceppo discendevano gli uomini che accompagnavano Guglielmo nel 1066, avrebbero potuto diffondere altrettanto agevolmente la loro straordinaria civiltà, in assenza delle temperature relativamente miti che caratterizzarono l’Europa Centrale e Settentrionale tra il IX e il XIV secolo. La colonizzazione dell’Islanda, che alla metà del X secolo contava già 25-40 mila abitanti, sarebbe stata meno facile e fruttuosa in presenza di temperature più rigide e di approdi ostruiti dal ghiaccio. A partire dal 985 sono documentate le prime colonie vichinghe in Groenlandia, rese possibili da una considerevole ritirata dei ghiacciai che lasciava liberi i mari attorno a fiordi verdeggianti. La stessa navigazione vichinga lungo il Danubio, arteria del commercio tra Oriente ed Europa Settentrionale, trasse vantaggio dal medesimo riscaldamento medioevale, che consentiva a Guglielmo e ai suoi nobili compagni di allietarsi con i piaceri del vino.
L’“Epoca tiepida medioevale” fu caratterizzata da inverni brevi e da temperature estive superiori di uno-due gradi centigradi alla media millenaria e paragonabili a quelle della metà del XX secolo. Documenti dell’epoca sembrano indicare gli anni tra il 1080 e il 1180 come i più tiepidi in Europa, con punte di caldo eccezionale. Un vantaggio non di poco conto per un’economia assillata dall’approvvigionamento di energie. È un caso che ciò abbia coinciso con il grande risveglio, soprattutto a nord delle Alpi, dei traffici, delle città, della dinamica demografica? Sarebbe poco convincente ridurre le cause della rinascita economica e sociale ai mutamenti climatici. Trascurarli lo sarebbe ancora meno. Proviamo a immaginare in che modo inverni corti, estati secche e lunghe stagioni tiepide intermedie influirono sulla vita quotidiana del tipico contadino nordeuropeo che lavorava la terra per la sussistenza propria e della famiglia.
Inverni più miti, rispetto a quelli fronteggiati dai suoi antenati, gli permettevano di dedicare meno tempo all’approvvigionamento della legna da ardere, tempo che, nella stagione morta, egli poteva dedicare per dissodare un nuovo campicello, a scavare un canale di scolo che evitasse le periodiche inondazioni di qualche suo appezzamento, a costruire un aratro migliore. Anno dopo anno, ciò gli permetteva di accrescere la produzione, di avere figli e animali meglio nutriti, dunque maggiore energia produttiva nei campi. Gli consentiva forse di ottenere un piccolo sovrappiù da portare al mercato. Mercato, la cui attività era a sua volta favorita dalla clemenza del clima, perché fiumi e strade erano percorribili più agevolmente per un tempo più esteso, e i mercanti potevano allungare i loro periodi di viaggio. Soprattutto, la temperatura invernale meno rigida accresceva la speranza di vita del nostro contadino, (speranza che per quelli come lui non superava i 25 anni).
Inverni lunghi e rigidi aggiungono debolezza agli organismi deboli e sottonutriti, in particolare di bambini e di anziani, rendendoli più vulnerabili ai virus. Moltiplichiamo i vantaggi ottenuti dal contadino-tipo per milioni di volte e avremo, anche per questa via, un’economia più produttiva e una dinamica demografica più vivace.
Al periodo del “riscaldamento medioevale” seguì la “piccola èra glaciale”, che gli esperti datano grosso modo dal XIV al XIX secolo. Le temperature medie si abbassarono forse di tre-quattro gradi rispetto ai secoli precedenti. I ghiacciai avanzarono nuovamente. Gli insediamenti vichinghi in Groenlandia scomparvero, spazzati via forse dalla carestia, forse dalla peste, forse dagli attacchi delle popolazioni autoctone (gli Inuit) maggiormente capaci di resistere alle temperature artiche. La vite sparì dall’Inghilterra, generando un fiorente commercio con la Francia e infiniti dibattiti sui meriti del “chiaretto” o del Borgogna.
La peste nera che nella metà del secolo XIV devastò l’Europa, riducendo la popolazione del Vecchio Continente di almeno un terzo, venne con tutta probabilità importata dall’Oriente, ma fu tanto letale anche a causa delle severe condizioni climatiche. Tornarono inverni lunghi e rigidi. Francesco Guardi ebbe modo di dipingere la laguna veneta completamente ghiacciata nell’inverno del fatale 1789: si camminava e si pattinava agevolmente tra le Fondamenta Nuove e Murano.
L’esistenza di una “Epoca tiepida medioevale” è ampiamente documentata. Poiché non può essere attribuita a un effetto serra prodotto dall’uomo, alcuni studiosi ritengono che la sua esistenza possa in qualche modo tranquillizzarci circa il futuro climatico della Terra. Purtroppo, le circostanze odierne sembrano diverse da quelle medioevali. Le temperature medie all’epoca del Medieval warming erano simili a quelle della metà, non della fine del XX secolo. In modo particolare, l’attività umana – presente e soprattutto prevedibile nel futuro prossimo – non è comparabile a quella medioevale. Forse non tutti si rendono conto dell’irreversibile salto quantitativo compiuto dalla storia umana nell’ultimo ventennio. Il salto è tale da consentire, in molti campi, pochi utili paragoni con il passato. Uno di questi campi è, appunto, quello climatico-ambientale. Che non esclude alcun continente, alcuna area avanzata o arretrata che sia, oggi. E che ci porrà di fronte a problemi di portata decisiva: quello idrico, quello delle produzioni colturali, quello della salute pubblica. Con sconvolgimenti che occorrerà ipotizzare in questi nostri tempi, al fine di poter correre ai ripari con progetti realistici, e con consapevole assunzione di responsabilità.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2007