Giugno 2007

L’inno delle polemiche

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Quel filoborbonico
di Giuseppe Verdi
Sergio Bello
 
 

 

 

 

Quando fu
deputato, Verdi
si batté in
Parlamento per il diritto d’autore:
fu il suo modo di combattere i plagi che lo avevano
colpito durante
tutta la sua vita.

 

Fa scalpore un inedito di Giuseppe Verdi. Soprattutto perché si tratta di un “Inno nazionale” dedicato a Ferdinando II di Borbone, ritrovato negli archivi del Conservatorio napoletano di San Pietro a Majella. Autore del testo, Michele Cucciniello. Spartito stampato dall’editore Girare, nel 1848, a Napoli. Ritrovamento ad opera del maestro Roberto De Simone. Frontespizio dello spartito definito «inedito». E immediate reazioni: Verdi non è stato forse il simbolo dell’Italia mazziniana e unita sotto i Savoia?
Eppure, nell’Inno il Borbone è salutato come “re della patria”. Per questo e per altri motivi, non tutti concordano con l’attribuzione dell’Inno (che ha la stessa musica dell’Ernani, e più precisamente del motivo “Si ridesti il Leon di Castiglia”) al compositore di Busseto. In ogni caso, c’è chi si dichiara possibilista: è il caso dello storico Giuseppe Galasso, per il quale la firma di Verdi sotto l’inno borbonico è plausibile, perché il clima dell’epoca era tale da far sì che i liberali guardassero con speranza ora all’uno ora all’altro dei sovrani italiani. Del resto, Ferdinando II proprio in quel 1848 fu il primo monarca della Penisola a concedere la Costituzione sotto la spinta dei moti siciliani. Ma fu una breve meteora, e l’esperienza si concluse ancora una volta con l’uso della forza.

Sulla stessa linea, anche se da una prospettiva del tutto diversa, è Roberto Selvaggi, curatore della manifestazione “Viaggio nella memoria” alla riscoperta dei Borbone: «L’inno di Verdi? Lo conoscevo già, ne avevo sentito parlare in Puglia. Ed è un’altra prova che i Borbone non erano poi così cattivi come li si dipinge. Forse Verdi avrà lavorato su committenza per Ferdinando II, un re che concesse la Costituzione con convinzione. Poi è successo quel che sappiamo, ma non fu colpa sua».
Ma qual è l’opinione degli storici della musica? E perché parlare di un “inedito”, quando si tratta di uno spartito canto e piano stampato? Opere simultaneamente “stampate” e “inedite” rappresenterebbero una novità assoluta nella storia dell’editoria, non soltanto musicale: lo sottolinea con una certa ironia Orazio Mula, docente al Conservatorio di Cuneo e autore di un libro su Giuseppe Verdi, edito dal Mulino, uno dei saggi più completi e aggiornati dedicati al cigno di Busseto: «L’Ernani», ha dichiarato lo studioso all’indomani della scoperta, «è nota come opera delle contraffazioni, che sorgevano spontaneamente. Che Verdi sia direttamente responsabile dell’inno borbonico mi sento di escluderlo». In altre parole, era consolidata la prassi piratesca di pubblicare melodie di successo in un’epoca nella quale il melodramma costituiva la musica di consumo popolare. Chiunque, senza conseguenze, poteva parodiare l’opera musicale altrui, sostituendovi un testo diverso.
Con motivazioni analoghe è sceso in campo anche l’Istituto nazionale di studi verdini, di Parma. Sulla presunta scoperta di De Simone il prestigioso ente taglia corto: si tratta di un plagio consumato all’insaputa dell’autore. Il motivo di un giudizio così tranciante? La mancanza di comunicazione, all’epoca, tra Regno delle Due Sicilie e resto d’Italia.
A questo punto è intervenuto lo stesso De Simone, il quale ha innanzitutto precisato di non aver mai parlato di “inedito”: «Si tratta di un brano stampato nel 1848, che in quel tempo evidentemente tutti conoscevano, ma oggi è stato dimenticato. Nel 1973, però, ci fu una segnalazione da parte della bibliotecaria Anna Mondolfi, che ne parlò al filologo Cecil Hopkinson, il quale pubblicò la notizia, a New York, in un suo lavoro bibliografico su Giuseppe Verdi. Dopo di che, non se ne è più parlato. Ma a Napoli, nell’epoca in cui venne scritto, di sicuro lo conoscevano tutti. Probabilmente era eseguito nei salotti buoni della città, tra patrioti e liberali».
Verdi, allora, sapeva che la sua musica era utilizzata per rendere omaggio a Ferdinando II? «Non ho prove, ma mi sembra probabile che il Maestro abbia conosciuto l’inno, anche per i suoi frequenti contatti con la città di Napoli e con il San Carlo». E come metterla con quanto affermato dall’Istituto verdiano di Parma, secondo il quale non c’era comunicazione tra il Nord e il Sud d’Italia? «Si sbagliano di grosso. In particolare, Verdi aveva stretto amicizia con Francesco Florimo, che era il bibliotecario di San Pietro a Majella. Se l’inno fosse stato un apocrifo, Verdi lo avrebbe disconosciuto nella sua fitta corrispondenza col bibliotecario. Invece lo spartito non fu mai oggetto di contestazione da parte di Verdi. Il Maestro era un patriota e anche lui avrà guardato con speranza al Regno meridionale, che era molto più europeo di quello dei Savoia. Il Sud, lo sappiamo bene, è stato vittima dell’Unità, non doveva diventare, come poi è stato, la coda d’Italia e finire in accattonaggio». Forse, ipotizza ancora De Simone, a qualcuno oggi dispiace pensare che Verdi abbia potuto salutare un monarca napoletano come futuro re d’Italia.
Una questione politica? Mula non è d’accordo. Alla replica di De Simone, lo studioso di origine meridionale controribatte: «Non c’era bisogno di scomodare Verdi per operare queste falsificazioni che avvenivano in tutta Italia: circolavano anche le versioni del Leon di Caprera e del Leon di San Marco su quella stessa musica. Quando fu deputato, Verdi si batté in Parlamento per il diritto d’autore: fu il suo modo di combattere i plagi che lo avevano colpito durante tutta la sua vita».
E le polemiche proseguono. Senza che sulla vicenda sia stata posta la parola fine.

 

   
   
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