Giugno 2007

Quella luce sospesa tra la terra e il mare

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Immagina un faro
Antonio Errico
 
 

 

 

 

Un galeone
di mercanti andò a schiantarsi contro gli scogli e i
mercanti sparirono nel mare, senza aver pace, perché nei loro occhi
morti, nei loro
piedi morti, era
rimasto il desiderio di ritornare a terra.

 

Prima di intravederlo dal fondo della lontananza, dalla smisuratezza dello spazio del mare, un faro bisogna sognarlo, ricordarlo; bisogna saperlo immaginare.
Bisogna confonderlo dentro il pensiero con i comignoli delle case del proprio paese, con le luci dei lampioni che proteggono i vichi, quelle luci fioche gialle tremolanti, che però riescono a perforare lo scuro, a dissipare la solitudine del passante, ad orientare i passi notturni verso casa oppure verso la stazione fuori dalle mura.
Per un ritorno o una partenza brilla la stessa luce. Come per un’accoglienza o un arrivederci o un addio. È una luce che brilla per la memoria, per la speranza, per l’attesa. Che si fa vicina o che si allontana.
Un faro non è solo il segnalamento per un approdo; non è solo la visione che rassicura il movimento costante di un avvicinamento alla riva. Il faro è anche il punto che resta visibile se si volge lo sguardo all’indietro. Quando ogni altro profilo di paesaggio è scomparso, si è sottratto alla possibilità della visione, quando un manto di nebbia ha coperto tutto quello che si è lasciato e allora non si riesce più a collocarlo nello spazio, il faro indica il punto, riporta alla stabilità della terraferma, si fa simbolo di un luogo che appartiene, al quale si desidera e si spera di tornare.

Per l’uomo di Finibusterrae un faro è questo: la memoria della terra che argina l’oblio del mare; la certezza che quel punto da cui è partito rimane ad aspettarlo come un affetto familiare; il conforto di una luce lontana nello spazio e vicina nel tempo interiore. La speranza che una tempesta non è mai infinita. La paura che la bonaccia prima o poi debba terminare.
Per l’uomo di Finibusterrae, la portata geografica di un faro – quella distanza che la luce delle lanterne di Otranto, di Leuca, di Gallipoli riesce a coprire – è anche una sorta di prolungamento dello scoglio, dell’isola: come se il confine si estendesse, come se nella sfera protetta dalla luce l’acqua si mescolasse con le zolle.
Come spesso accade a Finibusterrae, l’inizio coincide con una leggenda, con una mistura di storia e d’invenzione, con la trasformazione in simbolo di una maceria.
Forse il primo faro fu la Torre del Serpe, a Otranto. Secoli avanti quello della Palascìa, costruito nell’esatta metà dell’Ottocento e spento nel millenovecentosettantanove.
Il faro che ora indirizza i naviganti verso il porto è quello di Punta Craul.
La Torre del Serpe, dunque, e la sua leggenda. Che Maria Corti narra con maestria nell’Ora di tutti. Dice che quello della torre era un luogo sinistro «dove la notte i morti tornavano dal mare alla riva; salivano sugli scogli e andavano con sottili lamenti fra le malerbe».
Dice che la storia incominciò ai tempi che in questa terra regnava Maria d’Enghien. Sulla torre viveva un serpe che in una notte di tempesta bevve l’olio della lampada che ardeva segnalando il porto. Un galeone di mercanti veneziani che attraversava il canale andò a schiantarsi contro gli scogli e i mercanti sparirono nel mare, senza aver pace, perché nei loro occhi morti, nei loro piedi morti, era rimasto il desiderio di ritornare a terra. «Così, di tanto in tanto, la notte essi passeggiavano sulla costa, ricordandosi delle cose piacevoli della vita».
La voce che nel romanzo racconta la leggenda è quella di Colangelo, che poi aggiunge di non aver mai visto serpi e scorsoni che bevevano olio e che probabilmente ad ingoiare l’olio della lampada era stato il diavolo in persona.
Ma certo non furono diavoli e non furono scorsoni. Sicuramente fu quella virtù (o quel vizio) della fantasia che a Finibusterrae si manifesta come narrazione, diventa epifania di figure che trascendono il tempo e lo spazio, crea storie dal nulla e le consegna alla voce che le rimodula fino a quando una mano non le sacrifica (o le eterna) nelle forme sinuose di una scrittura.
Il faro è una luce che, come ogni luce, ha una funzione di contrasto del buio.
Il suo segnale è il punto di riferimento nella condizione dell’indeterminato, il tracciamento di un confine nella condizione dello sconfinato; è l’individuazione di un limite, il reale che si rappresenta, la certezza concreta dell’esistenza di una terra per l’approdo, la soglia che segna il compimento di un viaggio.
La luce di un faro è l’elemento che rivela: una direzione, un orizzonte, un confine. Rivela anche un’esistenza notturna del mare attraverso un’immagine intermittente, discontinua e quindi falsa rispetto a quella naturale che è diffusa, continua, regolare nel suo movimento incessante.
C’è un libro inevitabile quando si pensa ad un faro, o lo si guarda, o se ne parla.
Lì, in quel libro, il Faro – scritto sempre con la maiuscola, come personaggio tra i personaggi – è una torre argentea dall’aspetto indistinto, con un occhio giallo che all’improvviso e lievemente si apre nella sera.
Poi è anche una torre rigida e dritta, striata di bianco e di nero, con le finestre e il bucato steso ad asciugare sugli scogli.
È il simbolo suggestivo che alternando luce e buio simula il ritmo di gioia e dolore dell’esistenza, rappresenta una realtà molteplice, o almeno doppia.

Quel Faro del libro, «che si erge solo tra la nebbia del mare è il simbolo dell’individuo che è nello stesso tempo un essere unico e una parte del flusso della storia. Raggiungere il faro è in un certo senso prendere contatto con la verità al di fuori di se stesso, arrendersi all’unicità del proprio io, alla realtà oggettiva». Si dice, in quel libro, che c’è una coesione tra le cose, una stabilità immune dal cambiamento che splende come un lumino davanti a tutto quello che scorre, che è fugace, spettrale. Si dice che forse la realtà è fatta di quei momenti che durano per sempre. Il libro è To the Lighthouse, il capolavoro di Virginia Woolf.
Si può dire locus amoenus e si può dire deserto. Forse dipende dal movimento che fa il pensiero incontrando uno scoglio che di giorno è assalito dalla luce e di notte è inghiottito dal mare.
Sant’Andrea è un’isola minuscola che dal milleottocentosessantacinque trova il suo senso nella torre del faro che si alza maestosa, guardando, di fronte, Gallipoli, il borgo disteso lungo le mura.
Qui il faro indica la terraferma, ma non è il punto di sbarco. È un ponte tra il mare e la terra, il passaggio che prefigura il ricongiungimento.
È come un annuncio, un tracciato di splendore, un antidoto alla malinconia, una promessa di appagamento del desiderio, una luce che restituisce qualcuno ad un porto, ad un paese. La sua è una posizione mediana: esiste perché si possa raggiungere un luogo che viene dopo e al quale il faro non appartiene; è la simulazione di una conclusione, quasi una sorta di stazione di posta collocata nel mare.
Il faro, a Gallipoli, è come un simbolo sacro: illumina la strada del ritorno verso la polis, rendendola visibile e scongiurando lo sconosciuto e l’arcano del mare.
Al di là della luce del faro ci sono le luci della città, che non sono la stessa cosa ma hanno e danno forse lo stesso senso di serenità e di rifugio.
Al di là della luce del faro c’è tutto quello che c’era prima che il faro ci fosse, che si raggiungeva comunque seguendo le rotte del mare e degli affetti, che manda la sua luce forte anche quando quella dell’isola è spenta.
Allora, a Sant’Andrea la luce del faro è uguale ad una delle tante luci che la sera si accendono per le strade e l’isola è uguale a una delle tante strade che si attraversano per andare e tornare.
Qui il faro è una sentinella che si oppone all’invasione del nulla, all’agguato dell’assenza, all’oscurità del cielo.
Attraverso una finzione letteraria, per mezzo di quell’elegia che è l’opera di Virginia Woolf, il faro Godrevy a St. Ives, in Cornovaglia, diventa simbolo di nostalgia e di memoria, del desiderio di quello che manca e dell’infanzia.
Per un istante la luce del faro illumina le cose e poi le restituisce al buio: come in un alternarsi di colore e incolore, di pieno e di vuoto, di presenza e assenza; come in una scena di teatro che presenta qualcosa sul palcoscenico, personaggi e oggetti che poi torneranno dietro le quinte per non riapparire mai più, così il faro spinge il suo sguardo veloce sul cardo e la rondine, il topo e la paglia. La vita e la morte.
Forse non racconta altro che questo, la luce di un faro, a chiunque la guardi da mare o da riva: forse non dice altro che il raggio di luce tocca tutto e tutto abbandona, che quella luce può essere anche mimesi del ritmo delle stagioni, del comparire e dello scomparire, che forse è anche una ferita sul corpo della notte che vuole il buio perché il buio è la sua natura, che forse è anche una contraddizione della navigazione che vuole contemplare il disorientamento, il naufragio, l’azzardo dell’intuizione che non può fare affidamento sui riferimenti, la sfida dell’immaginazione che traccia una rotta come ha fatto ogni uomo per mare quando ancora il faro non c’era.
Il faro sottopone la natura alla condizione contraria del visibile e dell’invisibile, del buio e della luce, dell’apparire e dello svanire, dell’irraggiamento e della ritrazione del raggio, dell’illuminazione diretta, senza rifrazione, senza riflesso, del dono di un orizzonte e della negazione di esso: dono e negazione ugualmente repentini, scanditi, alternati, come spesso sono repentini, scanditi e alternati i doni e le negazioni della vita.
Nel punto in cui sembra che due mari diventino uno solo, dove lo Ionio e l’Adriatico confondono le loro correnti, nello spazio di uno strapiombo che si lascia indietro la terra e si spalanca sull’infinito del cielo e del mare, all’altezza convenzionale del 40° parallelo, lì dal milleottocentottantasei si alza il faro di Leuca, per 47 metri dal suolo e per 102 dal livello del mare.
Sul precipizio di Santa Maria di Leuca il faro rappresenta il senso di una (unica) verticalità che si esprime nell’orizzontalità (totale) del paesaggio, l’imponenza di una forma che contrasta con la docilità di tutte le altre forme, una torre che tenta l’altitudine mentre tutto il resto tende verso il basso e la profondità.
Qui il faro è una relazione con la lontananza, simbolo di conoscenza che si pone in modo complementare all’esperienza del mare, roccia che risplende come argine al naufragio, immobilità della pietra che si rispecchia nella mobilità dell’acqua tumultuosa o pacata, immutabilità che si confronta con il divenire.
Qui l’éthnos quasi si materializza: nella luce, nell’onda, nella sonorità che vibra nell’aria, nei colori incredibili, indefinibili, nel vento rigonfio di salsedine e odori, nel paesaggio che sembra irreale, dipinto: una sconfinata allegoria del mondo, del suo eterno respiro, del suo mutamento continuo.
Qui anche il conto del tempo pretende un diverso sistema: qui si può contare il tempo soltanto interrogando le stagioni che attraverso gli elementi e le condizioni della terra, del cielo e del mare possono segnare l’ora che va e quella che viene e possono dire che cosa portano via e cosa lasciano in dono.

 

   
   
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