Giugno 2007

Ugento, non solo una collezione

Indietro
Là dove batte
il cuore messapo
Nello Wrona
 
 

Questa Collezione va oltre, ponendosi sulla strada
delle identità
da rispettare,
delle memorie
necessarie e
irrinunciabili,
di una nuova etica insomma del
territorio.

 

Il giorno in cui morì, tradito dal cuore e dal dolore tra gli alberi di ulivo, Adolfo Colosso non ebbe forse il tempo di guardare indietro a tutto il corso della sua vita. Breve, ma straordinaria, se a sessantuno anni, prima di «rendere la sua bella anima a Dio» – come scrissero i giornali dell’epoca – era già un personaggio di spicco, e un’eccezione, sotto il cielo meridionale.
Era nato e cresciuto su terre baronali, dove aveva imparato da piccolo a misurare con lo sguardo i campi e la fatica dei contadini e dei braccianti, quell’ultima infima classe che nei decenni precedenti e nelle statistiche murattiane era la variabile derelitta di un sistema feudale che Giuseppe Maria Galanti aveva senza mezzi termini definito «orribile e singolare». La prima scuola fu la campagna, con la semina, il ciclo ordinato delle stagioni, il fischio oscuro del nachiro, il fiato dei cavalli, dei tori e dei vitelli nelle scuderie e nelle stalle. Gli studi universitari alla Reale Scuola Superiore di Agricoltura di Portici gli avrebbero fornito poi un formidabile apparato di cognizioni e di nozioni, e quella cultura di tipo scientifico che aveva trovato nel riformismo napoletano e nell’alessanese Oronzo Gabriele Costa la sua più alta e convinta espressione. Erano gli anni del “Catechismo agrario”, delle denunce del latifondo e degli incolmabili ritardi tecnologici in agricoltura («mentre l’Inghilterra abbonda di ordegni per l’agricoltura, ne ha meno la Francia, noi ne abbiamo pochi»), degli «antichi metodi e cattivi strumenti» applicati per inerzia al sistema “assenteista” e parassitario della proprietà privata.

Adolfo Colosso ritornò a casa e all’azienda familiare con una laurea in agraria e con tutto l’entusiasmo che gli potevano dare le “scienze esatte”. E con idee originali, al limite della provocazione, che agli occhi dei fittuari e dei mezzadri, e del severo padre, dovettero sembrare fantasie ingenue se non proprio stramberie da neo-dottore. Collaudò un “aratro razionale” (e per primo lo soggiogò a una coppia di buoi, sotto lo sguardo implacabile e ottuso dei fattori); impose quindi l’uso di erpici, falciatrici, trebbiatrici, pressafieno e mietitrici, e quant’altro di meccanico servisse ad alleviare il lavoro massacrante nei campi; introdusse su vasta scala l’impiego dei fertilizzanti (sulle piantine un cartello che doveva suonare come una sfida in terre fecondate dallo stallatico: “W il concime chimico”) e dell’alga marina per ammendare i terreni inariditi dalle argille; utilizzò con successo la sansa di ulive e l’alga stessa come alimento e come lettiera per il bestiame.
Idee innovative, ma eversive nel grande latifondo, destinate ad urtare contro il muro dei pregiudizi, degli usi e delle terre date temporaneamente in affitto, e a morire tra un raccolto e l’altro. Condurre in prima persona la proprietà, libero di agire e decidere, fu la provocazione estrema, intollerabile per gli altri e per lui vincente. Seguirono anni di studio, di ricerca e di intenso lavoro: modificò la rotazione agraria, con maggiore uso di piante foraggere, si dedicò all’enologia di alta qualità, isolando i migliori vitigni e ottenendo vini pluripremiati, selezionò e incrociò animali, introdusse nell’allevamento equino i trottatori russi e americani, fornendo per anni i migliori purosangue all’Esercito, bonificò a sue spese le paludi che cingevano con ondulate dune dal mare la sua Ugento (le “Mammalìe”, che a dispetto del nome erano malsane e, come ricorda il De Giorgi, «terribilmente miasmatiche»); costruì uno dei primi grandi opifici salentini per la raccolta e la trasformazione dei prodotti agricoli, che presentò con una sorprendente “brochure” pubblicitaria all’Esposizione di Parigi. Era il 1900, e una sua geniale invenzione per raffreddare i tini e mantenere a temperatura costante la fermentazione del mosto fece il giro delle capitali europee. Lo stesso i suoi prodotti agricoli, dall’olio al vino, che riceveranno primi premi ed encomi in tutte le principali piazze d’Italia, fino a Bruxelles, a Saint Louis, negli Stati Uniti, e a Buenos Aires. Famosa tra gli studiosi (e più volte menzionata dal De Giorgi nei suoi “Bozzetti”), infine, la sua collezione di tele, di quadri e di “anticaglie” in un museo «più che familiare, cittadino nella sua Ugento, nell’antichissima Uzentum», come scriverà Francesco Ribezzo in una lettera del 1916, svelando nell’imprenditore agrario anche l’archeologo conservatore: «Egli non aspettava che l’oggetto d’arte o il monumento epigrafico gli venisse in casa, gli andava incontro».

Modello di efficienza e di funzionalità, le sue aziende sono organizzate secondo i moderni princìpi della meccanizzazione e della distribuzione del lavoro (sconosciuto ancora Taylor, almeno a sud del Tronto), dispongono di energia elettrica l’enopolio, l’oleificio e il mulino (da pochi anni il vescovo Giuseppe Candido, leccese, aveva applicato l’elettricità ad un orologio pubblico sincrono, primo in Italia e nel Salento), hanno il cinematografo «a beneficio dei suoi operai e concittadini che di altro diletto non disponevano».
Speculari, e di prestigio, gli incarichi pubblici: per quasi trent’anni rappresentante del Mandamento di Ugento e vice presidente poi del consiglio provinciale, membro autorevole e di larghe vedute di una miriade di comitati e commissioni provinciali, per sei anni rappresentante della Provincia nel consiglio di amministrazione del Consorzio per l’Acquedotto Pugliese e protagonista delle prime dispute sull’acqua da destinare all’estrema sete meridionale. Infine, e quasi inevitabilmente, a furor di popolo eletto alla più alta carica del consesso comunale. E come sindaco di un «laberinto di chiassuoli stretti, sudici, tortuosi, che rivelano subito il sito dell’antica Terra», darà l’impronta definitiva alla sua città, sottraendola al degrado, ammodernandola e dotandola di nuove piazze, di strade più ampie e sicure, di svincoli e incroci, di un mercato coperto per le attività del libero scambio, di una torre dell’orologio, completa di un ufficio per le guardie municipali, i cui lavori, per sopravvenuta penuria delle casse erariali, il sindaco finanzierà personalmente, di tasca propria.
«Adolfo Colosso è nemico delle ciance», scriveranno efficacemente sulla Gazzetta delle Puglie, a riassunto di un decisionismo concreto e di un’attività frenetica a favore della gente e della “res publica” che appartengono, disperatamente e malinconicamente, ad un altro tempo, il tempo che gli si fermò in gola quel pomeriggio di novembre del 1915, con l’Italia interventista nella Grande Guerra.
La provincia è un’isola, ha scritto Gesualdo Bufalino, dove «irriducibili sono le complicità di sangue». Ecco, è questa la provincia di Adolfo, il nonno, e di un altro Adolfo, il nipote, anche lui uomo misurato e gentile, che ha portato ora a termine, un secolo dopo e con una definitiva catalogazione, la Collezione Archeologica Colosso, presentata a fine giugno al pubblico nella città di Ugento. E il lungo preambolo a quest’altra storia racchiude tutta l’importanza della Collezione: che non è solo la quarta raccolta privata d’Europa, con poco meno di ottocento reperti rinvenuti in loco che si inquadrano complessivamente tra il VI secolo a.C. e l’età altomedievale; non è solo ricca di testimonianze del repertorio ceramico ugentino (trozzelle, lekanai, piatti in vernice bruno-rossiccia), ma anche di ceramica attica d’importazione (lekythoi), mentre tra i reperti della fase ellenistica spiccano alcuni riconducibili alla ceramica di Gnathia (un grande skyphos, una pelike e due oinochoai) e altri della classe ceramica a vernice nera (skyphoi, tazze monoansate e biansate, brocche e coppette), nonché lucerne e realizzazioni coroplastiche (terrecotte femminili, tintinnabula) e reperti scultorei che confermano Ugento – già ricca dello Zeus stilita – splendida tra le città della Messapia; non è solo una metafora del collezionismo illuminato dell’Ottocento, contrapposto al saccheggio dei tombaroli e dei mercanti d’arte, e teso a preservare le testimonianze del passato dalla vanga e dall’aratro; non è solo un valido esempio di un protocollo d’intesa tra pubblico e privato, tra archeologia e istituzioni, che funziona e porta alla luce e rende “visibile” (e fruibile) un bene di inestimabile valore.

Questa collezione va oltre, ponendosi sulla strada delle identità da rispettare, delle memorie necessarie e irrinunciabili, di una nuova etica, insomma, del territorio e della sua salvaguardia. Non a caso, questa lezione magistrale viene da un uomo che, prima di tutto, era mosso da una profondissima curiosità e dall’ansia del nuovo, che sono tipici degli spiriti inquieti e “anticipatori”. Scriveva ancora il Ribezzo, in quella lettera aperta che vale come testamento di un’intera generazione: «Innanzi al mondo ha civiltà da esportare solo chi comincia dal conservar bene la propria, la sua storia, i suoi monumenti». E il pensiero correva al vecchio «sacerdote del progresso agrario», all’uomo mite che aveva stupito la sua gente e la sua terra, che aveva scommesso sul futuro, raccogliendo i segni di un grandioso passato, splendido e irripetibile intermezzo tra le stagioni dell’impegno generoso e quelle, a noi più vicine, del disincanto.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2007