Giugno 2007

scavi clandestini e traffici di opere d’arte

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Le magnifiche prede
Tonino Caputo - Sergio Tutino - Carlo De Carlo
 
 

 

 

 

I traffici illeciti trafugano ogni
dodici mesi,
malgrado i
recuperi operati dalla polizia, un numero di reperti sufficiente
a metter su un
grande museo.

 

Ricordate la vicenda del Vaso di Eufronio, scomparso dall’Italia, e ricomparso molti anni dopo, all’improvviso, fra le raccolte d’arte del Metropolitan Museum di New York? Si aprì un serrato contenzioso, e finalmente i nostri responsabili cominciarono a chiedersi come mai pezzi archeologici di questa portata avessero potuto lasciare il nostro Paese e varcare l’Oceano Atlantico, passando impunemente attraverso le maglie, (in realtà assai larghe), delle nostre frontiere.
E ricordate le altre vicende, che riguardano la Venere di Morgantina, pomo della discordia, insieme con l’Atleta di Lisippo, nel braccio di ferro tra il Paul Getty Museum di Los Angeles e lo Stato italiano, che subito ne rivendicò il legittimo possesso e accusò gli americani di aver trasferito clandestinamente al di là dell’oceano anche queste due opere? Ebbene, per una volta ancora ci troviamo di fronte ad un caso del genere, e anche questo ha tutte le sfumature del giallo internazionale, che coinvolge, appunto, altri importantissimi reperti archeologici italiani, misteriosamente sbarcati in America.

Ma la vicenda più recente è questa. A meno di fulminei colpi di scena, sarà proprio lei, una splendida biga etrusca dorata, rinvenuta oltre un secolo fa sul Colle del Capitano, nel territorio di Monteleone di Spoleto, ad essere incoronata regina della festa di primavera con la quale il Metropolitan Museum newyorkese inaugurerà i nuovi padiglioni dedicati all’arte etrusca, greca e romana. Lungo gli ottomila e passa metri quadrati dell’esposizione (frutto di dieci anni di lavoro e di 155 milioni di dollari di investimenti), The golden chariot, come ormai familiarmente lo definiscono gli addetti ai lavori, sarà il pezzo più prezioso esposto tra le grandi teche della galleria dedicata a Leon Leky e a Shelby White, munifici trustee di quello che con tutta probabilità, con oltre sei milioni di visitatori l’anno, è il più frequentato dei grandi musei planetari.
C’è tuttavia qualcuno che, lontano dai frenetici preparativi in corso presso la sede del Metropolitan, sta provando a rovinare la festa: come racconta Mario La Ferla nel volume La biga rapita, il comune di Monteleone, insieme con la Regione Umbria, ha deciso di avviare una causa legale nei confronti del museo americano, per tornare in possesso dello straordinario reperto che, dopo il ritrovamento, avvenuto nel febbraio del 1902 ad opera del contadino Isidoro Vannozzi, si pone al centro di una serie di vicende che sono narrate con il ritmo intrigante di una spy story.
Al modo, si precisa, di altre storie analoghe, raccontate da Roberto Fagiolo in L’ombra del Caravaggio, che hanno riguardato in vari tempi il furto della “Gioconda” di Leonardo (Louvre, 1911), quello della “Natività” del Merisi (Palermo, 1969), o quello del “Ritratto di Signora” di Klimt (Piacenza, 1997). Per non parlare dell’ “Urlo”, di Munch, ultima clamorosa scomparsa di un capolavoro di valore inestimabile e di fama universale.
Ma torniamo alla nostra biga etrusca. Nell’ordine, entrano in scena contadini con la vocazione dei “tombaroli”, un mercante di ferraglie di Norcia (che per 950 lire dell’epoca acquistò la biga, rinvenuta in una tomba insieme con due scheletri, molto probabilmente resti di un re e della sua compagna, sepolti accanto al loro carro d’oro); e poi avventurieri, trafficanti d’arte, politici corrotti, poliziotti non casualmente indolenti fino alla cecità totale. Da Norcia, in quel 1902, la biga finisce a Roma, dove J. P. Morgan, uno dei grandi robber baron americani in azione in quel tempo, la vede e ne rimane sinceramente incantato. E da appassionato collezionista, oltre che da generoso sponsor del Metropolitan Museum, decide di farla approdare a New York.
L’impresa è tutt’altro che facile, dal momento che sulla questione vengono sollevate polemiche, oltre a una serie di interpellanze parlamentari rivolte al presidente del Consiglio di quei giorni, Giovanni Giolitti. Però Morgan sa muovere bene i suoi quattrini e le sue pedine: proprio in quel periodo, infatti, porta a termine una serie di generose acquisizioni che, favorendo famiglie romane proprietarie di terreni e di nobili dimore, vicine al governo, consentono di dotare l’Accademia Americana al Gianicolo di spazi adeguati.
In questo modo, senza dubbio forte di qualche autorevole complicità, la biga finisce (a quanto pare, nascosta in un treno merci carico di grano) a Parigi, in un caveau del Crédit Lyonnais, banca di proprietà del finanziere americano. E dalla capitale francese, dietro pagamento di 250 mila lire in favore di misteriosi intermediari, il reperto etrusco approda al numero 1000 di Fifth Avenue, sede del celebre Met. E quando in Italia le polemiche e le accuse nei confronti di Morgan crescono di tono, entra in scena il direttore del Metropolitan.
Si tratta di un gentiluomo piemontese, Luigi Palma di Cesnola, che dopo aver partecipato giovanissimo all’assedio di Peschiera e alla campagna cavouriana di Crimea, è finito negli Stati Uniti. Qui, combattendo da eroe nella guerra civile, si è guadagnato sul campo i gradi di generale, poi è diventato console a Cipro, e quindi, avendo smistato in Europa, ma soprattutto verso il museo statunitense, preziosi reperti archeologici raccolti nel corso della sua “missione diplomatica”, viene nominato direttore del Metropolitan.
Palma di Cesnola difende a spada tratta il Morgan e assicura di avere acquistato la biga nella capitale francese, di propria iniziativa e del tutto regolarmente. Ma di quella acquisizione, avvenuta oltre un secolo fa, non esiste alcun atto ufficiale. Così il contenzioso legale tra il piccolo Comune dell’Umbria e il potentissimo Metropolitan Museum è approdato sui grandi media americani, ripetendo una storia dai risvolti oscuri, che sia gli italiani sia gli americani – in virtù del vaso di Eufronio, ma non solo, come abbiamo visto – conoscono bene. Anzi, benissimo.
Facciamo un po’ di conti. L’Italia possiede oltre 95 mila chiese e poco più di 40 mila castelli, oltre a un numero incalcolabile di dimore signorili private ricche di opere d’arte, di archivi pubblici e familiari, di centri storici, di torri e di fortilizi e di altri ruderi monumentali isolati. In altre parole: siamo un vero e proprio museo a cielo aperto. Fra l’altro, moltissime nostre città minori sono di per sé stesse veri e propri musei di incredibile, unica bellezza.
Quanto ai musei veri e propri, ne abbiamo 3.500, molti dei quali purtroppo chiusi, altri aperti solo in parte, altri ancora gestiti secondo criteri di rigorosa conservazione, più che di offerta articolata al visitatore: ne fanno fede, fra l’altro, i sotterranei di numerosi musei (come quello, ricchissimo e prezioso, di Magna Grecia, a Taranto), ove è conservato addirittura un numero di reperti di gran lunga superiore rispetto alla quantità di quelli in esposizione.
Inoltre, sul territorio della Penisola esistono, sono stati localizzati, sono da riportare alla luce, si conoscono e/o si ipotizzano sepolti, migliaia di siti archeologici, con centinaia e centinaia di migliaia di beni artistici che spesso sono preda di tombaroli professionisti (ma persino dilettanti!) e senza scrupoli. Non è certo una notizia nuova il fatto che ogni anno vengono sottratti al patrimonio artistico e archeologico italiano centinaia di migliaia di oggetti: come dire, i traffici illeciti trafugano ogni dodici mesi, malgrado i recuperi operati dalle forze di polizia, un numero di reperti sufficiente a metter su un grande museo. Ricordarlo ogni tanto è bene, non fosse altro che come antidoto alla rassegnazione di cui sembra circondato questo dissanguamento senza fine. E non è una novità il fatto che non c’è ancora uno scudo che difenda validamente tutte le nostre opere d’arte. Un sistema di videosorveglianza per il “Mosè” di Michelangelo, artista fin troppo “amato” dagli squilibrati, che hanno anche danneggiato a suo tempo la “Pietà” e il “Davide”; un sistema antincendio per la Reggia di Caserta, che ha rischiato di essere distrutta dalle fiamme nel 1998; e poi una serie di impianti antifurto, sistemi antintrusione, allarmi, recinzioni e telecamere per la Certosa di Parma, le romane Terme di Caracalla, Palazzo Pitti a Firenze, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e la Galleria Borghese a Roma, la Cattedrale di Trani, Villa Adriana a Tivoli: è l’elenco iniziale delle opere d’arte, archeologiche e architettoniche, e dei musei di cui si sta curando la messa in sicurezza. Un elenco che forse si allungherà nei prossimi anni, visto che i Beni Culturali hanno intenzione di intervenire con 60 milioni di euro per la messa in sicurezza di altri 1.031 siti. È già qualcosa.
È del tutto nuova, invece, e si commenta da sé nella sua drammaticità, una stima di ottima fonte, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, che riguarda il patrimonio archeologico: solo il 10 per cento di questo patrimonio è “emerso” ed è custodito nei musei, mentre il 90 per cento si trova ancora sottoterra, pressoché indifeso, o difeso malamente, o difeso per passione, per vocazione professionale, ma a fatica; un patrimonio che ogni anno diminuisce di oltre 150 mila reperti, rapinati e dispersi da scavi illegali, con un danno economico di centinaia di milioni di euro.
Una situazione del genere, considerata dal punto di vista dei predatori archeologici, significa una prospettiva di lucro quasi inesauribile. Per di più, il danno non sta soltanto nel trafugamento di oggetti appartenenti per legge al patrimonio pubblico, ma nelle distruzioni causate dai tombaroli, che nell’affanno dei loro brutali scavi clandestini, generalmente notturni, distruggono molto più di quanto riescono ad arraffare: non sembra esagerato pensare che per ogni oggetto che si portano via ne rovinino altri quattro. E non basta: ogni loro “passaggio” sconvolge in maniera irrimediabile un contesto che, qualora fosse riportato alla luce nella sua completezza e con metodi scientifici, sarebbe ricchissimo di informazioni per gli studiosi.
Ebbene, anche in questo campo una speranza viene dalla tecnologia: la quale non può trasformare i tombaroli in “pentiti”, ma un argine, o almeno un poderoso deterrente, lo ha trovato e lo mette ora a disposizione di chi ha il dovere di applicarlo.
Si tratta di un piccolissimo sensore che, nascosto strategicamente nei luoghi a rischio, è in grado di lanciare a distanza un segnale di allarme. Il congegno, messo a punto da Marco Malavasi, direttore del “Progetto Mezzogiorno” del Consiglio Nazionale delle Ricerche, e da Sandro Massa, ricercatore dell’Istituto per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali, misura 2x1x1,5 centimetri, ed è tecnicamente un sensore di posizione a variazione angolare, dotato di un trasmettitore e di una batteria. Si attiva nel momento in cui il terreno nel quale è sepolto viene smosso anche lievemente: basta che il piccolo apparecchio subisca una variazione di assetto di 2 gradi (e fino a 45 gradi). Il movimento determina la chiusura dei poli della batteria, che normalmente è in stato di riposo, e quindi risparmia energia, e determina simultaneamente l’invio di un segnale d’allarme a un destinatario prescelto, ad esempio la locale caserma dei carabinieri. Si è quindi avvertiti in tempo reale che in quel determinato punto del territorio protetto è in atto uno scavo clandestino.
Seminando in un sito archeologico, in posizioni strategiche, trenta o quaranta di questi congegni, si viene a creare una sorta di campo minato, al quale è estremamente difficile che il tombarolo possa sfuggire.

Il gran numero di congegni sicuramente richiesti per una protezione estesa non comporterebbe spese rilevanti. Prodotto su larga scala, ciascuno di questi sensori non costerebbe più di una decina di euro: troppo per lo sterminato valore del patrimonio italiano da proteggere? Per quello che, se utilizzato come fonte di reddito, oltre che di conoscenza, può rendere? Per l’occupazione e per tutto l’indotto che comporterebbe, al modo di quanto succede nei Paesi nei quali i tesori d’arte educano e arricchiscono la comunità, i turisti, gli amanti dell’arte?
Il presupposto dell’efficacia della nuova tecnologia escogitata fra le mura del Cnr è a sua volta una conquista tecnologica. Fino a pochi anni fa, infatti, si sarebbero dovuti seminare i sensori a lume di naso, basandosi su criteri poco più che intuitivi, per il semplice motivo che non si sapeva esattamente dove fossero situate le tombe (ma anche le mura, i resti delle case e delle ville, i templi, le strade, e via dicendo) in aree archeologiche di numero e di estensione enorme: basti pensare che soltanto il sottosuolo di Roma e provincia è una fittissima, ininterrotta miniera di reperti; che quello delle aree etrusche va dalle rive del Tevere fino ai territori di Ravenna e di Ferrara, se non addirittura oltre, passando per tutta l’Italia centrale, e scende fino all’isola di Ischia e nel Salernitano, e ha avuto con ogni probabilità degli “empori” in territorio lucano e in territorio pugliese; e che l’elenco delle altre aree e siti e parchi archeologici, dalla Sicilia alla Campania, in Sardegna, dall’Abruzzo alla Puglia, oltre ad essere lunghissimo, rappresenta un continuum unico al mondo, sicché non è peregrina l’affermazione che tra sottosuolo e sopra il pelo della terra il nostro Paese (cioè, rapine a parte, compresa quella – suprema – di Napoleone, le cui opere, tornando nella patria d’origine, spoglierebbero tanta parte del Louvre) possiede ancora oltre il 70 per cento delle opere d’arte di tutto il mondo.
Ora, grazie alla fotografia aerea (che l’indimenticabile archeologo Dinu Adamesteanu per primo sperimentò proprio nelle terre di Puglia e di Basilicata), e grazie alla termografia e ad altre sofisticate tecniche di rilevamento dall’alto, siamo in grado di tracciarne la mappa precisa e particolareggiata. Infatti la vegetazione, vista da quota sufficientemente elevata, presenta una crescita e un aspetto diversi se sotto la superficie della terra ci sono murature, tombe o costruzioni sepolte col passare dei secoli. In virtù di questo sistema di rilevazione, fra l’altro, sono state scoperte le acropoli di alcune poleis di Magna Grecia.
A questo scopo, si possono utilmente leggere non soltanto le immagini scattate ai nostri giorni in apposite campagne aeree, ma anche altre relativamente vecchie, ad esempio quelle dell’Archivio dell’Istituto Geografico Militare, che si è iniziato ad esplorare di recente in questa direzione. In tal modo si sta arrivando ad un ampliamento e a una definizione eccezionali della geografia archeologica italiana. Per esempio: nella provincia di Taranto si conoscevano fino a non molto tempo fa solo 48 siti archeologici; ora, grazie alle nuove tecniche, ne sono stati individuati e mappati con precisione più di 500.
Se i tombaroli, di terra e di mare, (anche questi ultimi, molto numerosi, e meno noti, sono ovviamente da mettere nel conto, dal momento che i fondali delle nostre coste nascondono veri e propri giacimenti archeologici), rapinano e distruggono in lungo e in largo, spesso anche le attività agricole indiscriminate andrebbero portate sul banco degli imputati. Un esempio. Quando si trattorava la terra, nel territorio di Cerveteri, (dove – oltre alle centinaia già riportate alla luce – ci sono ancora migliaia di tombe inesplorate), si “macinava” una quantità di vasi, di crateri, di lacrimari, di contenitori di unguenti e di profumi, di altro materiale archeologico, disprezzato in quanto quei (letteralmente!) “coccetti” saturavano – compromettendone addirittura il valore in caso di vendita – i terreni da coltivare.
Ma appena scoperto che c’erano degli stranieri pronti a pagare “quella roba” a peso d’oro, molti hanno creato attività fittizie, dietro le quali nascondere quella effettiva di scavatori clandestini, con un commercio che è stato, e in qualche modo continua ad essere, malgrado la vigilanza delle forze di polizia, piuttosto fiorente. E comunque non eccessivamente rischioso e sempre molto redditizio.
Altro esempio, che riguarda proprio la Puglia. Ad Arpi, ad appena quattro chilometri da Foggia, sui mille ettari della più grande città italica sepolta, (una nuova Pompei, ma ben più vasta della città campana sepolta dal Vesuvio, se mai una volta per tutte si volesse riportarla interamente alla luce), cumuli di pietre bianche di dimensioni crescenti nel tempo testimoniano i danni dell’aratura in profondità, che viene praticata nonostante tutto, là dove dovrebbe essere consentito di portare il terreno soltanto ad orti: sono le pietre delle antiche case, falciate dai vomeri! Di una “piccola Pompei”, invece, si parla a proposito della scoperta di Lorium, nell’area di Castel di Guido, nelle vicinanze di Roma, sulla via Aurelia: qui, i tombaroli – che avevano iniziato a scavare da tempo, grazie all’uso dei metal detectors che indicavano nel sottosuolo la presenza di metalli e, soprattutto, di monete – hanno contribuito alla localizzazione di più di 300 siti differenziati, dal Paleolitico fino all’epoca tardo-repubblicana e imperiale. Si era sempre saputo dalle fonti antiche, sia letterarie che cartografiche, che nella zona esisteva questo borgo, dove gli imperatori (soprattutto Antonino Pio) e gli uomini più ricchi e potenti di Roma avevano le loro residenze estive. Eutropio e Frontone, in particolare, descrivono accuratamente l’area, ubicazione compresa, al dodicesimo miglio dell’Aurelia Antica. Ma la certezza si è avuta negli ultimi cinque anni, quando, dopo un’accurata ricognizione del territorio frequentato dai tombaroli, si è scoperto che sotto ogni collina giacciono i resti di una villa o di una fattoria, o di un monumento pubblico, come l’anfiteatro, o di un tempio. Vi sono stati scoperti mosaici splendidi, che sono stati subito ricoperti. Si attendono i finanziamenti per riscavarli, restaurare i mosaici, unici per bellezza e complessità, che ci sono e aprire poi l’intero sito al pubblico. Sempre se i tombaroli saranno tenuti a bada: qui, infatti, costoro avevano già aperto una decina di buche e alcuni cunicoli; e la Guardia di Finanza aveva recuperato nelle case di due ladri di reperti una moneta d’argento della gens Claudia, del valore di 10 mila euro, altre 100 monete in bronzo, e numerosi “pezzi” archeologici.
È ovvio che nessun sofisticato marchingegno saprà sostituire un’attività di sorveglianza e di repressione insufficiente o inefficiente, dunque inefficace; ed è altrettanto ovvio che nessuna tecnologia al mondo metterà a riposo l’uomo. Ma per lo meno la sua parte la tecnologia la sta facendo. E l’uomo, che ne dovrebbe essere il primo responsabile, quando comincerà ad agire a tutto campo, e con rigore e serietà?
È appena il caso di ricordare che l’opera umana ha messo a rischio intere aree storiche e d’arte (nella Valle dei Templi, in Egitto, per esempio, con le strutture architettoniche antiche salvate da esperti italiani; mentre in Birmania, o in Etiopia, o anche in Cina la creazione di gigantesche dighe prevista da faraonici progetti metterà a repentaglio altri siti, unici nel loro genere, e non si vedono in giro proposte di salvaguardia). Ed è appena il caso di mettere in evidenza che gli stessi cambiamenti climatici insidiano non pochi capolavori del passato. Fenomeni quali l’aumento del livello dei mari, l’erosione dei litorali, le alluvioni, ma anche processi opposti come la desertificazione, rappresentano una minaccia per molti siti.
Anche in questo caso, qualche esempio emblematico: numerosi monumenti egizi devono far fronte all’erosione delle coste e all’innalzamento delle acque nella regione del delta del Nilo; nel Nord-Est della Thailandia le inondazioni hanno danneggiato le rovine, vecchie di seicento anni, di Ayutthaya (dal 1350 al 1767 capitale del Paese); in Mauritania la Moschea di Chinguetti, ricchissima di testi sacri, è minacciata dalla crescente desertificazione; in Perù lo scioglimento dei ghiacciai mette a repentaglio i templi preincaici di Chavín de Huantar; nel Vicino Oriente le continue guerre mettono a rischio la sopravvivenza di monumenti e l’inviolabilità di musei e raccolte di reperti; analogo discorso per l’Afghanistan e per l’intera area Sudan-Corno d’Africa, dove alle guerre guerreggiate e alle cronache di ordinarie guerriglie si sommano le distruzioni dovute alle guerre di religione; e dalle parti di casa nostra, per gli eventi naturali, non va dimenticata l’antica abbazia di San Vincenzo al Volturno, in Molise, che non era solo un importante luogo di culto dell’anno Mille, ma anche la più grande cittadella monastica d’Europa, oltre che un centro di potere politico: proprio qui gli archeologi hanno scoperto dieci tombe affrescate con motivi floreali, un patrimonio inestimabile che risale al VII-VIII secolo d.C., con le tombe e i resti mortali di alcuni dei più noti abati dell’epoca di Carlo Magno: dalla terra sono emersi anche monete, statue di bronzo tardo-imperiali, forni, officine e oggetti in ferro, in osso di bue, in vetro, con scavi che hanno consentito una ricostruzione della cittadella, la cui vita ruotava attorno all’abbazia di San Vincenzo Maggiore, ma anche a un complesso più piccolo, la basilica di San Vincenzo Minore, dove c’è la cripta meglio conservata, voluta dall’abate Epifanio, nella quale sono rappresentate scene dell’Apocalisse (quella degli Arcangeli che fermano i venti) e dei supplizi di San Lorenzo e di Santo Stefano, i due Santi dello scisma della cristianità. Al culmine del suo splendore, la cittadella poteva avere un’estensione di sei ettari, con la presenza di otto chiese e di decine di altre costruzioni, nelle quali vivevano centinaia di monaci-lavoratori. La storia millenaria di questa capitale religiosa cominciò il suo declino dopo il terremoto dell’847 d.C., che causò gravissimi danni al complesso monastico. Poi, nell’881, l’arrivo dei saraceni, che misero a ferro e fuoco l’abbazia, segnò la sua fine.
Come accadde, in fondo, persino per un centro di studi greco-latino-arabi, quello salentino di San Nicola di Càsole, dapprima assalito (dalle masnade saracene), in seguito saccheggiato ad opera dell’uomo, (in primis, dal cardinal Bessarione), e alla fine abbandonato – diruto, ridotto a fienile – alla crudeltà disgregatrice del tempo. Ce n’è quanto basta e avanza per correre ai ripari. Là dove è ancora possibile. Subito, e senza più alibi.

 

   
   
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