Giugno 2007

geo-poesia

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L’Italia in versi
Ada Provenzano - Giorgio Franciosa - Elisa Minerva
 
 

 

 

 

C’è persino chi si
è preso la briga
di contarli, i 2.347 cipressi dello
stradone che da San Guido
conduce al borgo medioevale di
Bolgheri: quattro chilometri di
Maremma pura.

 

Comincia con la Toscana ad ovest e con le Marche ad est, e per convenzione si chiama Italia centrale. Ma dove finisce? Tradizionalmente, include anche l’Umbria e il Lazio, il più delle volte l’area a nord della capitale, con Roma che fa parte a sé: il Tevere e Tronto, insomma, dovrebbero coincidere con i confini meridionali di questa grande area territoriale; che tuttavia sono spostati ormai sempre più frequentemente verso sud, includendo sensatamente la Ciociaria, da un lato, e, più elettivamente, l’Abruzzo dall’altro: territorio, quest’ultimo, che a lungo fu gemello di quello molisano, e dunque “porta del Sud” a tutti gli effetti, e come tale in punto di geografia e di diritto incluso tra le regioni che ebbero, elusa dai Palazzi di Torino, di Firenze e infine di Roma capitali, una “questione” che dopo fervidi decenni di letteratura storica, civile, politica, sociale, è rimasta soffocata nel limbo delle speranze senza nome. Sarà ancora Sud, qui, la terra più aspra e schiva della Penisola continentale, e nella poesia che canta il Sud sarà inclusa, senza dubbi o pentimenti.
Varchiamo dunque il confine. Per ricordare che dire Marche è dire Recanati. Cioè Leopardi e la sua immensa poesia. Ed è dire immagini sublimate di un mondo microscopico: del borgo natio che assurge a emblema della spicciola vita quotidiana (la donzelletta che fa ritorno dalla campagna, la casa di Silvia, la bottega del falegname che di notte s’affretta e s’adopra…) e del dolore universale. Col vertice segreto disvelato in un monte (il Tabor) che è appena un ermo colle, con la siepe che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo; ove per poco / il cor non si spaura…; e con lo smarrimento che incanta con i suoi colori smaglianti (Primavera d’intorno / brilla nell’aria, e per li campi esulta, / sì ch’a mirarla intenerisce il core…), o con l’atmosfera cristallizzata per sempre nella statica visione della notte, (Dolce e chiara è la notte e senza vento, / e queta sovra i tetti in mezzo agli orti / posa la luna, e di lontan rivela / serena ogni montagna…). Dirà nello “Zibaldone”, l’infelice Giacomo, che ciascuno di questi suoi paesaggi è un «respiro dell’anima»: la distesa, incantevole visione del paesaggio esterno, in contrappasso con i maceranti percorsi interiori, radice di pensieri amari e di sempre più frequenti abbandoni ad un pessimismo senza riscatto e senza speranza.

Straordinario il sentimento della solitudine che identifica molta poesia degli autori marchigiani. In “Pesaro” scrive Alfredo Giuliani: Laggiù sulle ville tramonta e grigie radure / s’accendono, il fiume rabbuia, soffia / un vento che non devasta né punge. / I lumi rossi vegliano ai cantoni del castello… E poi la malinconica musa di Giammario Sgattoni, in bilico sull’antico confine, “Le foci del Tronto”: Non raccontarmi più favole lunghe / di lucerne, demòni e ripostigli / dentro stanze annerite da millenni: / quando il giorno sarà precipitato / tra quei colli e le frange dei ciliegi, / rapido guaderò, senza bagnarmi, / le foci del Tronto – già gonfie di nevi).
Sull’altro versante, la Toscana, che dalla Scuola Siciliana e dalla Corte meridionale del sovrano Puer Apuliae, lo svevo Federico, si ebbe la scintilla della poesia in un nobile volgare, che trasformò in matrice di lingua e in identità peninsulare. E all’altro capo di questa vicenda evolutiva, il poeta nazionale, oggi messo in scacco dalla retorica sociologico-politica di una poesia che per tanta parte fra poco potrebbe risultare datata, Giosuè Carducci: Dolce paese, onde portai conforme / l’abito fiero e lo sdegnoso canto / e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme… Reale, e non interiore, il paesaggio descritto invece da Vincenzo Cardarelli in “Toscana”: Ecco la sera e spiove / sul toscano Appennino. / Con lo scender che fan le nubi a valle / prese a lembi qua e là / come ragne fra gli alberi intricate, / si colorano i monti di viola… E l’acqua e gli alberi, oltre ai profili rudi dei monti, a far da sfondo: con Roberto Roversi, (Volano fiumi in terra di Toscana. / Steso è il cavo di ferro. Un giocoliere / lieve umana armonica parvenza / brucia in uno splendido braciere, ombra sull’asfalto della città); con Ardengo Soffici, (La Toscana è luce e terra…); con Benedetto Varchi, in “Arno” (Ninfe, che nude il petto e sparsi i biondi / crin fino ai piè di latte e ‘nghirlandate / di mille bei color, scherzando andate / con Arno sempre ne’ più alti fondi); con Biagia Marniti, in “Vecchio Arno”, (Fiume che amo più del mare / e scuoti il dorso corrucciato / la lunga arteria del tuo cuore, / solo la sponda ti rimane…); o con Eugenio Montale, in “Arno a Rovezzano”, (I grandi fiumi sono l’immagine del tempo, / crudele e impersonale. Osservati da un ponte / dichiarano la loro nullità inesorabile. / Solo l’ansa esitante di qualche paludoso / giunchetto, qualche specchio / che riluca tra folte sterpaglie e borraccina / può svelare che l’acqua come noi pensa a se stessa / prima di farsi vortice e rapina…); e con Francesco Pastonchi, e il suo estatico “Lungarno” (Domenica… Le serve dai balconi / a guardar l’Arno… E quelle case ferme / su fondo oro, nel giorno che si perde…).
Firenze e le sue Signorie, intanto, con le contraddizioni che segnarono i contrapposti versanti umani, quali li vede con leggera ironia Corrado Pavolini, (…I grandi palazzi coi loro solchi diritti come campo arato / qui parlano degli antichi Signori / che tennero reggia e fattoria, / che furono artisti e mercanti e rompiscatole geniali. / Di popolino e artigianato, di minuti commerci, / le casucce parlano gonfie di piogge e di geli, / dall’intonaco che si screpola e in soffocate frane / sfarinandosi cade sul silenzio delle tegole / e sull’indifferenza dei gatti solitari / immobili nell’attesa, come i fiorentini, di trippa dai cieli), e con occhi più disincantati Franco Fortini, (…A Santa Croce, dove dai cortili / gridano donne senza seni lunghi guai, / e nei testi di basilico / non c’è che fil di ferro e i fili / di ferro dei campanelli lontani sottili / che dagli anditi assassini e i corridoi / non smettono mai…).

Riecheggiano le tremule correnti del Sorga, in Valchiusa, che avvolgevano Madonna Laura e ispiravano – perdutamente innamorato – Francesco Petrarca: Chiare, fresche, e dolci acque, / ove le belle membra / pose colei che sola a me par donna, / (con sospir mi rimembra) / a lei di fare al bel fianco colonna, / erba e fior, che la gonna / leggiadra ricoperse / co l’angelico seno; / aere sacro, sereno, / ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse; / date udienza insieme / a le dolenti mie parole estreme… E poi quelle di un altro corso d’acqua, caro a Giovanni Pascoli: Su la riva del Serchio, a Selvapiana, / di qua dal Ponte a cui si ferma a bere / il barrocciaio della Garfagnana, // da Castelvecchio menano, le sere / del dì di festa, il lor piccolo armento / molte ragazze dalle treccie nere. // Siedono là sul margine, col mento / sopra una mano, riguardando i pioppi / bianchi del fiume…
Gli alberi, poi. E dunque torna il Carducci. C’è persino chi si è preso la briga di contarli, i 2.347 cipressi dello stradone (allora in terra battuta) che da San Guido conduce al borgo medioevale di Bolgheri: quattro chilometri di Maremma pura, fluttuante nel sole, in cui risuonarono per quasi un decennio gli strilli e le sassate del poeta ancora bambino: I cipressi che a Bolgheri alti e schietti / van da San Guido in duplice filar… // A le querce ed a noi qui puoi contare / l’umana tua tristezza e il vostro duol. / Vedi come pacato e azzurro è il mare, / come ridente a lui discende il sol! // E come questo occaso è pien di voli, / com’è allegro de’ passeri il garrire! / A notte canteranno i rusignoli: / rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire…
Dalla breve attesa carducciana ai bordi dell’Aurelia, alla “Sera di Versilia”, cantata da Alfonso Gatto: Come il mare deserto stacca il molo / nel cielo puro del tramonto, solo / resta sul tetto di lamiera un fioco / riverbero del giorno. A poco a poco / appassisce nell’aria anche il clamore / monotono d’un grido e nell’odore / largo del vento e della sera stagna / la pineta già d’ombra, la campagna / deserta neri suoi pascoli, nel raro / lume d’acque. Ora il silenzio è chiaro…; e alla languida sera che D’Annunzio vive in quel di Fiesole: …Dolci le mie parole ne la sera / ti sien come la pioggia che bruiva / tepida e fuggitiva, / commiato lacrimoso de la primavera, / su i gelsi e su gli olmi e su le viti / e su i pini dai novelli rosei diti / che giocano con l’aura che si perde, / e su il grano che non è biondo ancora / e non è verde, / e su ‘l fieno che già patì la falce / e trascolora / e su gli olivi, su i fratelli olivi / che fan di santità pallidi i clivi / e sorridenti…; e infine all’elegia del monte viareggino, a Gàbberi, cima delle ultime Alpi Apuane, cantato da Elpidio Jenco: ...I tuoi silenzi di macigno / precipitoso, i tuoi dirupi ardenti, / i covi duri all’ospite, le forre / come nere varate pei pendii, / verso le gole dove il tuon d’agosto / d’eco in eco svanì nel temporale / con l’ululo d’un affamato lupo!...
E poteva Firenze non ispirare, nel bene e nel male, un gran numero d’altri poeti? A cominciare dallo sprezzante Pietro dei Faitinelli, detto Mugnone: Lassate far la guerra a’ perugini / e voi v’intramettete della lana / e di goder a raunar fiorini. // Voi solevate soggiogar Toscana, / or non valete in arme tre fiorini / se non a ben ferir per la quintana… (Ma, oltre all’ironia afosa, all’invettiva diede voce, fra gli altri, o più degli altri, Dante, da quella notissima nei confronti della serva Italia, a quella con cui colpì diritto al cuore alcune città, e Pisa fra queste: Ahi Pisa, vituperio de le genti / del bel paese là dove ‘l sì suona, / poi che i vicini a te punir son lenti, // muovasi la Capraia e la Gorgona, / e faccian siepe ad Arno in su la foce, / sì ch’elli anneghi in te ogni persona!).
Altra Firenze nei bei versi di Giuseppe Manni, (O dolce piano, ove col bell’Arno in riva / siede la mia Firenze e s’incorona, / ti salvi Iddio!); in quelli di Giovanni Marradi, (Un limpido sorriso il mattutino / aere in azzurra e umida di guazza / si rianima al dì col suo divino / popol di statue, la divina piazza. // Sui dolci poggi là del Casentino / sfumano accese al vento che le spazza / nuvole d’oro…); in quelli – stupendi per le immagini d’arcobaleno che svelano – di Dino Campana, (Entro dei ponti tuoi multicolori / l’Arno presago quietamente arena / e in riflessi tranquilli frange appena / archi severi tra sfiorir di fiori); in quelli – plastici – di Ardengo Soffici, (…La collina di San Miniato / sciacqua nell’Arno i suoi ori di Bisanzio, / i suoi cipressi, / e le ville; / il Ponte vecchio incrostato di gemme, / i campanili, / i tea rooms, / coll’acqua verde / partono fra due argini felici di sole. // Non si può vivere in questa pace / d’azzurri viali / dove non c’è che un tranvai…); o, infine, in quelli di un giovanissimo poeta, Pierluigi Mele, (Pittori ambulanti ritraggono l’idea / che affreschi e palazzi hanno di loro. / Geometrie nudità portali / busti ovali – la città / vive sopra un cavalletto / da cui mostrarsi e guardare).
Dicevamo di Pisa. Che Giovanni Giudici rammenta alacre e silenziosa, nelle ore delle guazze albali, (Stazione di Pisa, il buio brivido / che all’alba ti destava era il segnale / convulso del diretto. // I frenatori, / con gli occhi chiari madidi di nebbia, / accorrevano neri tra i binari: / rispondevano al grido del fuochista). E D’Annunzio vede nelle immagini romantiche espresse dal suo consueto codice linguistico, (O marina di Pisa, quando folgora / il solleone! / Le lodolette cantan su le pratora / di San Rossore / e le cicale cantano su i platani / d’Arno a tenzone… / L’Arno porta il silenzio alla sua foce / come l’Estate porta l’oro in bocca. / Stormi d’augelli varcano la foce…). Mentre l’ “allobrogo ribelle”, Vittorio Alfieri, torna al gioco della descrizione di un’atmosfera fastidiosa, e quasi ostile, – non per nulla è un trageda! – con una Piazza dei Miracoli incapace di fare il solo miracolo di emergere dal grigiore caliginoso della stagione invernale: Mezzo dormendo ancor domando: “Piove?” / “Tutta la intera notte egli è piovuto”. / Sia maledetta Pisa! Ognor ripiove; / anzi, a dir meglio, e’ non è mai spiovuto.

Mentre Lucca ha nel girovago Piero Bigongiari un suo pacato cantore: Ho vissuto / nelle città più dolci della terra / come una rondine passeggera. / Lucca era / un nido difficile tra le vigne / impolverate in fondo a bianche strade. Che per Livorno è Giorgio Caproni, il quale dapprima scrive: L’ora era di mattina / presto, ancora albina. / Ma come s’illuminava / la strada dove lei passava!..., e poi torna sul solo tema della città: …Livorno, come aggiorna, / col vento una torma / popola di ragazze / aperte come le sue piazze. // Ragazze grandi e vive / ma, attenta!, così sensitive / di reni (ragazze che hanno, / si dice, una dolcezza / tale nel petto, e tale / energia nella stretta) / che, se dovessi arrivare / col bianco vento che fanno, / so bene che andrebbe a finire / che ti lasceresti rapire…
E se Empoli dà voce al Carducci, che con profonda, dolcissima nostalgia esalta la Val d’Arno, (…Toscani colli, / colli toscani ove il mio canto nacque / sotto i limpidi soli e tra le molli / ombre de’ lauri a’ mormorii de l’acque…), è infine la marinara La Spezia ad ispirare un medico-narratore che con il suo memorabile romanzo “Le libere donne di Magliano” aveva rinvigorito il filone della narrativa d’inchiesta e di denuncia, Mario Tobino, poeta – come dire? – in libera uscita, con questi versi dedicati alla città: … A Vezzano la domenica si sentono chiari i rumori, / tra le bianche ghiaie scorre la Magra, / i soliti vecchi seduti / nella piazza folta di case / raschiano qualche parola / e battono sulle pietre il bastone, / e i treni fumano laggiù nella valle / snodandosi verso Viareggio / che al mare occhieggia colore di perla. / Niente è cambiato dacché sei morta, / soltanto nella chiesa / tra i neri scialli delle popolane / non brillano più / i tuoi capelli bianchi… Città e porto cantati poi da un poeta di gran levatura, ma da critici e antologisti messo in un canto per incomprensibile esclusione, Ettore Serra, (Da una stradina in ombra / vedo una lama / di verde mare. / Un vapore che salpa, / gente che va… // Macchia l’aria serena / di fumo un velo… / Golfi assopiti ascoltano / l’urlo della sirena; / insorge, e muove l’eco / lontane calme / fin che dilegua e muore…).
Fu spesso religiosa, invece, gran parte della poesia che ha ispirato l’Umbria, quella, per antonomasia “Santa”, di Francesco e dei suoi fraticelli, del lupo e di Gubbio, dei monasteri e degli eremi immersi nelle solitudini verdi e tra le vergini acque sorgive, stillanti dalle fessure delle rocce. Centro del mondo di francescani e clarisse, Assisi, che Siro Angeli così descrive: Contro l’aereo spalto / come onda che muore / alla sponda l’assalto / si infrangeva delle ore: / bianca Assisi durava / dentro il tuo batticuore, / e dal cerchio incantato / delle mura con tese / braccia giù per declivi / incontro a noi si avviava, / verso distese di prato / e silvestre frescura / nell’alto si avventurava…
La natura ha un ruolo fondamentale, con i suoi colori, con le voci, con gli echi che scendono per le valli dalle cime selvose dell’Appennino, regno incontrastato dei lupi e degli uccelli. Canta Libero Bigiaretti: …Ancora vi dipingono i miei occhi / belle luci di cieli serenati, / di massiccio turchino ondosi monti, / seminati distesi nel tranquillo / ordine del disegno. La tua voce, / pace della mia terra, lungamente / in me dura se ancora mi rammento / amoroso richiamo della tortora / tra i quercioli del poggio; nel lunare / silenzio, amico abbaiare del cane: / calmi muggiti dalle greppie, stridulo / gemere della secchia al fresco pozzo… E visione idilliaca della natura ci suggeriscono i versi di una poetessa “vedutista”, Gianna Sallustio Amato: Erbe sottili schiudono / morbidi spazi di verde / agli ulivi sereni, ai fiori, ai pini, / a noi: nude / vacillano nel nuovo giorno / al peso della rugiada, / brillano. / Riddano lievi i petali nell’aria…
Come non ricordare gli affreschi intensi che emergono dalla carducciana “Alle fonti del Clitumno”? Scrive il poeta versiliese: Ancor dal monte, che di foschi ondeggia / frassini al vento mormoranti e lunge / per l’aure odora fresco di silvestri / salvie e di timi, // scendon nel vespero umido, o Clitumno, / a te le greggi… // Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte / nume Clitumno! Sento in cuor l’antica / patria e aleggiarmi su l’accesa fronte / gl’itali iddii… // …Ride sepolta a l’imo una foresta / breve, e rameggia immobile: il diaspro / par che si mischi in flessuosi amori / con l’ametista. // E di zaffiro i fior paiono, ed hanno / de l’adamante rigido i riflessi, / e splendon freddi e chiamano a i silenzi / del verde fondo. // A piè de i monti e de le querce a l’ombra / co’ fiumi, o Italia, è de’ tuoi carmi il fonte…
Perugia capoluogo è fondale per la pudica biografia dell’eccelso Sandro Penna: Quando su la città, beata, antica, / il dolce e rumoroso crepuscolo cantava, / i lenti carrozzoni portavano lontano / le sudice divise dei giovani operai. // A tutti sconosciuto (e quanto poi a se stesso!) / fra le odorose e sudice divise amavan dare / – alla dolce deriva delle periferie – / un angelo. (E credete: non quello che oggi scrive); e per le oblique disillusioni che gli anni e gli affanni svelano, senza rimedio: Non è la città dove la sera / ebbro cantavo, fra le sparse luci / sopra la dolce umidità del fiume. / Adesso un biondo sole sulla nera / bottega di mio padre par che bruci / la nostra assenza. E non ritrovo il fiume… È memoria lacerata, ed è spleen. Lo stesso, forse, che ricrea le immagini, e nello spazio d’un mattino le consuma, nei versi che Paolo Volponi dedica alle “Mura di Urbino”: …Lasciare questo vento collinare / che piega il grano e l’oliva, / che porta sbuffi di mare / tra l’arenaria viva. // Lasciare questa luna tardiva / sul diamante degli edifici, / questa bianca saliva / su tutte le terrazze… // Lasciare il caldo respiro / del sole sulle mura, / la lunga tortura delle case, / lo stesso temporale / che ritorna da anni…
Mentre Biagia Marniti scorre con occhi innamorati i paesaggi di Monteluco (Fra gli antichi lecci, nell’umida quiete, / volteggiano gli arruffati pensieri. / Ma nuova e antica / qui è ancora la sera) e di Spoleto (In pieno crepuscolo si desta / uno zirlio continuo basso costante, / voce della campagna d’estate…).

Terni industriale, sfida al futuro, infine, in una delle poesie sperimentali di Roberto Roversi: Di notte Terni brucia, gli altiforni / scagliano lapilli nelle nubi di neve, / bianca neve scendere senza venti, / spilli infuocati ruotano nelle grotte / dei monti reatini; / la strada periferica, annientando la vita, odora. / Guardo ora la terra intorno a me, erta / e difficile, sciabolata da lame / di un raffinato sole, fra quiete valli / gli ulivi hanno germi teneri e castelli / tondi scudi di rame / volano sopra i rami nudi…
Sono pochi versi, quasi una lapide scritta con gli occhi umidi: Un anno, e in questi giorni ero a Roma. / Avevo Roma e la felicità. / Una godevo apertamente e l’altra / tacevo per scaramanzia: il triestino Umberto Saba, poeta grande ma oggi un po’ messo in disparte, alla fine della guerra giunse nella Capitale, proveniente dalla «spaventosa, arida Firenze», in cerca di amicizia e di affetto. In quell’alba di ritrovata libertà, Roma accolse questo «figlio del vento», come lo definì un suo giovanissimo critico, al modo di «un brillante che manda luce da tutte le parti». E tra il poeta e la Città Eterna fu subito un idillio destinato a durare il tempo d’un sogno.
E a fronte della Roma di Carducci, dominatrice del mondo secondo la profezia virgiliana (Tu regere imperio populos…) e dea-madre per i giorni presenti e i tempi a venire, (Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi / del Foro, io seguo con dolci lacrime / e adoro i tuoi sparsi vestigi, / patria, diva, santa genitrice…), sta una città in parte ancora intrisa di echi classici, come nei versi di Giuseppe Manni: Corrusco scende nel suo disco d’oro / dietro al frondoso Monte Mario il sole: / tutta un fulgore è Roma; oro e viole / d’intorno, in fino ai monti ed oltre loro. // Sta sul Colle degli Orti e sta sul Foro, / come sull’erma vaticana mole, / l’aurea pace: d’umil parole / dalle cupole ai cieli ascende un coro… Mentre trasognata e felice, riumanizzata, è l’Urbe di Giorgio Vigolo: …Tanto mite scendeva / a specchio dei selciati / la dolce ora di sera fra le brune / case, e anche le persone ferme / nel vano buio delle porte avevano / non so quale perlata ombra sui volti. / Via Monserrato, via del Pellegrino, / Campo de’ Fiori mi si aprì di gialli / meloni acceso e cocomeri rossi / nel grigio della sera senza lumi; / fin quando prese a cadere / una pioggia tiepida, lieve, / e le strade si fecero nere…
Con immagini di fulmineo “haiku” la città di Giovanni Francesco Romano: Lastricato deserto… / Sullo sciroccale umidore / anime derelitte di lampioni. Mentre offre visioni di puro idillio quella di Arturo Onofri: Marzo, fanciullo dal lungo sbadiglio / i tuoi capricci incantevoli / come risa dopo le lacrime / sono trastulli di nuvole e sole… Leggera e trasparente negli scorci affamiliati la città di Nelo Risi: Su queste scale / tarmate nei marmi / usate come suole / dove è appena spiovuto / e ancora deserte, stamane / al primo sole sto così bene / che respiro a fondo con la mente… In progress (non accettate) le mutazioni urbane che indispettiscono Elio Filippo Accrocca al cospetto del monte Testaccio: Mutato ponte e più mutate cose / dell’inesausto vivere / negli afoni mattini. Si fa monte / il ricordo degli anni quando ancora / intatta era l’immagine dei pini / densi di fumo e l’isola / di verde m’accoglieva / ogni giorno al passaggio contemplato / dei treni amici e delle amiche grida… L’Urbe come un’immensa e caotica città-contenitore nella poesia dell’immigrato salentino Aldo De Jaco: …Gli anni / della tua ospitalità / per me e, forse, per due o tre / milioni di travet // come me, accampati / – legione d’Agramante – / sotto il tuo portone / avviliti servi senza / padrone, larve / di persone // incasellate per stanze / in ogni casermone / di cemento – nelle bare che / han seppellito i cento / giardini del / tuo passato…

E le vie e le piazze della città, presente e memoria che luminosamente trascorrono nei versi di Paolo Volponi: Come le donne / in vicolo del Lupo / si chiamano con nomi di città / hanno piazze / e sguardi di fontane. / Portano bende / d’aceto sulla fronte, / questi antichi guerrieri / amputati sui banchi d’osteria. // A Mario dei Fiori, / capellute, / cingono collane d’oro; / il seno e la cintura / dolci come ginestre. / L’uomo è un fante di gioco / con la coppa sulla spalla, / il volto nascosto. // Un cavaliere bussa / alla Fontanella Borghese / ma la sua muta di cani / disperde le giovani / tutte di vene celesti. // Le meretrici di via Fontanella / giacciono come sponde / e sulla loro sabbia / s’accovaccia / l’anatra colorata. // Tristi canzoni / a Capo le Case / hanno le spose dei marinai / con le terrazze del Sud / e gli spari dei finanzieri. // A via del Pellegrino / materne / allattano i figli dietro le porte / e chiedono ai carrettieri / notizie dei paesi. // Quante gli storni / a Torre Argentina, / in via dei Giubbonari / e via de’ Coronari / ricche di denti, / portano l’uomo in barca ma con le mani / toccano la sponda fresca del fiume / e con gli occhi / seguono gli alberi / vestiti da soldati. // Agli Avignonesi / hanno viso di tabacco / e ventre di marengo; / cantano canzoni / mai udite per le strade / scendendo dalla scala / col tacco d’oro. Via dei Fori Imperiali, invece, così è ritratta dal pugliese (allora giovanissimo) Marco De Santis: Sempre qui la notte è fragorosa / le auto pattini guizzanti sulle strade / mi bagno al nebbioso lucore dei lampioni / coni di luce nel buio si congelano spruzzando cupole / colonne sono immote candele smoccolate / statue e cariatidi falene sbigottite dal freddo / il Vittoriano su di me s’incurva e stende le ali del Tempo / si gonfia ai colpi del mantice cardiaco…
Ma tanto di più deve Roma a Leonardo Sinisgalli e a Pier Paolo Pasolini, due immensi poeti immigrati dal Sud, il primo, e dal Nord l’altro, e in questa città rimasti per tutta la vita. Rudemente elegiaco (d’una spigolosità dolce, tuttavia, e sempre ricercata) il lucano: … Chi conosce le tue estati, Roma, / sa di aver toccato la luce / fino all’osso, ricorda i capestri, / i catafalchi, le camere di tortura, / l’odore di strame che colpisce / il pellegrino alle tue porte. / Tra questi quartieri io fui / ragazzo pieno di sonno e di appetito. / Fui un giovane letargico / che si nascose a leggere nei tuoi giardini / in compagnia delle statue. / Cercai le funebri siepi del Celio / per pascere il mio tedio / di mussulmano avido di odori. / Chi avrebbe potuto battezzarmi / alla tua fede, frustare i miei panni, / quale Vergine poteva carezzarmi i capelli, / quale Benedetto, quale Pio, / avrebbe accettato il dono dei galli / ch’io portai nel paniere? // Ho ignorato per anni le tue cattedrali… / Oggi cammino più lesto sui tuoi ponti / in compagnia di Raffaello. / So quando fioriscono al Pincio / le mimose, quando gelano i carrubi, / conosco la forma delle tue rose, / delle tue nubi. Ho visto i cavalli / scintillanti guardare il cielo / sui terrazzi, i santi sui parapetti, / le donne dai petti mostruosi, le rondini, / i ragazzi sulle rive dell’Aniene. / Conosco il bene di tanta bellezza. / Sono questi i mirti / che scrollano polvere se li tocco, / sono queste le pietre della giovinezza.
Poesia come tregua, ma simultaneamente come preludio a quella dell’impegno, anche in Pasolini: Dove vai per le strade di Roma, / sui filobus o i tram in cui la gente / ritorna?... / È il primo dopocena, quando il vento / sa di calde miserie familiari / perse nelle mille cucine, nelle / lunghe strade illuminate, / su cui più chiare spiano le stelle. Perché sono già in qualche modo corrivi i versi di “Correvo nel crepuscolo fangoso”: …Intorno ai grattacieli / popolari, già vecchi, i marci orti / e le fabbriche irte di gru ferme / stagnavano in un febbrile silenzio; / ma un po’ fuori dal centro rischiarato, / al fianco di quel silenzio, una strada / blu d’asfalto pareva tutta immersa / in una vita immemore ed intensa / quanto antica. Benché radi, brillavano / i fanali d’una stridula luce, / e le finestre ancora aperte erano / bianche di panni stesi, palpitanti / di voci interne. Alle soglie sedute / stavano le vecchie donne, e limpidi / nelle tute o nei calzoncini quasi / di festa, scherzavano i ragazzi, / ma abbracciati fra loro, con compagne / di loro più precoci. // Tutto era umano, / in quella strada, e gli uomini vi stavano / aggrappati, dai vani al marciapiede, / coi loro stracci, le loro luci…
E decisamente città in decadenza, nelle sue persino storiche periferie, è quella descritta in “Le ceneri di Gramsci”, forse uno dei momenti più alti della poesia pasoliniana: Non è di maggio questa impura aria / che il buio giardino straniero / fa ancora più buio, o l’abbaglia // con cieche schiarite… Questo cielo / di bava sopra gli attici giallini / che in semicerchi immensi fanno velo // alle curve del Tevere, ai turchini / monti del Lazio… // E, sbiadito, / solo ti giunge qualche colpo d’incudine / dalle officine di Testaccio, sopito // nel vespro: tra misere tettoie, nudi / mucchi di latta, ferrivecchi, dove / cantando vizioso un garzone già chiude // la sua giornata, mentre intorno spiove… // Già si accendono i lumi, costellando / …l’intero / Testaccio, disadorno tra il suo grande // lurido monte, i lungoteveri, il nero / fondale, oltre il fiume, che Monteverde / ammassa o sfuma invisibile sul cielo. // Diademi di lumi che si perdono, / smaglianti, e freddi di tristezza / quasi marina…
Il fiume di Roma, a questo punto. Che Domenico Gnoli ricorda (In riva al Tevere, scorre / l’ampio deserto de’ piani, / fissa gli orizzonti lontani / all’ombra d’una vecchia torre…), prima di darci un’immagine stupenda di Veio, l’etrusca, nobile, acerrima nemica di Roma, (Canta l’etrusca fontana, / la fontana a cui la donna / di Vejo, succinta la gonna, / nel fondo d’un’età lontana, // scendeva a empire la brocca…). E lì intorno, fra i boschi e le piane di sabbia, il piccolo fiume che gorgoglia e poi due volte precipita, in un perfetto scenografico anfiteatro dapprima, in uno sprofondo poi, come ricorda Biagia Marniti: Strana ellissi si rivela / la conca verde presso il Crèmere… / L’ortica e il muschio / scivolano sul prato / come gli amori di un incontro solo / e a cunicoli di morte Veio s’apre…
Più in là, in direzione del mare, dopo l’alta Ceri, la Vecchia Ceri: la grande Necropoli di Cerveteri. E anche qui le immagini sono di donne etrusche, ritratte dalla penna di Luigi Bartolini: Soavi donne di Caere / belle donne intorno alla Necropoli! / alla fiorita Necropoli etrusca, / alla fiorita di rose stupende / (aperte e bianche quali ali di colomba, / altre chiuse, a bocciuoli, rosse e nere / il cui profumo a pieno respirai!). / Oh Cerveteri etrusca, / venni, da Roma, molte volte a ritrovarti! / (I tuoi lauri immensi, le tue mimose chiomatissime, / le ghirlande di edera, / intorno alle nere occhiaie dei loculi vuoti). // Fiori fragranti / crescono agli orli delle tombe convesse; / a cupole vaste come i cieli…
E ancora etrusca è la regione che chiude come in un alto scrigno le acque del lago di Bolsena, vulcanico e iracondo come tutti gli specchi d’acqua interni del Lazio: qui sorge Viterbo, che ha poco a nord le rovine di Ferentium, in direzione del Tirreno la superba Necropoli di Tarquinia, e verso l’interno Bomarzo, con la villa orsiniana che recinge il Parco dei Mostri, il giardino rinascimentale più incredibile d’Italia, con le sue sculture monumentali fantastiche e bizzarre. Da questo capoluogo caro a molti pontefici passò Alfonso Gatto, che in “Una sera d’ottobre a Viterbo” scrisse: Una fontana povera nel largo / serale delle case e intorno il verde / degli alberi è più solo, uno spazzino / aiuta il vento delle foglie morte. / Oltre le mura vidi nella polvere / un piazzale deserto, il cielo rosa / con il fumo celeste della sera… Capitale dei Sabini, più a settentrione, Rieti ha in Sergio Solmi il poeta d’elezione, (… Da tanti anni sopito, oggi l’anima / l’odor tuo grave d’erbe / riarse, mi ferisce / a un nuovo incontro. / Mi riaffido al gioco di tue nuvole. / L’immagine mia errante / benevolo lo specchio / del tuo cielo riflette. / Sul chiaro paesaggio / mi ridistinguo in fila coi tuoi alberi… E qui già si profila la sky-line del Terminillo, di cui ha scritto Fausto Maria Martini: Vieni: la neve non è più sui monti: / appena, forse, imbianca Terminillo, / ma n’è libero il timo ed il serpillo, / ma gonfie d’acqua son tutte le fonti… Mentre per la Ciociaria che dà nome a una sorta di falsa Maremma, o ad una Maremma minore, torva nei monti e preludio all’osso appenninico del Sud, è Carlo Betocchi a cantare la volsca Frosinone, con i suoi versi di sobria e sicura liricità: …Se non avessi / l’anima, e non fossi quasi un uccello / che batte l’ali fuor di palude, tu, tempo, / m’inganneresti. E tu, antica abside // che questi di Frosinone han lasciata / piena di crepe, o come nella tua polvere, / colpa, m’avvolgeresti. Ma la mia anima / prega sugli orizzonti senza suono, // di là dai lidi sabbiosi…

(2 - continua)

 

   
   
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