Giugno 2007

Il corsivo

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I dimenticati
Aldo Bello  
 
 

E intanto
continuava
l’azione genocida, che vide cadere forse ventimila, forse trentamila uomini nell’area delle foibe.

 

È di pochissimo tempo fa l’istituzione di una Giornata, grazie alla quale si ricordano coloro i quali furono trucidati nelle foibe, ai giorni della pulizia etnica scatenata dagli jugoslavi contro i civili istriani, colpevoli soltanto di essere italiani. Ignoto il numero esatto dei morti. In 350 mila furono costretti ad abbandonare case e terre, luoghi della memoria e degli affetti. E, giunti in Italia, si ebbero solo disprezzo, abbandono, esilio. Fin solo a poco tempo fa: perché il tempo ha fatto giustizia dei comportamenti ignobili di chi, in nome dell’ideologia, fece scendere il silenzio sulla storia di un massacro etnico e sui progetti di tradimento perpetrati ai danni dell’Italia e in favore dell’espansionismo territoriale di Belgrado. Tornerò fra poco sul tema.

Perché dimenticati, nel furore iconoclasta di certe parti politiche italiane, non furono soltanto gli istriano-dalmati. E stravolta non è stata solo la storia recentissima e recente, ma anche quella di due secoli fa, la storia risorgimentale, svilita non perché – vista, ad esempio, da una prospettiva meridionale – l’Unità che ne era conseguita aveva dato origine ad una delle guerre civili che hanno insanguinato la Penisola, fatta passare per lotta al brigantaggio, ma per fini demolitori portati avanti da una cultura ingaggiata e servile.
Che cosa sta accadendo? È da tempo che i più illustri commentatori e gli accademici di grido si sforzano di avvisare gli italiani del complotto storiografico catto-papista che si sta sviluppando nel nostro Paese, con il proposito di delegittimare lo Stato italiano e nello stesso tempo di riabilitare il potere temporale dei Papi, mettendo sotto accusa il Risorgimento, stratificando menzogne e calunnie d’ogni tipo sui Padri della Patria, compreso Garibaldi, del quale ricorre il bicentenario della nascita, celebrato con una mostra di terz’ordine a Genova, e passato quasi del tutto sotto silenzio nel resto d’Italia, e sempre osservando una regola singolare, quella di non fare mai un nome: soprattutto, mai il nome di uno degli autori nei cui libri il complotto anti-italiano avrebbe preso forma, e mai il titolo di uno di questi libri.
Scrive Ernesto Galli della Loggia: è facile capire perché è necessario che su tutto questo cali il silenzio: perché per alimentare l’idea del complotto catto-papista, per sostenere che ci troviamo di fronte a una pura operazione politica, che i suoi autori sono mossi da puro odio ideologico e basta, e dunque per continuare a mantener viva e feroce l’astratta contrapposizione a ruoli fissi tra “laici” e “cattolici” è assolutamente indispensabile che non si entri mai nel merito, che mai e poi mai si discuta di un fatto preciso, di un provvedimento specificato, di una decisione chiaramente indicata. Occorre invece che il tam tam della guerra cartacea faccia credere che dietro i giudizi storici che non ci piacciono c’è solo il nulla, la cialtroneria, e naturalmente la più bieca strumentalizzazione. In questo modo, diventa impossibile anche l’ovvia distinzione tra nuovi documenti, scavi d’archivio – spesso significativi – e invece le conclusioni dei sunnominati lavori, spesso opinabili o non del tutto condivisibili. O da leggere con rigorosa aporia, per lo stesso sovraccarico di pregiudizio ideologico che una trentina di anni fa animava, per esempio, la storiografia meridionalistica “di classe”, anch’essa nemica giurata e indiscriminante del Risorgimento (basti ricordare i vari Zitara, Misefari, Carlo, Capecelatro…) e carissima al movimento studentesco che ne sollecitò (con successo) l’adesione in decine di corsi universitari. Chissà perché, però – chiosa Galli della Loggia – gli attuali superpatrioti dell’Accademia e del Giornalismo allora non vedevano complotti anti-italiani, non lanciavano pubbliche grida di allarme, soprattutto si guardavano dal firmare appelli “contro”. Fino al momento in cui Alessandro Galante Garrone intimò la conclusione della campagna denigratoria; un gruppo di storici, tra i quali Massimo L. Salvatori e Nicola Tranfaglia, invocò la riscossa dei laici per contrastare l’“offensiva clericale”; e Alberto Asor Rosa richiamò addirittura la lezione di Rosario Romeo, ma evitando accuratamente di menzionare il clima di ottuso ostracismo che la cultura marxiana aveva decretato ai danni di uno studioso liberale che, voce solitaria nel deserto, si interrogava sull’indebolimento del sentimento nazionale nell’Italia repubblicana.

Provvidenzialmente – è il caso di dire – oggi un giovane storico, Claudio Novelli, col suo lavoro Il Partito d’Azione e gli italiani ci consente di ricordare che negli anni Trenta e nei primi anni Quaranta fu proprio nel cuore della cultura giellista e azionista, i cui epigoni oggi sono in prima linea nella difesa del mito di fondazione dell’Italia unitaria, che riecheggiarono gli strali più feroci e acuminati contro il Risorgimento. In netta contrapposizione con il tarato carattere degli italiani, non temprato da un qualche evento paragonabile alla Riforma protestante, e in opposizione alla retorica fascista che amava rappresentarsi come compimento del moto risorgimentale (motivo ripreso dall’altra retorica, quella resistenziale), nella cultura di area azionista, infatti, affiorarono i sintomi di una revisione più o meno radicale della storia nazionale che intendeva risalire criticamente alle vicende risorgimentali, nel solco tracciato dall’analisi gramsciana dei Quaderni del carcere, che in realtà l’autore (che ammirava Ford) aveva intitolato Americanismo e Fordismo, e dell’interpretazione gobettiana del Risorgimento senza eroi.
Da qui, il tono esasperato, veemente, contro un’esperienza realizzatasi sotto la guida della monarchia piemontese, che poi si trasformò in una vera e propria conquista regia. E da qui il giudizio di Andrea Caffi, che su Giustizia e libertà, nel 1935, liquidò il Risorgimento come un residuo di vanità nazionale da mandare in soffitta. Per non dimenticare: alla impostazione revisionista, maggioritaria all’interno dell’azionismo, e che spesso assunse toni asperrimi, non aderì Adolfo Omodeo.
Messo in un cono d’ombra solo Garibaldi? Consegnata a un caliginoso smemoramento – o stravolta – soltanto la guerra civile post-unitaria? Esiliate esclusivamente le foibe? No. Quando il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti, il 24 maggio 1915, i soldati del Regio Esercito sapevano bene quel che li aspettava. Ovunque, in Europa, la Grande Guerra era scoppiata da dieci mesi, e la portata dei massacri era sotto gli occhi di tutti. Sui fronti occidentale e orientale si moriva giorno e notte, ininterrottamente, in un’orrenda poltiglia di terra e di carne, di fango e di sangue. Il Vecchio Continente si stava suicidando tra il frastuono degli obici, le esortazioni gridate dagli ufficiali, i lamenti dei feriti e dei mutilati, gli slogan che i retori lanciavano dalle retrovie. Nondimeno, quel 24 maggio i soldati italiani mossero disciplinati verso le zone di guerra del Carso e delle Dolomiti. Avrebbero trovato la morte in centinaia di migliaia.
È stata raccontata molte volte la storia dei nostri soldati-contadini, artigiani, pescatori, “paesani” liguri abruzzesi lombardi lucani sardi pugliesi, veneti, siciliani umbri, che diventarono “italiani” nelle trincee, combattendo per città come Trento e Trieste che non sapevano nemmeno collocare sulla carta geografica. E giustamente si è insistito sulla tragedia di una mobilitazione meccanica, sulla follia che portò politici, intellettuali e industriali a trascinare al massacro una generazione di giovani analfabeti in nome della guerra «sola igiene del mondo».
Meno spesso, o quasi mai, si è raccontata l’altra storia, quella piccola ma istruttiva, dei giovani trentini e giuliani che nessuno obbligò a combattere per l’Italia, ma che scelsero di farlo perché sentivano che era una cosa giusta: la storia dei volontari “irredenti”, che anziché arruolarsi tra le file dell’esercito austro-ungarico, (come dovettero fare decine di migliaia di coscritti del Trentino e della Venezia Giulia, che combatterono sotto le insegne dell’imperatore Francesco Giuseppe), disertarono e attraversarono il fiume in senso inverso ai fanti del 24 maggio, per indossare l’uniforme dei Savoia. Furono un migliaio, o poco più, quelli che consapevolmente compirono questa scelta.
A dire il vero, alcune vicende sono state raccontate, (quella di Cesare Battisti e dei Martiri di Belfiore, quella di Nazario Sauro…). Ma solo durante il Ventennio, e qualche anno dopo soltanto. Dopodiché, credo per pregiudizio pacifista, volti e voci di questo migliaio di “italiani” sono stati cancellati dalla nostra memoria collettiva. Nel mezzo secolo e passa in cui si è additata ad esempio la scelta della Patria di quanti combatterono nella Resistenza, non è sembrato opportuno insistere nella vicenda di chi, trent’anni prima, aveva scelto per Patria l’Italia di Vittorio Emanuele III e del generale Cadorna e, in seguito, del generale Diaz.
Solo da poco alcuni volti emergono dall’ombra, alcune voci riecheggiano dall’ovattato silenzio: sono per lo più volti di studenti, che ritroviamo impettiti nelle uniformi di soldati o di sottufficiali, orgogliosi di fronte all’obiettivo del fotografo italiano; e sono voci di giovani per i quali l’andare in guerra non ammetteva discussioni.
Nelle lettere scritte fra un assalto e l’altro, dal fango di una trincea o dalla corsia di un ospedale da campo, oggi scopriamo parole che potrebbero appartenere a qualche kamikaze irakeno, palestinese o afghano, per la determinazione a sacrificare la vita per una causa riconosciuta giusta, necessaria, santa. Qualche esempio, dai documenti esposti di recente in una mostra a Rovereto. «Sinora non ho ammazzato nessun tedesco perché non ne ho avuto occasione. Spero tra poco» : così, il 23 giugno ‘15, Mario Angheben, studente universitario di Lettere, che non sarebbe arrivato al Capodanno, ucciso sul Monte Baldo a ventidue anni. E se il suo odio contro i teutoni poteva avere qualcosa di libresco, non si rivelavano meno risoluti alcuni volontari di estrazione popolare: un falegname, Luigi Bonvecchio, («Non potete immaginare la soddisfazione che si prova a vedere questa gente umiliata fino alla midolla delle ossa»); o un tipografo, Arnaldo Riccardi, («Noi volontari la morte non ci fa paura»).
Lettere straordinarie sono dovute alla penna di Fausto Filzi, fratello di quel Fabio, lui stesso volontario “irredento”, che fu impiccato con Battisti nella Trento del 1916. I due erano figli di un istriano che insegnava Lettere classiche nel liceo di Rovereto. Solo Fausto aveva fama di gaudente. Senza finire gli studi, aveva lasciato l’impero nel ‘13, dopo aver ferito in duello un ungherese. Fuggito in Argentina, aveva vissuto di espedienti. Fino a quando, saputo della cattura e dell’impiccagione del fratello, era tornato in Italia e aveva indossato la divisa del Regio Esercito. Quel che rende impressionanti le lettere di Fausto, scritte nell’inverno del ‘16-‘17, prima di cadere ucciso sull’Altopiano di Asiago, è l’assoluta, spaventosa autocoscienza di chi le ha firmate: esattamente il contrario del volontario reso cieco dalla causa, fanatico senza discernimento, quale si è tentati di pensarlo. A un amico di gioventù, l’artigliere Filzi non nasconde il rimpianto di quel che aveva lasciato al di là dell’Atlantico: «Divine serie di cosce cicciute e di poppe erette…». Ma a Emma de Chiusole, che era stata fidanzata del fratello Fabio, raccontava l’attrazione per la prima linea: «Là avrò tutti i disagi, sarò ferito, forse troverò la morte, forse resterò mutilato; io ci penso a tutte queste cose, eppure son certo che non resterò deluso delle mie idealità, che a te sembrano esagerate…». Poi, il Fausto Filzi che, memore del fratello ignominiosamente giustiziato, usa il corpo come un’arma nelle guerre dell’odio: «Emma, credilo che quando penso che mi sarà dato finalmente di poter essere vicino, vicinissimo ai grugni austriaci, quando penso che una mia bombarda ne potrà frantumare una decina, credilo, Emma, che non posso pensare né alla mamma, né al papà, né a me, a nessuno…». E in una delle ultime lettere: «Io non riesco a convincerti, lo so, che faccio bene a far così, a voler io andare incontro alla morte, e per una ragione molto semplice, perché son convinto io stesso che faccio male. Perdonami almeno tu, se un giorno non potrà perdonarmelo la mia mamma».
Più dimenticati degli altri, i sudditi austriaci di lingua e di nome italiano: trentini, triestini, friulani, giuliani, dalmati, i quali, nella Grande Guerra, morirono sui fronti orientali, in Polonia, in Russia, nei Carpazi, (era lì che, per opportunità militare e politica, venivano inviati i soldati delle zone di confine, e, perciò, a rischio di familiarizzare col nemico), combattendo per una patria che due, tre anni dopo non sarebbe più stata la loro, in luoghi del tutto estranei, tra gente di cui non capivano la lingua e non conoscevano né la storia né le tradizioni. Per loro, niente monumenti, niente lapidi, niente memoriali. E niente mostre o convegni, niente ricerche storiografiche: militi ignoti per antonomasia, caduti per mano di nemici che probabilmente non sapevano neppure di avere, in regioni lontane, delle quali forse molti non avevano mai sentito parlare.
Fin dagli ultimi decenni del secolo precedente, la società si era spaccata: da una parte, gli “italianissimi”, dall’altra gli “austriacanti”. E, com’è noto, i primi si contavano soprattutto nella classe colta, informata, tra intellettuali e professionisti, i quali si aspettavano grandi cose – soprattutto in campo economico – dall’annessione all’Italia delle loro province ampiamente trascurate dal governo centrale di Vienna. E furono in particolare costoro che, nel ‘15, si unirono alle truppe italiane. A volte anche abbandonando la divisa austriaca per indossare l’altra; a volte senza neanche il bisogno di questo passaggio, dal momento che si erano preventivamente spostati al Sud, oltre il confine, evitando l’arruolamento nell’esercito imperiale.
Gli altri, gli austriacanti, erano, con qualche rara eccezione, per lo più contadini – conservatori per antropologia culturale e per esigenze di mestiere – boscaioli, braccianti, operai: insomma, la classe sociale sulla quale aveva forte presa la Chiesa, notoriamente filo-austriaca e tutrice del sacro ordine antico.
Partirono, questi giovani sudditi, spopolando le campagne e le valli, non pochi di loro ben decisi, in risposta all’appello dell’imperatore Francesco Giuseppe, “Ai miei popoli”, a difendere ad ogni costo la cara Patria; mentre altri – sicuramente i nuclei più numerosi, i gruppi maggioritari – avevano indossato le divise dell’Esercito Imperiale perché erano venute meno la lungimiranza e l’accortezza politica per capire l’evoluzione dei tempi. Tutti quanti, molto più probabilmente, perché obbedire è sempre meno complicato e pericoloso che ribellarsi.
Niente gloria, dunque, per tutti questi giovani coinvolti nell’incendio al calor bianco che annientò la potenza secolare dell’Europa. E, purtroppo, assai poca o nessuna memoria visibile sui fronti, al margine delle trincee, nelle città d’origine, in un qualche sacrario dedicato, in Austria o in Ungheria. Condannati all’oblio che la Storia assegna come condanna senza appello agli incolpevoli sconfitti.
Abbandonare casa, terra e piccola Patria per mantenere la propria identità e per continuare a parlare la lingua degli avi; oppure restare, ma cambiare tutto e forse, alla fine, dover lasciare comunque ogni cosa per trasferirsi in un’altra parte d’Italia o addirittura in Africa: il dramma degli abitanti del Sud Tirolo/Alto Adige subito dopo la fine della Grande Guerra e al momento dell’intesa Mussolini-Hitler è un fatto storico di cui si è sempre scritto poco e che può essere capito solo lasciando parlare i protagonisti. «Scorrono lacrime a torrenti, le notti vengono passate insonni, abbattuti giriamo intorno, incerti dell’esecuzione di queste disposizioni…»: migliaia di lettere scritte, intercettate dalla polizia italiana, tradotte e conservate nell’archivio del ministero dell’Interno, prima di essere pubblicate all’inizio del nuovo millennio (Le lettere aperte 1939-43: l’Alto Adige delle Opzioni). Lettere di italiani, documenti ufficiali, ma soprattutto missive di altoatesini di lingua tedesca o ladina, identificati all’epoca come “allogeni” (di etnia diversa), e dunque sospetti per definizione e sorvegliati dalla polizia militare, dalle questure e dall’Ovra. Un’opera ciclopica, dal momento che venivano vagliate circa trentamila lettere al giorno.

Passati per trattato di pace dall’Impero Absburgico all’Italia da pochi anni, traumatizzati dal regime fascista che voleva italianizzarli ad ogni costo, gran parte degli altoatesini guardarono dapprima con speranza alla politica hitleriana, all’annessione dell’Austria, all’occupazione dei Sudati in Cecoslovacchia. Entusiasta, scriveva frate Patrik dal convento dei cappuccini di Merano, il 19 gennaio 1939: «Si calcola con assoluta certezza… che alla fine di febbraio, infallibilmente però alla fine di marzo, il Sud Tirolo sarà redento!». E il 24 maggio tale Edda comunicava a Trude Brigl, di Innsbruck: «Qualcuno racconta che il 20 giugno saranno chiuse tutte le scuole per dar quartiere alle truppe tedesche».
Ma Hitler aveva altre intenzioni, anche perché riteneva l’Italia un’alleata indispensabile. L’Alto Adige era solo una pedina di scambio. L’annuncio che il confine del Brennero sarebbe rimasto per sempre inviolabile diede il primo colpo alle attese dei tedeschi della provincia di Bolzano. Poi giunse l’accordo, sottoscritto il 23 giugno 1939, al quartier generale delle SS, tra Himmler e il prefetto di Bolzano, Mastromattei. I residenti che avevano conservato la cittadinanza austriaca, e ora – dopo l’annessione – tedesca, (undicimila), se ne dovevano andare subito. Gli allogeni (duecentomila, più diecimila ladini) avrebbero avuto più tempo per scegliere. In realtà, poi, i tempi si ridussero a poco più di due mesi, per via dei contrasti insorti tra Italia e Germania.
Reazioni di sconforto: «Così dunque ha agito l’eroe tedesco Hitler!», scriveva il 3 luglio il meranese Josef Maurer; o di rabbia: «Hitler viene qui chiamato il più grande bolscevico del mondo», sosteneva una lettera spedita da Lagundo a Martino Macule, di Monaco.
Poi venne il tempo dei dubbi laceranti. Che fare? Scriveva la sorella a Giuseppe Steinkellner, in Germania: «Saranno distribuiti dei moduli per sottoscrivere se si vuole andare in Germania oppure rimanere italiani». E Giuseppe Moling, ladino della Val Badia che non optò, racconta: «Ci dicevano che se rimanevamo dovevamo andare tutti in Sicilia».
Il Reich voleva un plebiscito: tutti in Germania, per dimostrare che il Sud Tirolo era tedesco. Roma dapprima non reagì, poi decise di mobilitarsi per trattenere la popolazione (e non dover pagare gli indennizzi per l’Alto Adige, «un pezzo di Patria già pagato con il sangue»). Accavallandosi, le voci creavano molta confusione: «Ci daranno masi identici nel Tirolo del Nord»; «Chi resta andrà nelle vecchie province meridionali del Regno, in Sicilia e perfino nella Libia»; «Potremo scegliere tra Albania, Tripolitania e Abissinia». Ben presto, però, la prospettiva per gli optanti divenne meno rosea: «Ci è stato inibito di stabilirci nel Nord Tirolo»; «Si parla della Polonia, di Zakopane… Sorgeranno nuove Bolzano, Merano, Bressanone». Poi, con il Blitzkrieg a Est, spuntarono destinazioni come l’Ucraina e persino la Crimea.
La realtà fu più vicina all’incubo. Dalla Germania pervenivano notizie catastrofiche. E tutti gli altoatesini abili finirono sul fronte orientale (i cimiteri lo testimoniano con le lapidi dei caduti a Stalingrado, a Kursk, a Orjol…). «Qui non siamo che schiavi, e guardati come scemi sudtirolesi», scriveva Luis Frenes, uno della Val Gardena. E Sebastian Arnold, di Bressanone, aggiungeva: «Non siamo considerati e non veniamo trattati come veri tedeschi». Per anni i civili (se ne andarono in sessantamila) rimasero bloccati nei campi profughi, senza lavoro, senza cibo. «L’emigrazione è il più grande inganno che sia mai esistito», scriveva Toni Plattner, da Innsbruck, alla madre rimasta a Bressanone. Un’ultima ubriacatura di assurdo entusiasmo giunse a ridosso dell’8 settembre ‘43: «Questa mattina il Fuhrer è entrato nel Sud Tirolo ed ora siamo finalmente liberati dall’oppressione degli italiani», vergava Johann Staffler dalla Val d’Ultimo. L’accoglienza per le truppe germaniche era stata entusiastica: «Le ragazze di Appiano sono andate incontro ai soldati con fiori, frutta, pane, liquori e leccornie». Immediatamente dopo, la stagione dell’occupazione tedesca si sarebbe rivelata tragica, con la caccia ai renitenti alla leva fienile per fienile, baita per baita, e con le atrocità commesse da un esercito sconfitto e senza speranza. Oggi i tedeschi li hanno quasi del tutto dimenticati. Gli austriaci li ricordano con nostalgie tenute a bada dai Trattati bilaterali e affievolite dalla prospettiva della Patria europea.
Era accaduto agli italiani che, nel nome delle speranze di fratellanza, di giustizia e di libertà dei popoli, avevano abbandonato la terra natale per trasferirsi nella Grande Madre Russia (sovietica), i più ideologizzati, o verso la contigua Jugoslavia coloro i quali comunque intendevano vivere in un “paradiso comunista”. Erano partiti con nel cuore l’entusiasmo dei neofiti e in testa l’immagine di una vita felice finalmente raggiungibile. Si trovarono, di lì a poco, isolati, ghettizzati, costretti ai lavori forzati, chiusi in prigione, giustiziati senza processi e senza colpe, tranne quella di aver creduto all’avvenire di democrazia compiuta che sarebbe stata la devastante illusione prospettata dal totalitarismo stalinista.
(E per ritornare al tema del Tirolo-Alto Adige, attualmente, tra Bolzano – cioè l’Italia – e l’Austria è in corso una sfida di natura diversa. Dopo lo “scippo” di Oetzi, la mummia di Similaun diventata una star, Vienna ha deciso di correre ai ripari, rimisurando i confini lungo le Alpi Carniche, nel Tirolo dell’Est. «È da 35 anni che non facciamo un controllo», sostengono gli austriaci, tutori di una terra, l’Alto Adige, appunto, che ha vinto già una volta il contenzioso, per una questione di pochi metri. Era il settembre 1991. I coniugi Simon trovarono proprio sul crinale di confine la mummia e diedero l’allarme. Italiani e austriaci arrivarono in un baleno, ma l’alpinista Reinhold Messner fu bruciato sul tempo dai tirolesi, che giunsero sul giogo di Tisa con un elicottero, raccattarono Oetzi di volata e se lo portarono via. Si aprì una contesa politico-geografica, con doccia gelida finale per Vienna: la mummia si trovava in territorio italiano, perché le pietre confinarie si erano spostate da sole, insieme al ghiaccio, di 70 lunghissimi metri: uno smacco, perpetuato negli anni dall’aver visto Oetzi diventare un’attrazione turistica per centinaia di migliaia di visitatori ogni anno.
Ma i confini italo-austriaci erano stati protagonisti di un altro caso clamoroso, quello di Karola Unterkircher, la vivandiera degli Schutzen implicata nelle bombe di “Ein Tirol”. Costei fu attirata in trappola a Passo Rombo. Ricercata in Alto Adige per gli attentati degli anni Ottanta, si era incontrata sul valico – ovviamente sul versante austriaco – con un suo presunto amico, che in realtà era al soldo dei carabinieri italiani del Ros. Una passeggiatina ritenuta innocente, magari per parlare di Heimat e di Tirolo unificato, ma fu così che Karola si ritrovò improvvisamente a terra: le erano saltati addosso una mezza dozzina di militari travestiti da turisti, dopo che l’amico presunto l’aveva trascinata in Italia. Anche allora, polemiche a non finire. Poi, la verifica dei confini: arresto proditorio, ma regolare!).
I dimenticati che non dimenticano. Lo scenario è un altro. È quello della fine della Seconda guerra mondiale, e il confine da valicare è quello ad est dell’Isonzo, oltre il quale Caporetto adesso si chiama Kobarid, Capodistria è Kopar, Pola è Pula, Fiume è Rijeka, e se si parla di Trieste si dice Tvorak… Al di là dell’Altopiano di Asiago, terra disseminata di cimiteri della Grande Guerra, caduti dimenticati al modo di quelli di Caporetto (che già all’epoca vennero quasi rinnegati come rei di una rotta che andava addebitata solo ed esclusivamente all’incapacità strategica e all’ignavia dei generali italiani): siamo nell’Istria riottosa e ribelle che il presidente croato sorvola solo in elicottero, perché percorrerla rasoterra pare gli procuri l’orticaria. Così racconta il sindaco (una donna) di Degnano, Vodnjan secondo la grafia ex jugoslava, e ora croata, che, insieme ad alcuni altri personaggi di origine italiana, ha impedito che venissero cancellate lingua, storia e tradizioni che furono italiane, veneziane, romane, viste come prodotto di un nemico che era nemico non solo perché italiano, ma soprattutto perché istriano.
Ad osservarli attentamente, ci si accorge che molti uomini hanno l’andatura capo-hornista, come dicono: nel senso che gli istriani e i dalmati hanno fama di marinai doppiatori di Capo Horn, che non è cosa da poco. È pane fatto in casa anche in quel di Pola, che è la città di James Joyce, la cui casa era all’Arco dei Sergi, un arco romano di epoca augustea, la cui silhouette si trova nei disegni del Sangallo e di Michelangelo; è il porto della Imperiale Marina austro-ungarica che vi fece la sua base principale, e dell’irredentista Nazario Sauro che cercò di farla saltare in aria, prima di essere appeso alla forca innalzata al Castello che domina la città; fu l’ultima sosta delle migliaia di italiani cacciati, o fuggiti precipitosamente per non finire morti ammazzati; ed è la piccola patria di quelli rimasti italiani in un luogo dove nessuno li ha voluti più, come gli ebrei di Hebron prima della nascita di Israele.
Nelida Dilani, scrittrice, e Anna Maria Mori, giornalista, la prima rimasta a Pola dopo l’esodo, la seconda “esodata” negli anni Cinquanta, hanno fatto un ritratto drammatico degli italiani malati di italianità in Bora: non c’è saggio di storia o di antropologia culturale che renda così bene la miseria del vivere italiano da queste parti dal 1940 al 1990. Si capisce che le passioni spese non furono passioni spente. Sandro Pertini, l’ultimo dei presidenti gnorri, volle credere il contrario: visitò Trieste e non accennò per nulla all’esistenza degli esuli istriani. Figuriamoci se aveva intenzione di aprire l’armadio degli scheletri jugoslavi con la storia delle foibe scritta dalla ferocia degli antichi amici, suoi e dei comunisti italiani, i partigiani titoisti.
Ha scritto Enzo Bettiza che il Pci fu «complice attivo... dell’espansionismo jugoslavo sui confini orientali: basterà ricordare l’eliminazione notturna dei partigiani non comunisti a Porzus, la raccomandazione di Togliatti ai lavoratori triestini di accogliere i soldati di Tito come liberatori, poi il prolungato silenzio sul massacro di antifascisti italiani e sloveni in Istria, infine il trattamento riservato alla massa degli esuli affamati e assetati, ma “tutti fascisti”, ai quali i ferrovieri comunisti di Bologna negavano perfino un bicchier d’acqua. L’omertà accordata a un certo comunismo imperialistico jugoslavo si prolungherà, quindi, fino all’epoca nazicomunista di Milosevic». Quando si scoperchierà del tutto l’orrore delle foibe, ha chiosato Bettiza, si attribuirà l’ecatombe «soltanto agli sloveni e ai croati, dimenticando che quasi tutti i comandanti del famigerato IX Corpus titoista erano serbi o montenegrini. Fu questo Corpus, pilotato da Belgrado, a confiscare sul finire della guerra l’Istria, Trieste, Gorizia, e furono i suoi comandanti a ordinare ai comunisti italiani lo sterminio dei partigiani italiani nel Friuli». Per quel che riguarda i comunisti sloveni, nell’agosto ’44 rivendicarono una larga fascia del litorale, comprese le città miste, avviando la slovenizzazione di Lubiana, Gorizia, Trieste e Klagenfurt. E intanto continuava l’azione genocida, che vide cadere forse ventimila, forse trentamila uomini (e almeno 80 preti) nell’area delle foibe. Una ventina di queste sono state individuate tra Gorizia e Pola, ma in territorio italiano oggi ci sono soltanto quella di Monrupino e quella di Basovizza, nell’entroterra triestino. A Basovizza, si parla di «500 metri cubi di cadaveri»: uomini e donne sfracellati, per i quali l’inferno iniziò con lo scoppio della pace: tutti consegnati per decenni alla congiura del silenzio decisa per omertà ideologiche e per complicità annessionistiche. Memoria cancellata, senza mai un minimo segno di rimorso.
Ancora oggi c’è chi ha paura della “reitalianizzazione” di quelle terre, come ci dicono a Buie, la “vedetta dell’Istria”: un paesino con i puri colori della campagna, marrone e verde, fatto a cono come i piccoli centri delle Alpi o degli Appennini, con il campanile in alto, con le memorie di Roma e di Venezia in ogni angolo di strada. A Buie si incrociano le strade che portano in Slovenia, in Dalmazia, ad oriente per andare in Bosnia, a occidente per Venezia. In un cimitero vicino è sepolto Fulvio Tomizza, lo scrittore che ambientò molti suoi romanzi nel villaggio di Materada, ai fianchi dell’altura. Nel paese ci sono 500 italiani; gli altri sono croati, bosniaci, montenegrini. Gli italiani parlano, tra di loro, in istro-veneto, sono tutti dialettofoni, ma continuano a pensare e a scrivere in italiano: come gli ebrei di Masnada – dicono – quando furono circondati dalle legioni romane; fino all’ultimo tennero fede ai loro riti e miti: «Ma noi, a differenza loro, non ci siamo suicidati».
Appena quindici chilometri più in là, a Umago, capitale del turismo istriano, l’italiano va di moda. Dicono i “neo-irredenti”: «Scrivere, soprattutto poesie, è stata l’unica via di sfogo per gli italiani. E per le italiane. Guarda quante poetesse istriane! Altro non potevamo avere. Ma senza la lingua non hai inconscio, né pensieri da esprimere. Semplicemente, e tragicamente, non esisti».
Per una manciata di euro al mese, due giovani ragazze, un paio di volte la settimana, attraversano la valle del fiume Quieto, che punta al mare come una spada. I boschi della vallata hanno fornito alla Serenissima il legname per le sue flotte. A metà valle c’è il colle di Montona, forse la più incantevole cittadina dell’Istria. In due chilometri quadrati c’è un concentrato di storia e di arte romana e veneziana. Intatta. Ben curata. Silenziosa come un secolo fa. Rispettosa delle memorie di tutti. Qui le aspettano gli alunni, una quarantina di ragazzi dai sei ai trent’anni, figli e nipoti di italiani, e qualche croato curioso o qualche sloveno di passaggio. Ci sono meccanici, cameriere, studenti. Il resto della popolazione li guarda con sufficienza. Anche se Montona, e insieme Grisignana, una cittadina a dieci chilometri, enorme atelier di pittori e di scultori, un giorno erano a maggioranza italiana, la nostra lingua era scomparsa perché soppressa. Che cosa importa a questi ragazzi dei verbi, dei nomi e pronomi, degli aggettivi della lingua in cui “il sì suona”? Montona e Grisignana sono fuori da ogni via commerciale. Per andarci, bisogna conoscere la strada. E per imparare l’italiano bisogna crederci. Alcuni di quegli alunni sono valligiani, per raggiungere la scuola devono levarsi di buon mattino, quando il Quieto fa nebbia e rende l’asfalto delle strade scivoloso. Eppure le iscrizioni sono in aumento. «Ma che cosa vi muove?», chiedo. Le ragazze, più numerose, vogliono imparare la lingua della madre e della nonna, leggere e capire l’arte e la letteratura dell’Italia, aggiornarsi come tutti i ragazzi della penisola, poter stabilire contatti con loro. I ragazzi non rispondono. Forse perché hanno imparato a non fidarsi. I loro occhi, schivi e fieri, si concentrano sui block notes.
I nostalgici ricordano Diocleziano, l’Imperatore romano che era nato a Spalato, e Giustiniano, l’Imperatore dei bizantini, che era nato nell’illirica Scupi, oggi Iskub, e poi i grandi comandanti veneziani, le ciurme bellicose delle piraterie mediterranee, i capitani di lungo corso per l’Austria-Ungheria, i grandi viaggiatori come Marco Polo, e la Repubblica di Ragusa, città che oggi si chiama Dubrovnik, e il magnifico duomo di Sebenico… Non dimenticano lo scultore e architetto Giorgio Orsini, la cui attività viene relegata nell’ambito angusto dell’arte croata, sebbene abbia lavorato molto ad Ancona, inserendosi nel filone del Rinascimento italiano; né i fratelli Laurana, dalmati di Zara, che operarono a Napoli, a Urbino e a Mantova. E i linguisti più colti rammentano che fu un biblista dalmata, san Girolamo, autore della Vulgata, ad imporre il latino come lingua universale della Chiesa, mentre Gianfrancesco Fortunio, anch’egli nativo di Zara, stampò nel 1516 ad Ancona la prima grammatica italiana, e Niccolò Tommaseo, originario di Sebenico, fu autore del celeberrimo Dizionario dei sinonimi italiani…
“Dalmazia”, originariamente, significava “Paese delle montagne”, mentre nel nostro immaginario si identifica piuttosto con le sue aspre e incantevoli coste, con le isole e le città marinare, e con un mare che il poeta Tonko Maroevic, nato a Lesina, identifica con lo “specchio adriatico” che ha dato il nome ad una delle sue ultime raccolte di versi. Dice Claudio Magris: da sempre la Dalmazia è un crogiolo, ora armonioso ora conflittuale, di culture, dai greci agli illiri e ai romani, e ad altri popoli del passato, dalla plurisecolare indelebile impronta veneziana a quella croata, stratificata, e dal breve dominio napoleonico a quello absburgico, fino all’ultimo conflitto, che ha dissolto la Jugoslavia. In questa terra “slavo-latina”, come l’ha definita Enzo Bettiza, che ne ha dato nei suoi romanzi possenti rappresentazioni poetiche, tutto si intreccia e confonde.
Ma la presenza italiana, così fondamentale per l’Illiria-Dalmazia, è andata via via assottigliandosi, fino al selvaggio bombardamento inglese di Zara, al baratto “terre italiane in cambio di neutralità titina” realizzato dagli americani, e all’inenarrabile esodo alla fine della Seconda guerra mondiale.
Oggi gli italiani dello Stivale ignorano il ruolo decisivo della presenza veneta e italica e il suo grande e drammatico declino. «Pregiudizi, violenze e rancori hanno lacerato quella terra sanguinea, vitale ed eccessiva, e insanguinato il suo mare degli dèi…», sostiene Magris. «Ognuno, nella storia grande e straziata di questa terra, ha da chiedere perdono. Parce mihi, Domine, quia dalmata sum, diceva l’iracondo san Gerolamo: Perdonami, Signore, perché sono dalmata».

 

   
   
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