Giugno 2007

idee in marcia, partito unico, governabilità, riforme

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Il corvo, il gufo
e le libellule
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

Sopravvive
l’Italia delle
Signorie e l’azione calmieratrice del governo, anche quando è voluta, non è incisiva,
resta monca
per deficit
di grammatica
e di sintassi.

 

Nel balletto delle ombre che ogni giorno manda in scena la nostra classe politica si avverte un fruscio di ali. Tra le quinte, dove più si logora l’aplomb del Palazzo, si agitano fantasmi pensosi nel tentativo di accreditare una nuova interpretazione del bipolarismo, con minore dipendenza dai detriti che lo rendono immaturo.
A sinistra, qualche anno fa Ds e Margherita avevano affidato ad un Club di 12 saggi la stesura di un Manifesto, preludio al Partito Unico, soggetto istituzionale ritenuto necessario per migliorare la cultura di governo. Altra cosa è il passaggio successivo, il rito dei Congressi di fine stagione, il collaudo della Casa comune, la morfologia del nuovo apparato. Se il nuovo soggetto politico porterà a sintesi il dialogo tra affinità difficili. Se saprà dare valori nuovi alla ragione laica. Se incoraggerà la crescita indicando rotte che non procurino turbolenze di mercato. Se saprà costruire formule originali di venture capital sociale. Tutti questi Se procurano trepidazione mista a pessimismo e fanno arricciare il naso ai portatori di istanze per una modernità governabile. Il Partito Democratico sarà evento di portata storica se sarà portatore di una cultura politica innovativa, se saprà assorbire e modellare il “sentimento di clandestinità” di presenze senza interruzione di memoria.

Anche a destra si cerca di dare vita ad un nuovo soggetto politico (Federazione o Partito Unico?). Anche qui l’obiettivo è giungere ad uno schema monolitico, con unica leadership e unica regia. Se ne parla tra duelli neocon di nuova e vecchia fattura, tra strappi sospesi e accelerazioni improvvise. Facendo uso di mondanità salottiera, sorrisi al vetriolo, pensieri in cassaforte.
Stiamo arrivando ad una stazione di testa? Ad un finale wagneriano celebrativo di personalismi impoveriti? Per ora nei logo si vedono colori di Belzebù. Resta una fatica di Sisifo uscire dal pantano immobilista, in cerca di soluzioni aderenti alle esigenze di governance ora affidate al pendolo dei transfughi. Trame effimere costruite sul voto marginale, affidate a libellule svolazzanti tra i protettorati del corvo e del gufo. Per raccontare storie di sopravvissuti con gambe rotte e ingessate. Cambia il contenitore ma restano le ambizioni frastagliate della vecchia-nuova dirigenza. Di solito gli imperi muoiono per implosione, difficilmente sopravvivono per rifondazione. Ma quando grande è il disordine sotto il cielo, quando l’inflazione della rappresentanza crea un oligopolio politico che privilegia la società semi-chiusa, ogni refolo di vento rinfresca l’atmosfera.
Cerchiamo di decriptare i messaggi.
La Magna Charta di sinistra non prefigura virtù magiche, è il risultato di un onesto lavoro di laboratorio, il tentativo di saldare l’anima cattolica e l’anima socialista, due patrimoni illustri della nostra storia unitaria. Documento necessariamente generico per la sua funzione-cornice, apprezzabile per alcune riflessioni sull’impegno civile, sui rapporti con le religioni (apprezzato il plurale in un momento di forte contrapposizione), sulla crescita di democrazia ancorata allo sviluppo economico e culturale. Non c’è una teoria dello Stato o delle forme di governo, si avvertono invece tanti stimoli per l’approfondimento di istituti giuridici con cui ricucire i rapporti deteriorati tra diritto, economia e società. «... Siamo convinti che l’Italia abbia bisogno di una cura straordinaria di concorrenza nei mercati e di efficienza nel settore pubblico... Per promuovere un maggiore riconoscimento del merito, una più forte mobilità sociale, una più avanzata uguaglianza delle opportunità. Più concorrenza anzitutto».
Sembrano messaggi per la società finlandese più che per quella italiana. Formule buone per ogni stagione liberista, difficilmente praticabili da noi per il dominio di un disfattismo della ragione che nega ogni spazio alle necessità condivise. È il nostro limite sulla via della stabilizzazione.
Il liberismo è costume e metodo, «un modo di ragionare più che una dottrina economica» (parole del Governatore Draghi). Oltre l’aneddotica non offre caratteri di modello, talvolta acquista notorietà per essere al centro di dibattiti politici come prova di dialogo senza comunicazione. Viviamo una stagione di grandi e piccole mistificazioni. La voglia di liberismo scompare quando si tenta di fare la cresta ai micropoteri. L’idea della concorrenza non piace a nessuno, è un’idea anti-Vip che talvolta si traduce in papocchio legislativo.
Quella parte del sistema industriale che opera su base tariffaria (luce, acqua, gas, trasporti) garantisce soddisfacenti prestazioni per prezzi, costi, tecnologie e processi produttivi? La risposta è negativa se si guarda alle denunce di cartello, alle continue dispute tra gestori e Authorities. Sopravvive l’Italia delle Signorie e l’azione calmieratrice del governo, anche quando è voluta, non è incisiva. Resta monca per deficit di grammatica e di sintassi.

L’approccio all’internazionalizzazione avviene in ordine sparso (una curiosità: perché le banche italiane si ritirano dal Brasile mentre arrivano le banche spagnole?). Domina una cultura levantina dell’economia, fatta di furbizie e di privilegi, di finanza e di patrimonializzazione più che di economia di scala e professionismo industriale. Quando pezzi pregiati del nostro sistema industriale rischiano la via dell’estero politici e sindacalisti si preoccupano e si ricompattano perché temono di dover giocare partite con regole diverse da quelle cui sono abituati (trattative ad oltranza per cassa integrazione e prepensionamenti, tavoli di concertazione senza fine per progetti di rilancio). All’ombra dell’orgoglio nazionale i poteri si attivano e si danno sostegno reciproco nel timore di essere spiazzati da operazioni “destabilizzanti”.
Avremmo bisogno di un mercato finanziario robusto e vitale per dare impulsi di crescita alla grande impresa (con l’indotto della formazione, della ricerca, dell’innovazione). Invece abbiamo un mercato finanziario asfittico, governato quasi in solitudine dalle Fondazioni bancarie. Mancano i grandi investitori istituzionali non legati alle banche per cui l’interesse allo sviluppo non riesce a sottrarsi ad inevitabili condizionamenti di monopolio e oligopolio. Tra realismo e magia spuntano sempre ragioni di opportunità che generano Club ristretti. L’interesse collettivo resta residuale, come dimostra il tema spinoso della tutela delle minoranze delle aziende quotate. Nelle situazioni di crisi abbiamo suggerito più volte il ricorso alla public company (lo abbiamo detto per Fiat e ripetuto per Alitalia e Telecom), ma ci rendiamo conto che questa ipotesi di lavoro può essere vagliata solo a seguito di una rivoluzione copernicana. Nell’era tolemaica in cui ci è dato vivere cresce la conflittualità tra le istituzioni, si rafforza in economia la logica dei blocchi azionari di controllo in cui la componente finanziaria prevale sul progetto industriale. Crescono i diritti affievoliti prodotti dalla cultura del perdonismo (presenza di zone franche non solo nelle banlieues, ampliamento dei comportamenti delittuosi e omertosi al punto di valorizzare le tendenze autarchiche del fai da te). Si fa fatica a non avvertire nostalgia per lo sviluppo del dopoguerra, quando i rapporti Stato-Paese erano fortemente dialettici ma sempre socialmente costruttivi.
A fronte di una realtà cristallizzata abbiamo una crescita pallida, attestata attorno al 2%. Se scomponiamo questo dato troviamo una crescita di “minoranza” (con vitalità di settori a basso valore aggiunto) e una base imprenditoriale largamente inerte (si perdono quote di mercato a vantaggio di India e Cina). Dunque crescita di élite, non crescita di popolo. Manca l’effetto trainante, il contagio del rischio e dell’avventura che dalla nicchia si espanda producendo storie di accanimento terapeutico. Manca ciò che Gianni Agnelli, ragionando di capitalismo, definiva know-how di sistema.
Se il lessico descrittivo non coincide con il lessico prescrittivo e questo non coincide con le pratiche operative, il sistema si inceppa. Con preoccupanti conseguenze sociali, poiché le classi imborghesite si sono nuovamente sfilacciate raggruppandosi attorno a tre status di nuovo conio: gli intoccabili, gli immobili e i precari. La polarizzazione dei redditi, con effetto schiacciamento per le classi medie, non può valorizzare il merito, i doveri della professionalità e della responsabilità. C’è bisogno di più vitalità e meno vitalizi, di un modello sociale flessibile per ridurre le paure della globalizzazione, rafforzando la capacità competitiva. Invece tra pratiche provinciali o voglia di mondializzazione viviamo una crisi strutturale innervata nella società. Siamo nel bel mezzo di un dilemma. In un mondo di gobbi o cerchi un sarto che ti faccia il vestito con la gobba o cerchi un chirurgo che corregga la gobba. Le riforme che servono a togliere le gibbosità del sistema devono maturare nella società, devono costituire un’occasione di emancipazione della coscienza individuale, fino a creare rigetto per i mille rivoli di sovranità limitata che popolano l’involucro statual-nazionale.
In linea con le nuove categorie globali ispirate da un’etica antropocentrica hanno bisogno del conforto convinto della pubblica opinione, non solo del consenso governativo risicato, sindacalmente contrattato. Si leggano gli studi sulla crescita di Robert Solow. Dovrebbero diventare la Bibbia di coloro che in Italia si occupano di economia e di politica. Rispetto agli economisti, i politici hanno in più il problema del consenso. Ma sulle riforme non si può conquistare consenso sociale con sentimenti borderline presenti in ogni trasloco di Palazzo. Ai No delle lobbies e degli apparati economici pubblici si aggiungono i No di pezzi di società ostili al cambiamento (Tav, rigassificatori, nucleare). Tanti No infilati nel tritacarne della politica per speculare sul consenso sospeso tra Progresso, Ambiente e Mercato.
Mentre il tempo della politica corre tra stagioni congressuali e tornate elettorali, diventa sempre più difficile contrastare il dissenso frondista che produce freakonomics, economie eccentriche ed estemporanee che ritardano l’impostazione generale delle politiche di sviluppo (spese produttive e investimenti infrastrutturali).
In un tessuto sociale sfilacciato puntellare il bipolarismo rinverdendo semplicemente le alleanze di potere sa più di tattica che di strategia. Abbiamo voluto una moneta forte ma non abbiamo la cultura di una moneta forte, che si identifica con una scacchiera composita di sinergie tra volontà collettive e volontà istituzionali. Coltivando tenacemente l’agio effimero dell’immobilismo il Paese resta diviso tra due subculture in conflitto, quella del perfettino-integralista e quella del riformista-casual chic. Abbiamo in vetrina un futuro ignoto e un passato dalle tracce indelebili che produce spinte inerziali.
«Non oscuratemi il sole», griderebbe il poeta croato Andelko Vuletic. Abbiamo numeri ancora gestibili, ma non abbiamo la rotta per uno sviluppo di sistema. Per uscire dal labirinto delle contraddizioni tra realtà e rappresentazione, tra spirito nazionale e patriottismo economico, tra risiko politico e governo del Paese reale.
Chi ritiene che il consolidamento della competizione bipolare possa servire a trovare la rotta deve fare i conti con un tasso di frazionismo in crescita esponenziale (nonostante il rinnovato slancio per i sogni unitari), con una cultura maggioritaria inesistente, con riforme della Costituzione sospese, con un Paese ripiegato su una fitta rete di poteri autoreferenziali. Cresce l’inquietudine del contribuente-consumatore mentre Mr. Brontolo resta parcheggiato a metà strada, tra una suite dell’Ancien Régime e un pensionato della modernità liberale. Naturalmente si giudicano i fatti, non le recite e le buone intenzioni. Bisogna capire quale sarà l’effetto sistema del nuovo corso politico. Noi ci limitiamo a suggerire l’attenzione per un antico adagio cinese: “Se si vive nell’anno della Tigre, non si può consumare il cibo dell’anno del Coniglio”.

 

   
   
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